Cina ed esperanto non è di sicuro un’accoppiata a cui siamo abituati a pensare. Ma Matteo Nunner non è uno scrittore comune. Non è lineare, non è immediatamente comprensibile. Non è, banalmente, come gli altri.
Docente d’italiano e storia, antropologo ed etnologo, un’esperienza di più di due anni nell’area di ricerca medica all’interno della Fondazione ISTUD con l’ottenimento di un Master in Medicina narrativa applicata.
Svariate collaborazioni nell’editoria. Una tesi triennale in lettere intitolata Bulgaro Medievale e realizzata assieme al prof. Alessandro Barbero.
Attivista politico, con in passato una candidatura alle elezioni comunali vercellesi del 2014.
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Questo è il cosmo etereo in cui prospera la prosa di Matteo, che è oramai, anche a fronte dei numerosi premi letterari vinti, scrittore affermato.
Cosa aspettarci allora da lui, se non un folle viaggio tra Cina ed esperanto che ci porta nel mito, nell’Estremo Oriente non ancora strapotenza industriale e militare ma dragone addormentato, potenziale bellico inesploso ma capace di farci sognare con fiabe e novelle che affondano le proprie radici in una invidiabile cultura millenaria.
Nunner ci accompagna in questo mondo mistico e misterico equipaggiato di pochi ma fondamentali elementi: l’amore per la letteratura, l’amore per l’Oriente, l’amore per la famiglia.
«Il titolo L’ombrello arancio è una trascrizione quasi letterale del titolo originale di una precedente pubblicazione, risalente agli anni Ottanta. Si tratta di un testo distante non solo a livello cronologico, ma altresì per quanto concerne gli spazi: di fatti si tratta di una raccolta di racconti realizzati in esperanto e pubblicati dalla sezione esperantista cinese. Agostino “Aldo” Mantovani, il traduttore italiano di questi racconti, è anche mio nonno. Il nonno a cui devo moltissimo se si parla del mio io letterario».
«Per tre motivi principalmente. In primis perché, a mio avviso, si tratta di un unicum. Nel panorama letterario nostrano rappresenta essenzialmente un esperimento barocco e, spero, originale, di mescolanza di mondi così lontani come la Cina e l’esperanto. In secondo luogo, per tutta la poesia e la grazia che può racchiudere un’operazione di questo genere: il resuscitare, il donare una seconda vita a un libro ormai lontano nel tempo e nello spazio. Infine, essendo stato composto poco prima, se non a cavallo, delle riforme di Deng Xiaoping, fornisce al lettore uno prezioso spaccato di realtà più semplice e candida, forse ormai irrimediabilmente perduta. Insomma, la medesima operazione di trascrizione di una realtà in mutamento operata da Pasolini nei confronti di quel mondo contadino a cavallo fra il nostro dopoguerra e il boom economico».
«Si spazia un po’ attraverso tutte le possibile tipologie di spaccati del quotidiano della Cina dell’epoca. Principalmente, e proprio in funzione di questa quotidianità, traspaiono con vigore alcune macro-tematiche: la famiglia, la famiglia allargata rappresentata dalla società o dalla comunità locale, l’amore, la morale, il rapporto e il rispetto nei confronti del prossimo».
«Sono estremamente digeribili, sia per lunghezza che per leggerezza di stile. L’unica cosa è che andrebbero approcciate abbandonando qualche preconcetto eurocentrico, altrimenti la delusione è assicurata. A mio avviso ricordano un poco i koan del buddismo zen: gli aneddoti “illuminanti” volti a scardinare la logica, la consuetudine della parola, del monaco-allievo al fine d’elevarlo. Tutti avranno sicuramente presente il classico “suono di un albero che cade in una foresta deserta”. Anche in questo caso, nel nostro Ombrello arancio, va ricercato più un sentimento che un senso. Delle volte possono apparirci come delle barzellette, altre come passi del Vangelo, altre ancora come aneddoti non-sense del teatro dell’assurdo. Eppure così rilassanti».
«Da antropologo ritengo ci siano molti punti in comune, così come altrettante peculiarità disorientanti. Immagino le nostre indoli, i nostri caratteri, come atavicamente uniti in un calderone comune, il cordone ombelicale dell’essere umano in quanto tale. Ogni istinto di questo calderone passerà poi attraverso il filtro, l’imbuto, della cultura. Prima della famiglia, poi del mondo all’infuori delle mura domestiche. Ecco spiegate affinità e divergenze: è sempre un piacevole esercizio intellettuale il riconoscerle, sempre in chiave positiva. Così il diverso ci potrà arricchire, invece del contrario».
«L’esperanto è un po’ come il sopracitato calderone primigenio. C’è dentro di tutto. Essendo una lingua artificiale, con tutta una sua filosofia improntata sulla fratellanza dei popoli, include radici e lessemi della maggior parte delle lingue conosciute. Così da non escludere nessuno dal suo studio. Inoltre è anche il fil rouge che mi lega al lavoro di traduzione di mio nonno, studioso e insegnante esperantista. Vorrei poi ricordare, con una punta d’orgoglio, la prefazione all’opera di Michela Lipari, Presidente dell’Associazione Esperantista Italiana».
«Il 2021 si spera sarà un anno molto proficuo da quel punto di vista. A breve, se tutto va bene, dovrebbe di fatti uscire la mia quinta pubblicazione. Torno finalmente alla narrativa, a cui sono certamente più legato. Sarà il mio terzo romanzo».
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