29 aprile 1990. Il Napoli piega la Lazio 1-0 e si laurea campione d’Italia per la seconda volta. La città scoppia di gioia. Nelle docce del San Paolo, però, un guaranì boccoloso venuto dalla fine del mondo a miracol mostrare, si isola dalla festa e «incomincia a palleggiare con la saponetta, fa giochi di prestigio. È il primo momento di gioia irrefrenabile […], il momento in cui prevale il bambino che giocava per strada nel quartiere di villa Fiorito». Un’immagine-mondo che ci regala Gianni Minà, forse il nostro “maradonologo” più illustre, che sintetizza il suo libro appena pubblicato: Maradona: «Non sarò mai un uomo comune», il calcio ai tempi di Diego (minimum fax, Roma, 2021, pp. 187), a pochi mesi dalla morte del campione albiceleste.
In effetti, il calcio ai tempi di Diego stava diventando sempre meno fatto sportivo, passione incondizionata senza pressioni economiche, livella egalitaria che offre al ricco e al povero la stessa possibilità di salire sul tetto del mondo ammantato di porpora. E sempre più affarismo bieco, produttivismo sconsiderato, industria milionaria che risucchia nel suo tritacarne i campioni. Non più uomini, ma pedine scippate del libero arbitrio, rapinate del loro privato a suon di milioni e prime pagine. Marionette da offrire in pasto a giornali, radio, tv, tifosi nella pupazzata affaristica che è diventata il pallone al tempo della società dei consumi.
Questo Minà lo subodora perfettamente all’epoca, e lo rimarca ogni volta che può anche ora, accostando alla narrazione tutti gli articoli e le interviste più significative (come nella monografia di un altro illustrissimo: Il mio Alì, Mondadori, 2015) all’amico Diego, il Diez dei Diez, il Masaniello argentino che sventolò la bandiera dell’utopia partenopea di gioia e rivoluzione, finito schiacciato dalla sua stessa grandezza.
Per questo la biografia di Minà è insostituibile e preziosa. Perché dribbla brillantemente il rischio di fare volume con la (già, per fortuna) sterminata letteratura sul calciatore più forte di sempre. E senza (s)cadere in celebrazionismi di parte, in equilibrio tra narrazione giornalistica e calore emotivo verso un amico-leggenda, punta coraggiosamente il dito senza remore contro la piovra mediatica che ha strapazzato per anni un atleta che prima di essere tale è stato un uomo, spesso fragile e isolato, additato come unico capro espiatorio di mali collettivi in patria e all’estero, e divorato senza scampo dai suoi stessi demoni.
Quel mondo da cui lo stesso Minà proviene, e che non esita a condannare (quasi) in toto. Criticando quello pseudo-giornalismo, che inventando ogni sorta d’infamia ha gettato per anni Maradona al pubblico ludibrio, calpestando il suo diritto alla riservatezza, alla sacrosanta presunzione d’innocenza nei mille fanta-processi subiti, creando e sguazzando grottescamente nella melma putrida del chiacciericcio scandalistico.
Oltre, prima e al di là di ciò, il Maradona di Minà polemizza anche con il sistema calcio dei presidenti-padroni che stava balcanizzando il pallone nostrano già all’alba degli anni Ottanta (fa impressione la lungimiranza di queste posizioni se rapportata al calcio d’oggi): poco (o nulla) sport come sano agonismo e scuola di valori, e tanto (o solo) come investimenti, affari su affari, speculazione proditoria, arrivismo proto-capitalistico incarnato dal presidente partenopeo Ferlaino. E in ultima analisi, dunque, macelleria umana che spegne il fuoco della passione popolare.
Il Maradona che scorrazza in queste pagine, di conseguenza, non è più il terrore di ogni portiere, il funambolo inafferrabile che sdraiava tutte le difese, il mancino sovrannaturale capace di vincere con il lampo di una giocata partite, scudetti e mondiali, ma un semidio incamminato sul suo viale del tramonto, incapace di smarcarsi dalle conseguenze della sua vita sopra le righe. Rimarrà deluso, dunque, chi vi cerca l’ennesima (e stucchevole) eulogia del bambino nato in un quartiere da romanzo di Dickens e diventato a Napoli dio indiscusso della sacra religione del pallone.
Conosciamo, invece, un Diego “sorrentiniano”, con le caviglie gonfie e la bocca amara. Logorato nel fisico. Nei muscoli. Nello spirito. Appesantito dai chili di troppo, preso in mezzo dai fortunali delle dipendenze, imperdonabile nelle sue frequentazioni malavitose, ostracizzato dal campo, asfissiato da un amore smisurato del suo popolo (non tifosi, né pubblico, ma popolo) diventato alla fine una prigione, perseguito da giornal(a)i smanianti di sbattere il mostro in prima pagina dimenticando di farlo con loro stessi.
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Ma affiora, di contro, anche l’estrema dignità morale e la tenerezza disarmata dell’uomo prima e malgrado il mito, che sa riconoscere, pretio sanguinis, le sue stesse sbandate. Senza incolpare nessuno se non sé stesso (a Emir Kusturica sibilò con sguardo perso qualche anno fa: «Yo soy la culpa que tengo, y no la puedo remediar»). Che si barcamena come può e spesso come non dovrebbe tra le montagne russe di una vita-lotteria, diventata morbosamente planetaria contro la sua stessa volontà. E che poco o nulla aveva più a che fare con ciò che succedeva dentro il campo.
Splendori e miserie, dunque, del Dios del fùtbol. Nato poverissimo, poi ricco e divinizzato grazie al suo talento. Continuamente estromesso e riammesso al campo. Dio di terra (polverosa come quella di Villa Fiorito) e di gloria dorata come la Coppa del Mondo 1986 vinta in Messico da solo. Polvere e altare. E poi di nuovo altare, e di nuovo polvere, come quella in cui la Fifa (l’eterno nemico) lo gettò nel mondiale di Usa ’94 per un’accusa di doping più che forzata. Un uomo incapace, a differenza di Alì, di sopportare il peso di essere, suo malgrado, icona planetaria capace di far sterzare l’opinione pubblica in qualsiasi direzione. E che subisce a Napoli la monarchizzazione post-angioina del suo essere, la divinizzazione misterica della sua carne, la spartizione mistica del suo corpo santificato.
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Per questo Minà si premura in queste pagine riconsegnarci il Maradona privato. L’uomo comune che non è mai stato. E l’umano nell’uomo. Con un fortissimo senso della famiglia («Vedi, Gianni, io l’ho sempre pensata così. Un bacio di mio padre vale […] perfino più di un gol dei mondiali») e delle ingiustizie dei potenti sui deboli, che accendono una genuina passione politica, progressista e guevarista. Che è la volontà, in altre parole, di difendere i futuri Maradona dal peso di dover essere, malgrado tutto, Maradona.
Così si compie il viaggio di Minà al termine della Marodeneide. Guidato da una e un’unica bussola: la ricerca infaticabile della verità oltre la banalità delle apparenze. E degli interessi di parte. Nel bisogno di fare piazza pulita delle speculazioni sull’uomo. Aziendali, mediatiche, politiche, giudiziarie, giornalistiche che siano. Decisive alla fine nell’essiccare il giglio magico venuto dalla fine del mondo a far fiorire una città intera. Nel far finire anzitempo, insomma, la fiaba dolceamara di perdizione e redenzione del «più umano degli dei», per dirla con Eduardo Galeano. La sua corsa a ostacoli verso l’immortalità. Il tango tricolore ballato con una saponetta nel giorno di gloria di una squadra, di un popolo, di una città. Di un modo ostinato e contrario di stare al mondo. Contro tutto il mondo.
Un libro, dunque, avaro di mirabolie del sinistro di Dios. E ancor meno di scodinzolii adoranti di fronte alle sue gesta. Ma pieno di campo, di prato verde come luogo naturale dell’io, destino edenico dove si compie l’identità. E senza il quale sparisce. Un racconto perfino senza morte. E il perché è autoevidente. E che esce dal prato solo per intrufolarsi, con tutta la discrezione del caso, nel privato di Maradona, al riparo dagli assalti asfissianti della fama. Per poter incontrare il figlio, il padre, il nonno Diego. E per omaggiare la sua rabbia e la sua lucidità politica che si aggrappa alla Cuba di Fidel Castro, zattera di speranza egualitaria in un oceano di soprusi.
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Tanta antropologia del Diego, dunque, e poca liturgia del semidio pagano adorato cattolicamente al sud. E in tutti i sud di qualche Nord. Questo è il Maradona di Gianni Minà.
«Mi pare che sia arrivato il momento di scrivere il libro che mi ritragga veramente come sono. Trasparente, diretto e non comprabile. […] Quando entravo in campo, io ci lasciavo tutto. […] Ma è questo che vorrei che capissero i funzionari dell’erario italiano. Che hanno gratuitamente cancellato molti anni durante i quali, con il mio calcio ho regalato agli appassionati allegria e tutto quello che avevo dentro di me. Senza questi sentimenti il calcio non esiste più».
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