Che l’Italia di oggi abbia un problema di razzismo è tristemente evidente; negarlo significa aver perso ogni contatto con la realtà. I flussi migratori e i discorsi sullo ius soli hanno messo alla prova, demolendolo pezzo per pezzo, il mito del Bel Paese caloroso e tollerante, terra dei migranti di ieri che accoglie quelli di oggi.
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Negli ultimi giorni lo ha dimostrato, ultima solo cronologicamente, l’inquietante vicenda di Nelson Yontu, il medico fiscale di Chioggia originario del Camerun che ha rischiato la vita cercando semplicemente di svolgere il proprio mestiere. L’essere nero – un’aggravante imperdonabile, secondo l’operaio che era andato al mare anziché farsi trovare a casa per la visita fiscale, e ha visto nella carnagione del dottor Yontu la scusa perfetta per delegittimare il lavoro di chi lo aveva colto in fallo. Dove, per “delegittimare”, si intende passare in rassegna gli articoli del codice penale per reati contro la persona e la proprietà, con il raccapricciante incoraggiamento dei vicini che assistevano alla scena.
Con molta fatica, e in ritardo rispetto ad altri Paesi, si inizia a parlare di razzismo per quello che è. E ora anche l’Italia deve iniziare ad affrontare un problema nuovo e diverso, che emerge nei casi in cui l’antirazzismo, che dovrebbe essere universale, va spesso a incasellarsi come solo uno dei tanti argomenti attorno ai quali gira la polemica politica: la retorica della sinistra contro la destra, Boldrini contro Salvini, buoni contro cattivi. Una dinamica sterile che, anziché contribuire a un miglioramento culturale a lungo termine, si esaurisce nel fine settimana così come ogni altro tipo di polemica. Purtroppo, si è avuto modo di ragionarvi a causa di un’altra tragedia di questa settimana: la morte del ventenne Seid Visin.
Calciatore nelle giovanili del Milan, studente di giurisprudenza, di origini etiopi e adottato a sette anni da una famiglia di Nocera Inferiore, Seid Visin si è tolto la vita la settimana scorsa in circostanze che hanno sconvolto familiari e conoscenti. La triste notizia, non appena diffusa, ha generato il cordoglio nazionale e una ferma condanna alla discriminazione razziale.
Il problema di cui sopra non sta di certo nella condanna, bensì nella ricostruzione degli eventi da parte di media e opinione pubblica: approssimativa e superficiale, ha ridotto l’intero trascorso di vita di un ragazzo di vent’anni al fatto di essere nero (e morire per questo motivo). Elemento catalizzatore è stato il ritrovamento di un post su Facebook di oltre due anni fa (a volte erroneamente diffuso come lettera d’addio), nel quale il ragazzo esprimeva il suo disagio per la nuova ondata di razzismo in Italia e il fatto di essere visto sempre più come un estraneo, lui che da piccolo era ben voluto da tutti e trattato come chiunque altro.
Ma la correlazione univoca fra questo punto e la morte di Seid Visin è stata operata mediaticamente, ed è a dir poco artificiosa. È stata una spiegazione fast food, con una morale di fondo blanda e di rapida digestione, di quelle adatte agli articoli clickbait o ai tweet di trecento caratteri. È il tipo di contenuto che oggi preferiamo, e che molti si sono fatti bastare per sentirsi in dovere di dire la propria sull’accaduto. Fino al punto in cui questa visione semplificata è diventata la narrazione dominante e pensarla altrimenti sul singolo fatto può rischiare addirittura di essere visto, politicamente, come una difesa del razzismo stesso.
A poco è servita la contestualizzazione operata da mamma e papà Visin: interpellati a più riprese dai media, hanno chiesto che si smettesse di strumentalizzare la morte del figlio, affermando che il razzismo subito non fosse stata la causa scatenante. Di simile opinione anche l’ex allenatore del ragazzo. I genitori di Seid raccontano la storia di un bambino adottato già “grandicello”, a sette anni, con una visione talmente polarizzata della propria infanzia in Etiopia da ripetere in continuazione di non volerci avere più nulla a che fare. Un passato pesante che secondo la madre del ragazzo, come spesso accade per i traumi della vita, si era ripresentato come un tormento nella tarda adolescenza. Seid, in terapia da quando aveva quattordici anni, aveva trascorso il lockdown a Milano, nella piena solitudine della camera di uno studentato. Gli stessi genitori raccontano di come questa esperienza sia stata problematica per il giovane.
Tuttavia, tra i politici di ogni schieramento, i giornalisti e gli individui comuni che si sono sperticati in proclami su questo tragico evento, nessuno ha ritenuto opportuno approfondire le dinamiche di vita del giovane Seid, elaborando gli elementi forniti da chi lo conosceva meglio. Molti, in compenso, hanno ritenuto di doversi ergere a giusti fra i giusti, anche solo per quindici minuti di pubblica indignazione, e criticare pesantemente le dichiarazioni della famiglia di Seid. Un assurdo sfogo, quasi a sottintendere: no, genitori, vi sbagliate. Lo so io perché vostro figlio si è tolto la vita; perché era nero.
Pur essendo nobile il concetto di fondo, assistendo a uno scempio mediatico come quello che ha circondato la vicenda di Seid emerge solo come il razzismo sia profondamente incastonato anche nelle menti di chi si ritiene “buono”.
Sì: perché è razzismo giudicare una persona dal colore della pelle ignorando tutte le altre sfaccettature della personalità, tutte le complessità di un’esistenza che spingono una persona al gesto più estremo di tutti. Ignorare le difficoltà di un’intera vita e ridurre tutto a si è tolto la vita perché nero e, si sa, è questa la situazione dei neri in Italia, quando la realtà è ben più complessa di quest’unico punto, significa operare una discriminazione attraverso un pregiudizio. È razzismo.
Un tipo di razzismo certamente diverso da quello violento e disumano che troppo spesso ci ritroviamo a testimoniare; ma non per questo meno grave perché ipocrita, subdolo e passibile di nascondersi tra le pieghe del nostro pensiero anche quando riteniamo di essere dalla parte del giusto. E che, fin troppo spesso, non denota un vero coinvolgimento nelle tematiche sociali, ma al contrario un punto di vista superficiale e disinteressato, spesso tradotto in pubbliche esternazioni utili solo a mettere in mostra se stessi. E a far sentire chi è nero ancora più diverso e distante dal resto del Paese. Un oggetto alieno del quale si discute, nel bene o nel male, unicamente in quanto tale.
La vicenda di Seid Visin avrebbe meritato di essere trattata con più rispetto; evidenziando, certamente, il ruolo che il razzismo ha qui rivestito, ma senza fare di tutta l’erba un fascio. Le chiacchere sono poche e il resto è mestiere degli inquirenti, non dei rivoluzionari di Instagram. Se in un prossimo futuro vogliamo un’Italia più libera dalle discriminazioni, renderci conto anche di questi schemi mentali sarà un passaggio obbligato che indubbiamente dovremo compiere. Se queste sono le premesse, ancora ne abbiamo di strada da fare.
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