La fame, primo romanzo di Matteo Tarasco (acclamato regista e drammaturgo in patria e all’estero), edito da Scatole Parlanti nella collana Voci, ha un grande pregio: una trama potente, di sicuro impatto emotivo, imperniata tutta sull’incontro di due solitudini. Quella di Salvatore, internato criminosamente in manicomio nel 1944, e da allora autosilenziatosi per protesta, e quella di Arianna Siniscalchi (cognomen omen?), psicologa tirocinante, con cui ripercorrerà il suo dramma e che si spenderà con ogni mezzo per tirarlo fuori dall’inferno. Per di più scivola di pagina in pagina con una prosa asciugata, essenziale, tesa come una corda di violino, che seppure ceda disgraziatamente a qualche indecenza retorica, non perde mai il focus sui personaggi e sulla linearità della narrazione.
Il ritmo
Da qui ne discende un altro: il ritmo. Incalzante, sempre sostenuto, agevolato dalla scorrevolezza paratattica della prosa, costruito sui classici punti di svolta, si rinnova a ogni pagina, affollandola di eventi, imprevisti, disgrazie. Tutto ciò consente un’osmosi perfetta tra forma e contenuto. Per una storia bombardata di dolori disarmanti, attese decennali, rabbie represse, silenzi maceranti. E percorsi di rinascita.
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La qualità visuale della narrazione
Da qui, un altro ancora: la qualità visuale della narrazione, la limpida visibilità dello spazio di chiara matrice scenico-teatrale. Tarasco per creare empatia con il lettore, rende Arianna narratrice in prima persona. Così, con lei si fionda in manicomio, con lei si siede sempre vicin(issim)o a Salvatore, grazie ai suoi occhi non perde nulla sue azioni. Rimuove ogni ostacolo visuale tra il sé soggetto attivo della storia e il sé soggetto passivo del lettore. Ci fa “vedere” scorrere sul nastro di carta il film della sua vita. E ci palesa icasticamente il suo dolore: ben presto riconosceremo gli occhi incavati e senza vita, le spalle spioventi e ossute, i pugni rinserrati, la lingua spezzata e tremante del protagonista.
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Il romanzo e la costruzione dell’empatia
Tarasco con il suo romanzo ci catapulta nel de profundiis di una vittima del rullo compressore della Storia, dalle follie dello squadrismo fascista che gli cancella il figlio e la famiglia. E che, ricattando la moglie, lo confina in manicomio. Per di più la tensione morale del personaggio ci riporta ai tanti psicolabili della cultura novecentesca. Come quelli che pascolano nei romanzi di Svevo e Mario Tobino, passando per Bonfiglio Liborio, il meraviglioso “cocciamatte” di Remo Rapino. Ma soprattutto, istintivamente, a Capo Broadmen, altro recluso muto per scelta e non per disgrazia, compagno di merende di Jack Nicholson, alias Randle Patrick McMurphy, in One flew over the cuckoo’s nest (1975), meraviglia di Miloš Forman.
Il j’accuse di Tarasco
Il j’accuse di Tarasco è chiaro e ambizioso, perché giocato su due livelli della realtà: una storico-politica, contro la furia fascista che espropria Salvatore, ignaro delle macchinazioni della Storia, della terra con cui si guadagnava da vivere, connettendo direttamente il dramma personale all’inspiegabile assurdità del fascismo. E un’altra contro l’ipocrisia e l’inettitudine del ceto accademico italiano, incarnato dalla direttrice dell’istituto (e dai suoi collaboratori), che, novella Ponzio Pilato, si lava le mani nel catino putrido del menefreghismo rispetto alla vicenda di Salvatore. Reificazione di un’intera classe e di un sentire collettivo che volta la testa davanti ai progressi della scienza, e non denuncia il crimine sociale di aver segregato un uomo che non era “matto” e non lo era mai “stato”.
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Tarasco e il calore umano
Per questo il romanzo di Tarasco diventa come una piacevole scoperta e una sostanziale rarità nel panorama narrativo contemporaneo. Un libro che è presidio di calore umano per tutti gli scartati, i dimenticati della / dalla Storia. E che, soprattutto, si sforza di reinserire l’individuo coraggiosamente in un crocevia di relazioni con il suo Tempo. Tensione, oggigiorno, completamente scomparsa dagli scaffali delle nostre librerie. La fame è una nenia drammatica e un breviario della nostra storia nazionale, degli orrori del nostro Novecento. E che, nelle sue mille svolte narrative, ci lascia spesso impietriti e impotenti. Ma che alza con tutta la rabbia e con tutta la forza il macigno della vergona su cui è stata grottescamente seppellita una certa cultura di confino che continuava a dilagare anche dopo la chiusura di questi centri di detenzione di esseri umani legalizzati sul finire degli anni Settanta.