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Alle origini del nazionalismo italiano

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Daniele Berardi

Il 28 settembre 1911 il governo italiano intimò all’Impero ottomano la cessione della Tripolitania e della Cirenaica, anticamera dell’inizio alla campagna militare nei territori libici. Fu un momento di grande eccitazione per i nazionalisti, che volevano “lavare l’onta di Adua” e fare dell’Italia una grande nazione. A cinquant’anni dall’unificazione, l’Italia stava ancora cercando di ritagliarsi uno spazio tra le grandi potenze europee ma, secondo il nazionalismo, lo Stato liberale andava profondamente rivoluzionato.

L’anno prima, nel 1910, il movimento nazionalista si era istituzionalizzato nell’Associazione Nazionalista Italiana (ANI). Questa data è un momento cruciale nel percorso di emancipazione del movimento nazionalista, che già dagli ultimi anni del XIX secolo aveva definito le proprie basi ideologiche e politiche.

I nazionalisti avevano in testa un’idea precisa di Italia, costruita riformulando i concetti di nazionalismo e patriottismo su base ideologica. Queste idee avrebbero dovuto fertilizzare un Paese fiaccato dal fallimento delle prime esperienze coloniali e dalle preoccupanti rivolte sociali.

In questo contesto, l’intervento militare in Libia rappresentò una cesura decisiva per rilanciare l’immagine dell’Italia. Larga parte dei nazionalisti rivendicò i meriti dell’iniziativa del governo di Giovanni Giolitti, che mosse guerra all’Impero ottomano legittimato da molteplici interessi geopolitici e commerciali, ma venne apertamente sostenuto da un’ossessiva e martellante campagna mediatica. «I nazionalisti volevano superare il concetto classico di nazionalità» ha detto Giuseppe Parlato, professore ordinario di Storia contemporanea e presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, in una recente intervista. «Quello della nazione diventò per loro un tema ideologico divisivo: esistono degli italiani che non sono degni di esserlo perché esprimono idee differenti. Il nazionalismo italiano delle origini perse alcuni tratti mazziniani e liberali per introdurre la componente ideologica. Si era nazionalisti se si voleva uno Stato forte, se si cercava prestigio nella conquista delle colonie. Altrimenti, ci allineava automaticamente contro l’interesse del Paese». 

Il nazionalismo e il nemico interno

Parlato sottolinea anche che i nazionalisti furono i primi a introdurre il concetto di nemico interno, in un’atmosfera da guerra civile che circondò la decisione di intervenire militarmente in Libia. Ne scrisse anche Enrico Corradini, intellettuale toscano tra i fondatori del movimento nazionalista, nei suoi Discorsi politici: «Forze avverse della nazione esistevano ancora ed erano interne, non esterne alla nazione».

Secondo Parlato, però, in occasione della guerra di Libia non è possibile parlare apertamente di guerra civile, ma soltanto di un acceso antagonismo tra due fazioni ben riconoscibili, che verrà riproposto – in maniera ancor più accesa – all’alba dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Tra il 1919 e il 1924, poi, in Italia si percorse un clima reale di guerra civile, e la stessa cosa avvenne nel secondo dopoguerra. I nazionalisti concretizzarono in questa fase storica il concetto di nemico interno, che ebbe una fortuna incredibile, e ridefinì i paradigmi interpretativi del patriottismo trascinandosi fino ai giorni nostri.

La fase estetica del nazionalismo

Il nazionalismo italiano nacque in un’atmosfera culturale ben precisa, che non caratterizzò soltanto l’Italia ma che, nello scenario di un’Europa alle porte di una lunga guerra civile fratricida – come la definisce lo storico Enzo Traverso, nel suo volume A ferro e fuoco – che vide convergere politici, intellettuali e cittadini verso l’ineluttabilità della lotta armata e l’inasprimento dei toni del dibattito pubblico

L’intervento militare in Libia fu l’innesco eccitante per i nazionalisti, che volevano rimettere in discussione il sistema liberale e cambiare radicalmente il Paese. Ma il nazionalismo aveva già preso forma in una fase precedente, quella “estetica”, caratterizzata – tra le altre cose – dal cambio di atteggiamento di alcuni dei quotidiani italiani più importanti dell’epoca, anche quelli tradizionalmente più moderati. Tra questi, ci fu il nuovo Corriere della Sera diretto da Luigi Albertini, portavoce dell’opinione pubblica conservatrice, contrario alle aperture politiche verso i socialisti e i cattolici che il governo Giolitti stava pianificando. Albertini aveva ferme convinzioni antisocialiste e anticlericali e sostenne apertamente le posizioni di Antonio Salandra, considerato allora l’astro nascente della destra liberalconservatrice italiana.

Il Corriere, inoltre, esprimeva gli interessi dei gruppi politico-economici cattolici e moderati. Ma anche di parte della finanza vaticana, del Banco di Roma e degli industriali cotonieri, suoi proprietari, che erano interessati a una politica economica più duttile, che avrebbe trovato beneficio dalla prospettiva di un intervento in Libia. Di fronte all’ipotesi di una campagna militare, anche il Corriere della Sera cominciò a inasprire i toni, sfruttando la grande presa degli ideali nazionalisti e interventisti.

Negli anni precedenti, il giornale aveva accumulato un prestigio straordinario a livello europeo, tramite una rete capillare di corrispondenti. Per questo motivo, il suo avallo al nazionalismo fu ancora più significativo. Con la guerra italo-turca all’orizzonte, la terza pagina del Corriere – tradizionalmente dedicata alla cultura – cominciò a ospitare gli interventi di Enrico Corradini, poi addirittura le Canzoni delle gesta d’Oltremare di Gabriele D’Annunzio. I corrispondenti del giornale raccontarono la guerra di Libia da una prospettiva retorica intrisa di imperialismo. Ma il Corriere non fu il solo, tra i quotidiani italiani, ad accendere il dibattito pubblico di quegli anni.

Anche il Giornale d’Italia, nato a Roma nel 1901 da una costola del Corriere della Sera, contribuì ad alimentare questa specifica temperie culturale. La linea politica del quotidiano, monarchico-liberale, puntò su firme autorevoli e si arrogò la primogenitura dell’invenzione della terza pagina. Alberto Bergamini, il direttore, fu tra i primi ad affidare a uno spazio riconoscibile del giornale il racconto di eventi culturali.

La scelta si rivelò molto felice, e venne presto adottata anche da altri quotidiani, come Il Mattino, Il Resto del Carlino e Il Secolo XIX, che la utilizzarono per concretizzare la simbiosi tra la classe dirigente conservatrice e gli intellettuali del tempo. Il risvolto politico di quella scelta era dunque inevitabile, e parzialmente irreversibile.

Gabriele D’Annunzio e il Capitano Natale Palli in procinto di partire per Vienna, su cui lanciarono volantini provocatori di esortazione alla resa, agosto 1918. Foto: Wikimedia Commons.

La fase politica degli intellettuali

Probabilmente, il culmine della fase estetica del nazionalismo arrivò più tardi, quando la componente politica aveva già preso il sopravvento. Filippo Tommaso Marinetti, celebre intellettuale futurista, nel romanzo L’alcova d’acciaio (1921) raccontò le sue avventure, durante la Grande Guerra, con un carro blindato A-74, dotato di una mitragliatrice fissata sul retro e descritta come un “pungiglione”. Il poeta descrisse una relazione amorosa con il suo veicolo, fonte di piaceri estetici e sentimentali durante i combattimenti. Gli ingressi in città e le raffiche di proiettili vennero descritti da Marinetti come “coiti sfrenati”. Da quelle pagine, traspare tutto il coinvolgimento degli intellettuali con la massima, e allora unica, strategia politica ritenuta utile per forgiare la grandezza di un Paese: la guerra.

L’irruzione della politica nella cultura – e viceversa – era ormai divenuta inevitabile. «Sprofondati in un’età politica – scrive Enzo Traverso – gli scrittori non potevano sfuggire a temi come la guerra, il fascismo, i campi di concentramento, gli sfollagente eccetera. Non potevano più rinchiudersi in un universo fatto di valori fino a quel momento confinati nella dimensione estetica, al riparo dai conflitti che stavano lacerando il mondo». L’intellettuale era costretto a sporcarsi le mani, misurarsi con le asperità del presente, diventare militante a suo modo, per evitare di appassire come figura inutile e fuori del tempo.

Secondo il professor Giuseppe Parlato, però, questo passaggio, cruciale per gli intellettuali nazionalisti italiani, avvenne circa vent’anni prima, con la sconfitta rimediata dall’esercito italiano ad Adua, contro il sovrano etiope Menelik II. La rivista Il Marzocco, che poi sarà diretta anche da Corradini, nacque infatti poco prima della battaglia di Adua (febbraio 1896) e incarnò perfettamente gli ideali della cultura nazionalista, assumendo immediatamente Francesco Crispi come riferimento politico. Quest’ultimo aveva deciso di lanciarsi nelle imprese coloniali per fare dell’Italia una grande potenza, ma fallì miseramente. Nella rovinosa sconfitta di Adua, i nazionalisti non sottolinearono l’errore politico di Crispi, ma solo l’impreparazione militare del Paese. Il disastro militare diventò l’occasione per mettere in discussione l’intero sistema liberale italiano, ed è qui che il nazionalismo da mera corrente culturale assume connotati politici.

Una caricatura di Francesco Crispi, raffigurato come una mongolfiera circondata dal caos, 1895. Foto: Wikimedia Commons.

Leggi anche: Gabriele D’Annunzio e il bisogno del superfluo.

La svolta politica del nazionalismo

Il progetto dei nazionalisti, come abbiamo visto, assunse una fisionomia politica nel 1910, con la nascita dell’ANI. Ma già a partire dagli anni precedenti Enrico Corradini riuscì a coagulare intorno a sé personaggi come Gabriele d’Annunzio e il presidente della Confederazione nazionale dell’industria Dante Ferraris. Ma anche molti cattolici e borghesi: tutti in funzione antisocialista. Molti di loro avevano avuto un ruolo attivo nella costruzione del dibattito nazionalista, collaborando con la rivista Il Regno (fondata proprio da Corradini, nel 1903), L’Idea Nazionale (organo ufficiale dell’ANI), Il Tricolore e Il Leonardo. Nel 1913, poi, entrò in Parlamento il primo gruppo di nazionalisti, guidato da Luigi Federzoni.

«Il nazionalismo italiano è molto più diviso di quanto non appaia dai congressi – sostiene Parlato – e la componente geografica è estremamente importante. Per una parte dei nazionalisti, quelli veneti e più in generale settentrionali, il tema dell’irredentismo è fondamentale. Ma esso, teoricamente, non era un discorso sovrapponibile con le ambizioni colonialiste e imperialiste. Le diverse posizioni, tuttavia, troveranno il modo di coesistere, all’interno del movimento, in una fase successiva al contatto col fascismo».

Anche la componente centro-meridionale del nazionalismo, legata alle città di Roma e Napoli, svolse un ruolo importante nella fase politica del nazionalismo, legandolo con gli esponenti della Destra Storica.

«Il partito nazionalista nasce ed è subito sommerso dalle scissioni – prosegue Parlato – e questo è significativo. Gli elementi in comune tra i vari schieramenti vengono messi in evidenza quando gli esponenti liberali escono fuori dal partito, e avviene la rottura col sistema politico dell’Italia di allora». La nuova generazione di nazionalisti, che emerge dal 1914, proponeva l’idea di uno Stato organico ed etico, dove si mettevano in discussione le prerogative costituzionali. Con l’avvento del fascismo, poi, venne introdotto un altro elemento di rottura: l’idea di una rivoluzione sociale, portata alle estreme conseguenze.

Alfredo Rocco, giurista ed esponente del nuovo nazionalismo, rivendicò il primato della sfera statale e incarnò il punto di rottura con il liberalismo tradizionale. Fu il teorizzatore delle corporazioni, aveva idee antiliberali, e concepiva la libertà dell’individuo solo all’interno dell’entità statale. Nel 1925, le leggi fascistissime furono pensate proprio da Rocco, ministro della Giustizia in quegli anni. Il capovolgimento delle istituzioni democratiche, di stampo fascista, fu teorizzato dunque da un esponente nazionalista della nuova generazione, che accompagnò l’assorbimento dell’associazione nazionalista nel Partito nazionale fascista (1923).

Inaugurazione del busto di Alfredo Rocco. Presenti i presidenti di Camera e Senato, Costanzo Ciano e Luigi Federzoni, 28 ottobre 1936. Foto: Wikimedia Commons.

Il rapporto col fascismo

Ma l’aggancio col fascismo non fu semplice. I nazionalisti non vedevano di buon occhio la componente rivoluzionaria ed eversiva che il fascismo cominciò ad introdurre dopo la campagna d’Etiopia (1936). Mussolini aveva avuto infatti un’altra esperienza politica: era stato socialista e pian piano cominciò a introdurre una componente eversiva repellente per i nazionalisti. Per la verità, alcuni elementi di attenzione al popolo, di stampo principalmente sindacalista, erano presenti anche nel pensiero di Enrico Corradini, che rivendicava il diritto di espansione coloniale per un’Italia “povera e proletaria”. Secondo Giuseppe Parlato, però, ai nazionalisti «mancò sempre l’elemento eversivo, per diventare un partito davvero di massa. Un po’ per attitudine, ma anche per una scelta deliberata».

Durante il fascismo, tuttavia, i nazionalisti svolsero un ruolo importante non soltanto come vertici delle istituzioni. Uno zoccolo duro di nazionalisti agì in quattro settori chiave dell’Italia fascista: la diplomazia, il giornalismo, la pubblica amministrazione e anche alcuni settori dell’impresa privata. Nei gangli della macchina statale di Mussolini ci furono «oscuri direttori generali di matrice nazionalista, ma è un territorio ancora piuttosto inesplorato dalla storiografia».

I nazionalisti appoggiarono il fascismo credendo di poterlo cambiare e cercando di tutelare due elementi: la legalità costituzionale e un legame forte con la monarchia. Ma lo fecero mantenendo sempre un atteggiamento da maestri nei confronti degli “scolari” fascisti. E tutto ciò era semplicemente distante dalla realtà delle cose.

Benito Mussolini sulla copertina della rivista Time, nell’agosto del 1923. Foto: Wikimedia Commons.

La questione razziale

Quello dei nazionalisti fu un mondo estremamente individualista, poco incline all’irreggimentazione di partito. Ai nazionalisti mancò un veicolo politico di massa: lo diventò il fascismo, che al tempo stesso mise in controluce tutte le loro contraddizioni. I nazionalisti cominciarono a mostrare segnali d’insofferenza dopo il 1936, quando prese il sopravvento la parte più eversiva del fascismo. Quella che propugnava una forma di rivoluzione sociale – la cosiddetta “sinistra fascista” – e che esploderà nella Repubblica Sociale Italiana. Praticamente il peggio che potesse esserci per i nazionalisti.

In ogni caso, resta complesso analizzare i legami tra il pensiero dei nazionalisti e i crimini scellerati del fascismo. La superiorità della nazione italiana, ad esempio, non era particolarmente propugnata da un punto di vista eugenetico, e non c’era particolare simpatia per l’antisemitismo. «Di certo, però – sostiene Parlato – i nazionalisti non mossero un passo quando si trattò di difenderli, e non esitarono a prendere il posto di coloro che venivano gradualmente epurati dal regime».

Come disse Carlo Delcroix, allora presidente dell’Associazione italiana mutilati e invalidi di guerra: «A quanti mi rimproverano di non aver manifestato pubblicamente il mio dissenso, rispondo che il mio rimorso è semmai di non avere avuto la forza di tacere anche ai più intimi un dubbio che avrei dovuto nascondere a me stesso».

Leggi anche: L’agricoltura ai tempi del fascismo.

Il nazionalismo di ieri, di oggi e di domani

Corradini morì nel 1931, Federzoni scappò in Argentina e morì negli anni Settanta. Il nazionalismo delle origini si è praticamente liquefatto dopo il contatto con il fascismo. Secondo alcuni storici, il regime ne ha banalizzato la complessità e le divergenze interne. È innegabile, però, che il fascismo abbia anche concesso tanti privilegi a uomini che miravano al potere da una strada diversa. Il loro concetto ideologico di nazione non sopravvisse alla catastrofe delle guerre mondiali, proprio perché ne fu ritenuto responsabile.

Secondo Parlato, però, i semi del nazionalismo delle origini sono rimasti sottotraccia anche nel secondo dopoguerra, nonostante i nazionalisti non fossero riusciti a riorganizzarsi politicamente. Il loro mondo era rimasto legato alla monarchia anche negli anni del regime. Una scelta poco remunerativa, dal punto di vista politico, dopo i fatti degli ultimi anni di guerra. L’unica cosa che restò intatta, anche nei primi decenni della Prima Repubblica, è l’idea di un’alleanza “salandrina”, tra moderati cattolici, nazionalisti e liberali conservatori.

Questa prospettiva di coalizione sembrava l’unica adatta a sopravvivere in un sistema democratico pluralista. Negli anni Settanta, l’MSI utilizzò proprio il sostrato moderato conservatore, legato al nazionalismo delle origini, per cercare di reinserirsi nell’ecosistema politico. Fu questo uno dei motivi dell’adozione della formula “Destra Nazionale” nel nome completo del partito (1972).

Poco prima della marcia su Roma (1922), Antonio Salandra spinse per creare un governo che avesse quelle caratteristiche. Ma Mussolini fece saltare il suo piano politico, perché sapeva che il fascismo sarebbe stato ingabbiato da un governo moderato di centrodestra. Questo dimostra anche quanto fosse complicato l’incastro tra nazionalismo e fascismo. Ma proprio questo sostrato comune nazional-cattolico-conservatore rappresenta l’unico lascito del nazionalismo delle origini in un contesto pluralista democratico. In parte e con le dovute proporzioni, secondo Parlato, è stata anche la ricetta dei moderati di Silvio Berlusconi.

Leggi anche: M. Il figlio del secolo: perché un romanzo sul fascismo?

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