«Dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso». Così un ex cinemaniaco come Italo Calvino nel 1971 svelava il senso del suo intero processo creativo. Così si presenta al Teatro Regio della sua Parma nel 2014 per ricevere la laurea honoris causa in Storia e critica delle arti e dello spettacolo, l’Ultimo Imperatore del nostro cinema, Bernardo Bertolucci, appesantito dalla vecchiaia, costretto alla carrozzina. dall’opaco verso l’aprico, per ricostruire la mappa e tutte le rotte di un’esistenza vissuta per e in funzione del mistero del cinema.
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Il testo inedito e postumo che ne esce fuori (Il mistero del cinema, La Nave di Teseo, 2021) è una miniera accecante di bellezza. L’isola del tesoro per qualsiasi cinefilo. Un testamento e una lettera d’amore a un’arte presto diventata tutto il mondo. Bertolucci sfoglia l’album dei ricordi, danzando il tango della memoria in uno spiumio cangiante di immagini, esperienze, incontri, che si offrono indirettamente come un breviario di quasi un secolo di cinema. Ma soprattutto una professione di fede appassionata e commovente di un puer cinematograficus che ha modellato tutti i suoi desideri e la sua identità in funzione dei sogni di celluloide di cui si è abbeverato per tutta la vita. Adombrando qualsiasi gratificazione pubblica, allontanando qualsiasi premio ingombrante. Per amore non degli Oscar, ma del fascino inesauribile del cinema. Art pour l’art.
Così, negativo per negativo, set per set, Bertolucci riannoda tutta la sua geografia (cin)esistenziale. Inutile dire che si tratta un mondo ridotto, o forse meglio, spalancato a un’immensa sala cinematografica: da Casarola (paesino incastonato nell’appenino romagnolo) che da ragazzino ha innaffiato «la necessità del cinema», e dove germogliò il primo film, a Parma, passando per la (Mamma) Roma pasoliniana. E ancora Stati Uniti, Cina, Giappone, Marocco, Nepal, e soprattutto Parigi, la città dei miti: Renoir e Godard su tutti. Ma anche quella in cui Paul (Marlon Brando) e Jeanne (Maria Schneider) non si conoscono, si amano e si ammazzano nel buio di un appartamento dove, per dirla con Moravia, sfavillava «Eros» «mentre tutto il resto del mondo era abitato dal dominio di Thanatos».
Quella stessa città, incendiata di molotov ed ebrezza sessantottina di rivoluzione, da cui, non a caso, si rifugiano scappando nella placenta intraurerina del cinema The Dreamers: Matthew, Isabelle e Theo membri «of what in those days was a kind of freemasonry». La massoneria dei cinefili insaziabili. Cresciuti a pane e sogni di celluloide. Lo stesso nutrimento onirico farcito di avventura, stordente, abbacinante, mitica, esoterica di cui fece scorpacciate il giovane Bertolucci. E che custodirà, sempre, anche in maturità, il senso e il segno di un’istintiva gioia sensuale alla vita immaginata e vissuta perché immaginata, un abbandono semi-conscio e liberatorio all’erotismo sconfinato della visione, alla libertà orgiastica e di veder(e e) vivere il cinema con tutto il corpo, spezzando le catene con cui l’Italia postbellica comicamente bacchettona, ridicolmente sessuofobica, aveva manicomiato (più di) una generazione intera.
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Per questo, confessa ora Bertolucci, tutta la sua ricerca, così straordinariamente intrisa di una pienezza ebbra e luminosa alla sensualità della vita, qualsiasi manifestazione espressiva cerchi, qualsiasi crocicchio intersemiotico intersechi, nasce, barthesianamente, «scienza del godimenti del linguaggio» nel piacere di percorrere le strade infinte del desiderio e impressionarle poi su pellicola; tante quante solo quelle che si aprono dentro una sala, tempio principe in cui suggere tutto il miele che fuoriesce dal «sacro mistero della langue du cinema».
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In cerca del mistero (non solo del cinema), infatti, Bertolucci si era incamminato giovanissimo. Così intitolò la silloge di poesie con cui trionfò, ventenne, al Premio Viareggio del 1962. In cerca di quello della parola (poetica) che fuoriusciva già tra le labbra del padre Attilio, una delle supernove della lirica del Novecento, qui nelle vesti di cinemaniaco incantantore con lo sciabordio misterico delle recensioni dettate al telefono, ai tempi del cinema immaginato prima d’essere visto: «Io stavo lì seduto sulle scale a guardarlo: improvvisava, andava a braccio. Ma come faceva?». E resiste anche oltre, una volta che la sua cinematografia, il suo “scrivere il movimento”, diventa necessariamente “cinema di poesia”, come intuisce Pasolini, altro “padre” che si affaccia costantemente in queste memorie insieme a Ozu Yasujirō e Jean-Luc Godard: dio di cinepresa e poi amico, creatore mitico di tutto il suo immaginario poi diventato intimo confidente.
(Magnifica) ossessione. Mania. Emozione. Fascinazione. Mistero. Colpisce come questa breve lectio graviti tutta, mirificamente, instancabilmente intorno a un unico campo semantico. Splendori della lingua che rivelano le trafitture inconsce della psiche. Di un’anima traboccante di un profondo, ineliminabile senso di meraviglia e sete di scoperta. Percorsa da una vibrazione lussuriosa che la spinge alla ricerca abbacinata della bellezza. Di tutto ciò che il cinema è e dà. Devota a quel sogno fantasmagorico che si sfila dalle ragnatele dell’hic et nunc per farsi nella sua stessa immanenza visiva, universale e atemporale, diventando un altro mondo nel mondo. «Il cinema possedeva in quegli anni una forza che rasentava la fascinazione. Veder nascere l’immagine cinematografica equivaleva quasi ad assistere alla nascita di un mondo».
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La luminescenza più vitale del mondo e il buio mortifero. Lo sfavillio dell’eros della visione e l’anonimia incolore dell’esterno. Il dentro e il fuori. L’opaco e l’aprico. Tutto il mistero del cinema di Bertolucci che erompe da questo libricino fiorisce in questa Rift Valley spazio-mentale. Da qui parte il cammino alla ricerca dell’ineffabilità misterica della parola che si fa immagine. Nel buio di senso e di volontà alla luce abbagliante del rivelazione del sé. Di un’esistenza che si definisce come un continuo e ininterrotto set su cui si gira il copione della vita. Quella stessa vita che, non a caso, il maestro Renoir gli consigliò di lasciar “entrare” nel set. Bertolucci quell’insegnamento non l’ha più dimenticato: «Rappelle-toi, il faut tojours laisser une porte overte sur la plateau. On sait jamais: quelqu’un pourait entrer, inattendu, c’est la réalitè qui vois fait un cadeau».
Per questo, anche adesso alla fine del viaggio: «Tutto sembra così chiaro, eppure ancora, dopo tanti anni, dopo tanti film, tutto sembra così pieno di mistero». Il set come altrove dello spazio e della mente dove riconoscere il luogo geometrico dell’io, di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso. Alla ricerca continua, per dirla con un altro Poeta, di quel «nulla s’inesauribile segreto». Bertolucci e il mistero del cinema. «Can’t you see what an epic, big movie that would make?».
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