Riportami nelle zone più alte
In uno dei tuoi regni di quiete
È tempo di lasciare questo ciclo di vite
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai
Perché le gioie del più profondo affetto
O dei più lievi aneliti del cuore
Sono solo l’ombra della luce
Franco Battiato ci ha lasciati oggi 18 maggio 2021, a 76 anni. Dire che ci mancherà è riduttivo: dire che avremmo ancora bisogno di lui non gli renderebbe giustizia. Di sicuro il Maestro (come non amava essere definito: momento di retorica n. 1) credeva fermamente nel ciclo della rinascita, nella reincarnazione e in molte altre idee che possono farci pensare che ora stia bene, ovunque sia.
Oggi, e nei prossimi giorni a venire, risuoneranno nelle case le sue canzoni. Dalle più famose, divenute ormai delle vere e proprie hit, alle più sconosciute e seminali, riportate in vita dalla metà degli anni Sessanta, quando Franco Battiato ha esordito. Proprio ora una finestra aperta diffonde per l’intero quartiere una sua canzone: le celebrazioni sono iniziate, tra nostalgia e formalismi. Concentriamoci sul suo percorso artistico, la sua vera eredità (momento di retorica n. 2), e sul suo pensiero che ci riporta a una dimensione immateriale e spirituale nella quale sicuramente si trova anche lui ora.
Franco Battiato esordisce in piena epoca di contestazione: il suo compagno di esordio in televisione, nel 1967, è un altrettanto sconosciuto all’epoca Francesco Guccini, e il suo mentore agli inizi è Giorgio Gaber. Sono due figure assolutamente distanti da quella che sarà la poetica di Franco Battiato, che dal 1968 decide di darsi alla canzone romantica. In un’epoca in cui la chitarra veniva imbracciata come un fucile e diventava strumento di propaganda per le lotte operaie, studentesche e femminili, l’artista si dà al cantautorato, la forma più granitica e conservatrice della canzone italiana. Ma lo fa, naturalmente, a modo suo. Guardando a un sound lontano dai canoni occidentali e con una strumentazione che rifugge dai canoni del pop e del rock per sperimentare sonorità elettroniche, nuovi strumenti e influenze che spaziano dalla world music alla musica classica al nascente sinth pop.
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Il primo album, Fetus, viene censurato per l’immagine di copertina che raffigura, per l’appunto, un feto e vende appena settemila copie. Ma dà l’impronta di ciò che sarebbe stato il lavoro di Franco Battiato: non una corsa a sfuggire alle classificazioni e a nascondersi dalle tendenze dell’epoca, ma un viaggio alla scoperta di se stesso e di mondi lontanissimi. In un’epoca musicale come gli anni Settanta, dove chi non scriveva canzoni di protesta era comunque rimasto ancorato al mito (divenuto in alcuni casi stereotipo) del cantautore, Franco Battiato si guardava dentro, guardando al tempo stesso lontanissimo da sé. Sono gli anni delle performance teatrali e del sodalizio artistico con il violinista Giusto Pio, di album e collaborazioni sfornate a ritmi da record ma rimaste per lo più sconosciute al pubblico generalista.
Il Franco Battiato che conosciamo tutti arriva sul finire degli anni Settanta, quando pubblica L’era del cinghiale bianco. Il disco non avrà fortuna all’epoca ma, come spesso accade per i geni (momenti di retorica n. 3) è considerato a posteriori il primo grande album dell’artista, quello che congiunge sound e poetica degli inizi con una maturità e un ritorno a sonorità pop che non sfoceranno mai nell’autoreferenzialità e nella classica “canzone all’italiana”.
Da lì sarà un fluire pressoché ininterrotto di successi, collaborazioni (le più note con la cantante Alice e col filosofo Manlio Sgalambro), derivazioni più o meno pop, rock ed elettroniche, più o meno impegnate. Dagli anni Ottanta a oggi Battiato registra album come Patriots, La voce del padrone, Mondi lontanissimi, Fisiognomica, Come un cammello in una grondaia, Café de la Paix, L’imboscata, la trilogia Fleurs, Gommalacca, Apriti Sesamo, con buona pace dei molti altri che non abbiamo citato.
L’ultimo album di Franco Battiato, Torneremo ancora, risale al 2019 e si compone di nuovi arrangiamenti di sue canzoni, più un inedito, la title track. Una sorta di testamento in cui l’autore ribadisce la sua fiducia nella rinascita, nelle infinite possibilità che ci offre la vita nel suo rinnovarsi continuamente. Risentiamola, se vi va.
Quando uscì questo ultimo album, annunciato come una sorta di “testamento” dell’artista, molti critici si chiesero se si trattasse di una mera operazione commerciale a opera della famiglia di Franco Battiato. Il tocco che la Royal Philarmonic Orchestra di Londra conferisce ai brani non è solo di classe: gli arrangiamenti puntano a creare un tappeto sonoro che favorisce l’estraniazione, quasi uno stato meditativo, nell’ascoltatore. E in questo suono così limpido, spaziale e rarefatto, le ultime parole mai scritte da Franco Battiato sono di una semplicità cristallina:
La vita non finisce
È come il sogno
La nascita è come il risveglio
Finché non saremo liberi
Torneremo ancora
Ancora e ancora
Vogliamo pensare che l’ultimo album di studio di Franco Battiato contenga una canzone come tante, che sarebbe stata molto bene in uno dei suoi album più “spirituali”. Probabilmente è così: nella sua semplicità questi versi racchiudono un messaggio che parla a tutti, e questa volta senza bisogno di interpretazioni.
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Decenni di sperimentazione musicale, di studi di lingua araba e misticismo orientale, di canzoni ispirate al sufismo e al pensiero di Gurdjieff, di provocazioni commerciali, di versi che per sua stessa ammissione vogliono dire tutto e niente, di voracità intellettuale e filosofica e insieme di pragmatismo sociale (famosa è diventata la frase «Per un gesto di dignità umana sarei capace di buttare nella spazzatura tutta la mia musica, perché per me prima dell’arte viene l’essere»), di impegno e disimpegno hanno condotto Franco Battiato di fronte alla fine della vita. O forse all’inizio di un’esperienza diversa, nella quale si manifesteranno echi sconnessi di ciò che è stata la sua esistenza precedente, come cantava in Café de la Paix.
Non è per niente facile racchiudere quello che Franco Battiato ha rappresentato per la musica e la cultura italiana. Non abbiamo perso solo un grande musicista e un grande intellettuale (momento di retorica n. 4), abbiamo perso forse uno degli ultimi rappresentanti di un’idea di cultura forse d’altri tempi ma di cui abbiamo più bisogno che mai. Una cultura che guarda lontano, all’Oriente mistico e colorato come a una Russia austera e resa incolore dalla neve. Versi che mescolano concetti di grandi pensatori con immagini vivide e meravigliosamente banali di vita quotidiana. Un tipo di cultura che non va in tv, non sta sui social, che colleziona libri e coltiva una solitudine necessaria per poter parlare a tutti con i suoi versi e la sua musica.
Non c’è bisogno di “capire” Franco Battiato: basta solo restare in ascolto delle sue parole e tentare di carpire quei messaggi che arrivano come ultimi scampoli di un sogno. Il Maestro era innanzitutto il viaggio che ci ha fatto fare: un viaggio che si svolge dentro di noi dove, contrariamente a un detto mistico che amava citare, un contenitore più piccolo può davvero contenerne uno più grande. Anche infinito.
Franco Battiato non è morto, si è appena affacciato alla vita. La sua opera e la sua esistenza sono apparse per un attimo e sono sparite, come l’ombra della luce. Per rinascere, ancora e ancora.