Come da Treccani, per sciacallo s’intende il “nome di tre specie di mammiferi carnivori canidi del genere Canis, simili al lupo, ma con arti più lunghi e slanciati, onnivori, che si nutrono sia di piccole prede vive, sia di resti di animali più grandi uccisi da altri predatori”. Andando a cercare un significato più obliquo del termine, lo sciacallo è però anche la “persona che approfitta delle altrui sventure per rubare; in partic., chi, in occasione di cataclismi o eventi bellici, saccheggia case e luoghi abbandonati, deruba cadaveri o persone indifese; anche chi, nei sequestri di persona, si inserisce con false promesse nelle trattative per trarne profitto”. Gli amanti degli animali penserano che sia un peccato accostare un animale così poderoso con una categoria di uomini così minuscola.
Eppure, molto spesso, questo nomignolo – decisamente poco simpatico – ha trovato mutazione lessicale anche nel mondo del giornalismo. Per indicare coloro i quali, nello svolgere il loro lavoro, approfittano di un bieco cinismo. E della voglia di click, visite, share per prendere a schiaffi la deontologia e fare un po’ ciò che gli pare con le vite degli altri. Chi scrive fa il giornalista ormai da dieci anni. Ne ha viste di cotte e di crude, dal lavoro sottopagato (o non pagato) al bullismo redazionale, dai mitomani ai profeti del nulla. I giornalisti possono sbagliare, sono esseri umani. Il proliferare dell’errore sta invece quando, pur sapendo di commettere un’azione scorretta, si porta comunque avanti la stessa, in barba a qualsiasi correttezza deontologica. Già, la famosa deontologia, lo Spirito Santo del giornalista che però, praticamente ogni giorno, viene calpestata e poi consegnata all’altare della corsa alla notizia.
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Parliamoci chiaro: questa settimana è stata letteralmente agghiacciante per ciò che riguarda la spettacolarizzazione del dolore e l’ormai arcinoto sciacallaggio mediatico. Delle due notizie principali, la prima è stata l’arresto cardiaco del calciatore Christian Eriksen. Scampato alla morte solo grazie al tempestivo intervento del compagno di squadra Kjaer e dello staff medico, il danese rabbrividirebbe se guardasse come la stampa italiana online ha approcciato una quasi tragedia come la sua.
Le lacrime della moglie strumentalizzate per foto e articoli di dubbio gusto. Altri pezzi in cui un Eriksen praticamente morto (come d’altronde affermato in conferenza stampa dal medico della Danimarca) e con gli occhi sbarrati dopo il problema cardiaco è stato sbattuto in copertina agli articoli. In altri ancora il video – che anche solo per decenza avrebbe dovuto essere eliminato subito da qualsiasi social – è stato spiatellato a destra e a manca, come si assistesse non alla quasi morte di un ragazzo ma a uno spettacolo tragicomico, a cui tutti vogliono partecipare.
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Continuando a parlare di decenza, questa è definitivamente andata distrutta dopo la scandalosa pubblicazione del video dell’incidente della Funivia Mottarone. Prima da parte di Open, il sito di cui è direttore Enrico Mentana (il quale, in un pomposo post sui social, si vantava anche di aver messo online questo affronto a qualsiasi sensibilità), poi per mano del TG3, che non solo ha chiarito – peraltro erroneamente! – come quelle immagini fossero un’esclusiva ma si è anche vantato durante la diretta televisiva di aver oscurato i volti delle persone coinvolte. Come se questo bastasse a giustificare la pubblicazione di un filmato di una strage. Peraltro nel pieno delle indagini.
La stessa PM Olimpia Bassi, in una nota, ha reso evidente tutto il suo disprezzo, sottolineando «l’assoluta inopportunità della pubblicazione delle immagini che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia, per il doveroso rispetto che tutti siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di un’intera comunità» oltre che affermando l’ovvio (evidentemente non per i nostri colleghi), cioè che la pubblicazione delle immagini fosse assolutamente vietata.
Ma pure se il tutto fosse stato evidentemente non vietato (in base alla Carta di Treviso e al Testo unico dei doveri del giornalista) un minimo di coscienza avrebbe imposto di non commentere una schifezza tanto eclatante. Ancora più inquietante il fatto che i cari delle vittime – sempre secondo la nota citata – abbiano in pratica assistito per la prima volta alle immagini dei loro parenti deceduti proprio tramite questo video piazzato un po’ ovunque.
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Eventi giornalistici (che poi di giornalismo hanno poco e niente) fanno rabbrividire soprattutto perché arrivano da colleghi e redazioni molto esperte e non da ragazzi alle prime armi. Ma oltre a dare la colpa a chi i nuovi giornalisti li forma attualmente e a coloro i quali decidono le linee editoriali dei loro progetti basandosi solo sullo shock e non sulla qualità, un’analisi chiara va fatta anche sul pubblico.
Chi mette in evidenza questi filmati e questi contenuti lo fa anche perché, evidentemente, riceve un feedback positivo da parte di chi ne usufruisce. In una società sempre più voyeristica e sempre meno responsabile, l’appello di chi la deontologia è solito rispettarla sta proprio nel non aprire questi articoli, nel non dare share a certe trasmissioni, nel non rendere uno spettacolo contenuti obbrobriosi e drammatici. Insomma, di non rendersi complice di un tale scempio. E di non alimentare un malcostume che sta diventando fin troppo normale.
Molti sostengono che ieri si sia raschiato il fondo del barile. Personalmente, credo che vedremo anche di peggio. Eppure noi siamo giornalisti, non sciacalli. Anche se qualcuno, purtroppo, sembra non aver capito ancora la lezione.
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