Lunedì 10 maggio sulla rivista scientifica Nature Medicine sono stati pubblicati i risultati di uno studio clinico di fase tre volto a indagare l’efficacia e la sicurezza dell’uso di MDMA nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici. Si tratterebbe del primo studio clinico su una terapia assistita da psichedelici ad aver raggiunto una fase così avanzata. I risultati sono stati molto soddisfacenti e potrebbero aprire nuove strade alla ricerca di medicinali specifici per la cura di disturbi psichici particolarmente invalidanti e difficili da trattare. Primo fra tutti è il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), il quale – si legge nello studio – rappresenta un problema sociale di vasta portata per cui le cure attualmente disponibili appaiono poco efficaci. Gli esperimenti condotti in doppio cieco hanno riguardato pazienti affetti da un severo disturbo da stress post-traumatico, talvolta accompagnato da comorbidità quali dissociazione, depressione, un passato di abuso di alcol o droghe, trauma infantile.
I novanta partecipanti, dopo una preliminare valutazione psichiatrica, sono stati trattati con MDMA o con placebo. I farmaci sono stati combinati con sessioni di terapie preparatorie e integrative. I sintomi del disturbo da stress post-traumatico, così come l’impatto della malattia sulla vita sociale dei pazienti, sono stati valutati facendo ricorso a due scale di misurazione: la Clinician-Administered PTSD Scale (CAPS-5) e la Sheehan Disability Scale (SDS). Per determinare l’efficacia della terapia oggetto di studio, i punteggi ottenuti in fase preliminare sono stati poi confrontati con nuove misurazioni fatte a due mesi di distanza. I dati suggeriscono che «la terapia assistita da MDMA rappresenta un potenziale trattamento innovativo che merita una rapida valutazione clinica».
MDMA, MD, Ecstasy, Molly: di cosa si tratta?
La 3,4-methylenedioxymethamphetamine, o MDMA, è una sostanza psicoattiva sintetizzata in Germania nel 1912. Con la conclusione del primo conflitto mondiale, il brevetto tedesco fu acquisito dagli Stati Uniti. Ben presto l’MDMA finì nel dimenticatoio, finché il suo nome non comparve per la prima volta all’interno di una pubblicazione scientifica nel 1973. Si tratta di un analogo delle anfetamine e i suoi effetti principali riguardano la produzione (e il rilascio) di serotonina e la stimolazione di neuroni dopaminergici. Stando a quanto si legge sul Manuale MSD, dal punto di vista sintomatologico la sostanza «provoca uno stato di eccitazione e disinibizione e accentua le sensazioni fisiche, l’empatia e la sensazione di vicinanza interpersonale».
Sono proprio questi ultimi due aspetti – l’alto grado di empatia e la percezione di vicinanza interpersonale – ad aver suscitato l’interesse di alcuni ricercatori e terapeuti, i quali tra gli anni Settanta e Ottanta ne hanno sperimentato l’utilizzo nel corso delle sessioni di psicoterapia. In assenza di effetti nocivi indesiderati (parliamo sempre di un uso controllato della sostanza pura), il farmaco fu impiegato come coadiuvante della psicoterapia. In particolare, era ritenuto un utile ausilio nelle sedute di coppia, in quanto avrebbe facilitato la comunicazione e la comprensione reciproca. Analogamente, si riteneva che l’MDMA potesse recare beneficio ai pazienti vittime di traumi irrisolti, agevolando il processo di elaborazione.
Nel 1983 venne coniato il nome ecstasy, per ragioni puramente commerciali. Nella ricostruzione di Bruce Eisner (psicologo e autore di Ecstasy: The MDMA Story), l’idea fu di un membro della rete di distribuzione di Los Angeles: inizialmente il nome commerciale doveva essere empathy (empatia), ma ecstasy avrebbe venduto di più. Anche perché «empatia sarebbe più appropriato, ma quante persone sanno cosa significa?».
MDMA e psichedelici: passi avanti in campo psichiatrico
«Dopo decenni di demonizzazione e criminalizzazione, le droghe psichedeliche sono sul punto di entrare nella psichiatria tradizionale, con profonde implicazioni per un campo che negli ultimi decenni ha visto pochi progressi farmacologici per il trattamento dei disturbi mentali e della dipendenza. La necessità di nuove terapie ha guadagnato maggiore urgenza in mezzo a un’epidemia nazionale di abuso di oppioidi e suicidi». È quanto scrive il New York Times nel riportare la notizia sul completamento dello studio clinico di fase tre sull’impiego della MDMA come coadiuvante della psicoterapia.
Nel mirino della Food and Drug Administration – che potrebbe approvare l’impiego dell’ecstasy in ambito medico nel 2023 – compare anche un’altra sostanza al centro di uno studio del New England Journal of Medicine: la psilocibina. Nelle settimane scorse, infatti, sono stati pubblicati i risultati di uno studio clinico volto a indagare l’efficacia di questo principio attivo nel trattamento della depressione. La psilocibina, altamente psicoattiva, è contenuta in alcuni funghi cosiddetti “allucinogeni”. Ci si potrebbe aspettare un segnale di maggiore apertura anche nei confronti dell’acido lisergico (LSD), potente allucinogeno che ha da sempre affascinato psichiatri e terapeuti di tutto il mondo. Ed è quello che si augurano ricercatori come Rick Doblin, pioniere della ricerca sugli psichedelici e fondatore della non-profit MAPS (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies), il quale compare fra gli autori dello studio.
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Possibili aperture in Europa?
Alla luce dell’attenzione (anche mediatica) che il tema sta riscuotendo negli Stati Uniti, è lecito domandarci se anche in Europa esistono gruppi di ricerca orientati a una possibile integrazione delle sostanze psichedeliche nelle terapie psichiatriche. In realtà, benché la scienza sia una disciplina universale e non conosca – in linea teorica – barriere doganali, di fatto ogni Stato adotta suoi specifici protocolli e affida al vaglio delle rispettive agenzie del farmaco le nuove proposte che provengono dalla comunità scientifica internazionale. In Europa non mancano centri di ricerca sugli effetti degli psichedelici. Negli ultimi anni sono stati condotti importanti studi sulla psilocibina in università come quella di Zurigo o di Basilea, o ancora presso l’Imperial College di Londra.
I risultati fino a oggi ottenuti sono promettenti, ma ci vorrà del tempo prima che si giunga a una regolamentazione di queste sostanze. Innanzitutto perché, a differenza dei farmaci attualmente in commercio, le sostanze psichedeliche non possono essere assunte dal paziente in completa autonomia. Al contrario, è indispensabile, da un lato, un accorto dosaggio che risponda esattamente alle esigenze psicofisiche del paziente; dall’altro, l’assunzione di sostanze come la MDMA deve essere monitorata da un terapeuta specializzato. A tutto ciò va aggiunta la necessità di scegliere, per la commercializzazione di psichedelici come la psilocibina, tra un processo estrattivo del principio attivo e un processo di sintetizzazione.
Psichedelici e uso psichiatrico: approfondimento con Psy*Co*Re
Quanto fin qui riportato è riferito allo stato dell’arte degli studi clinici sull’impiego di sostanze stupefacenti – in particolare la MDMA – in campo psichiatrico. Come spesso accade quando si tratta l’argomento, i risultati positivi delle ricerche scientifiche entusiasmano e incoraggiano tutti quegli attivisti che si battono per l’eliminazione o la revisione delle leggi proibizionistiche. La stessa attività della MAPS del dottor Rick Doblin d’altronde è orientata da un lato verso la promozione di un approfondimento medico-scientifico sugli effetti degli psichedelici, mentre dall’altro porta avanti una campagna di sensibilizzazione per la liberalizzazione delle droghe anche a scopo ricreativo. I due possibili impieghi della droga, quello medico e quello ricreativo, non devono essere confusi né vanno trattati allo stesso modo. Senza entrare nel merito della questione, basterebbe ricordare che dietro queste innovative terapie vi sono persone afflitte da disturbi che non trovano soluzione con le terapie attualmente disponibili.
Dell’impiego di MDMA, psilocibina, LDS, ketamina e altre sostanze psicoattive come addendum alle terapie psichiatriche si parlerà durante il workshop-evento Frontiere PsicoTerapeutiche 2021. Stato dell’arte e prospettive delle psicoterapie in Italia, previsto per le giornate 29 e 39 maggio 2021 a Torino. Promotore dell’evento è Psy*Co*Re, un network italiano che stimola discussioni sull’impiego di psichedelici nelle terapie psichiatriche avvalendosi del contributo di psicologi, psichiatri, biologi, filosofi, sociologi, chimici e di tante altre figure professionali, di area umanistica e scientifica. «Verranno discussi i punti di forza e le debolezze delle cosiddette TP e simil-TP (terapie psichedeliche e simil), affrontando la prima volta in modo specifico questo tema in Italia», si legge sul sito Psy*Co*Re. «Questo primo incontro vuole essere l’occasione privilegiata per avere un contatto diretto con alcuni dei principali enti (Grof Legacy Training, MAPS, CIIS, Mind Foundation), che offrono formazione in ambito delle terapie psichedeliche e simili nel panorama attuale, oltre che con varie scuole primarie di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal MIUR».
Una dose di empathy può farci male?
Leggendo i risultati prodotti da questi studi, ci si potrebbe chiedere se non sia il caso di legalizzare una sostanza come la MDMA anche a scopo ricreativo. La tossicità è bassa, non si riscontrano importanti effetti collaterali e per di più sembrerebbe una sorta di “pillola della felicità”, che stimola la produzione di serotonina e favorisce l’interazione empatica tra gli individui. Una delle reazioni acute sperimentabile sotto effetto di ecstasy è l’ipertermia, con aumento significativo della temperatura corporea e conseguente rischio di disidratazione. Questa anfetamina agisce anche sui ricettori dopaminergici, provocando un prolungato stato di eccitazione: infatti, chi ne fa uso durante un concerto o un rave party corre il rischio di ballare ininterrottamente per ore, magari senza bere acqua a sufficienza, e le conseguenze possono essere molto gravi.
Detto ciò, il rischio derivante dall’assunzione di MDMA sembra comunque piuttosto blando e gli apparenti benefici (medici, emotivi, ricreativi) potrebbero incoraggiarne l’uso.
Allora, forse, è bene chiarire che tutti i dati prodotti nel corso degli studi clinici sono stati raccolti in ambienti altamente controllati; inoltre, le sostanze impiegate nelle ricerche mediche sono pure e di prima qualità. Insomma, nulla a che vedere con tutto quello che il mercato illegale ha da offrire a chi vuole provare un’esperienza nuova con una droga apparentemente poco nociva. Oltre al fatto che, come spesso accade, il giudizio della comunità scientifica su queste sostanze è tutt’altro che unanime, resta incontrovertibile la sostanziale differenza che separa un principio attivo puro da un surrogato spacciato illegalmente e magari tagliato male o addizionato con chissà cosa. Se l’ipertermia può sembrare un effetto collaterale poco preoccupante – e non lo è – assai più allarmante è il rischio di incorrere in una insufficienza epatica fulminante. Benché rara, è una possibile conseguenza dell’assunzione di ecstasy, soprattutto se si tratta di pasticche di pessima qualità.