Il 23 maggio 1992 moriva il giudice Giovanni Falcone, in un attentato da parte della mafia siciliana passato tristemente alla storia come la strage di Capaci. L’esplosione avvenne sull’autostrada A29, vicino allo svincolo di Capaci, nei pressi di Palermo. Morirono anche la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta della polizia, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Sopravvissero gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Bravo e Giuseppe Costanza.
Giovanni Falcone, nato a Palermo il 18 maggio 1939, ha trascorso la maggior parte della sua vita professionale cercando di combattere la mafia siciliana. L’apice della sua brillante carriera fu raggiunto con il Maxi Processo del 1986-1987, a seguito delle dichiarazioni su Cosa Nostra del pentito Tommaso Buscetta.
La sua vicenda è parallela a quella del suo caro amico Paolo Borsellino, entrambi cresciuti nello stesso quartiere di Palermo. Anch’egli venne ucciso, a pochi mesi di distanza dalla mafia, nella strage di via D’Amelio. In riconoscimento del loro instancabile impegno e sacrificio nella lotta contro la mafia, sono stati entrambi insigniti della medaglia d’oro al valor civile.
I preparativi della Strage di Capaci
I preparativi per la strage di Capaci cominciarono tra l’aprile e il maggio 1992. Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi (che diventerà pentito e collaboratore di giustizia) condussero i sopralluoghi sul posto per trovare un luogo idoneo per l’attentato. Nello stesso tempo, altri malavitosi, tra cui Santino Di Matteo (anche lui divenuto in seguito pentito) e Leoluca Bagarella, si procurarono circa due quintali di esplosivo. Inoltre, secondo l’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola, il boss John Gotti della potente famiglia mafiosa di New York Gambino inviò un esperto di esplosivi per addestrare i corleonesi.
La sera dell’8 maggio Brusca, Barbera, Gioè, Troia e Rampulla sistemarono tredici barili con circa quattro quintali di esplosivo su uno skateboard in una galleria sotto l’autostrada. Da metà maggio Raffaele Ganci e i figli Domenico e Calogero si occuparono di monitorare gli spostamenti dell’automobile del giudice Falcone e della sua scorta.
L’attentato
Il 23 maggio Falcone tornò da Roma all’aeroporto di Punta Raisi. La Barbera seguì su una strada parallela le auto della scorta del magistrato rimanendo in contatto telefonico per alcuni minuti con gli altri attentatori, stanziati sopra le colline di Capaci. Alla vista del corteo, Brusca attivò il telecomando.
La prima vettura, che trasportava la scorta, fu stata investita in pieno dall’esplosione e sbalzò contro degli ulivi a bordo strada. La seconda, che trasportava Falcone e sua moglie, andò a sbattere contro un muro di cemento. Falcone e la moglie, che non indossavano le cinture di sicurezza, furono espulsi dalla vettura attraverso il parabrezza. Il giorno dei funerali, trasmessi in diretta TV, migliaia di persone si radunarono presso la chiesa di San Domenico.
Le indagini
Nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia riuscì a localizzare e intercettare Antonino Gioè, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, tramite telefonate che facevano riferimento all’attentato di Capaci. Dopo essere stato arrestato, Gioè si suicidò nella sua cella. Di Matteo e La Barbera decisero di collaborare con il governo, rivelando i nomi degli altri esecutori della strage.
Per costringere Di Matteo a ritrattare le sue dichiarazioni, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro rapirono suo figlio Giuseppe. Lo strangolarono e lo sciolsero nell’acido, dopo quasi ottocento giorni in ostaggio. Nonostante questo, Di Matteo continuò a collaborare con la giustizia.
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Le condanne
Nel 1997 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò in primo grado all’ergastolo tutti i mandanti e gli esecutori dell’attentato, tra cui Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Calò, Filippo e Giuseppe Gravano, Michelangelo La Barbera e Bernardo Provenzano.
Nel luglio 2003 si riunì in un unico processo una parte di quello per il bombardamento di Capaci con quella della strage di Via d’Amelio, perché molte persone avevano l’accusa in comune. Nell’aprile 2006 , infine, la Corte d’Appello di Catania condannò dodici persone, ritenuti incaricati di entrambe le stragi: Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto Spera, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Stefano Ganci, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola e Mariano Agate.