M. L’uomo della provvidenza (edito Bompiani, 2020), il secondo volume della trilogia ideata da Antonio Scurati sulla vita di Benito Mussolini e la storia del fascismo italiano, riprende le fila della narrazione nel punto in cui era terminato il primo capitolo della serie, M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018). Questa volta la vicenda inizia nel 1925, l’anno successivo all’assassinio di Giacomo Matteotti, e segue la veloce e drammatica svolta autoritaria del fascismo fino al 1932, anno del decennale dalla Marcia su Roma. Siamo all’apogeo del partito di Mussolini, che nel giro di pochissimi anni accentra il potere su sé stesso, consolidando il consenso del popolo italiano con la forza e con un’infame propaganda intrisa di retorica nazionalista e repressione del dissenso.
Scurati traccia un resoconto preciso e tagliante di quegli anni. Si muove a cavallo tra il rigore della ricostruzione storica e il pathos della finzione narrativa. Attraverso le vicende che costellano il romanzo, intervallate da un imponente apparato di lettere e documenti dell’epoca, percorriamo senza tregua i torbidi abissi del regime mussoliniano. Una discesa infernale che ricorda, a tratti, una nekyia classica, il viaggio notturno di Ulisse verso i confini della terra, per raggiungere l’Inferno. Un inferno storico, quello ricostruito da Scurati, che non lascia spazio a nessuna reticenza, a nessuna titubanza; a nessuna sospensione di giudizio.
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È un corpo contorto, deformato, chino su sé stesso in una smorfia di dolore, quello di Mussolini all’alba del 1925, nel punto in cui si apre L’uomo della provvidenza. «L’alito è pesante, il dolore addominale opprimente, il vomito è verdognolo, striato di sangue. Il suo sangue». Il più giovane presidente del Consiglio del mondo è piegato in due da un’ulcera duodenale che lo lascia senza fiato e senza forze, quasi in fin di vita. La violenza, che già si è presa l’Italia, ora comincia a germogliare anche nel petto di chi quella violenza l’ha promossa e autorizzata. Sono passati pochi mesi dal delitto Matteotti, trucidato a botte da alcuni sgherri fascisti, ancora impuniti.
La democrazia liberale muove gli ultimi colpi di coda per opporsi alla barbarie, ma il tempo è inesorabilmente maturo. Le strade pullulano di squadracce fasciste che fanno la ronda, di notte, per massacrare i non allineati al partito. Ma la guerriglia non si limita a intercettare gli avversari politici (Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, per ricordare soltanto due nomi di grandi antifascisti della prima ora, la cui sorte miserabile è imputabile alle operazioni criminose dei seguaci di Mussolini), è anche interna; intestina. Gli intrighi di potere, il sistema delle delazioni, i tradimenti, le congiure di palazzo, l’epurazione degli eterodossi.
È questa la cagione primaria della precaria salute del futuro dittatore, un tarlo all’interno di un teatro di maschere. Mussolini sa perfettamente di aver raggiunto la sua posizione grazie alla violenza, all’inganno e all’infamia. Per questa ragione sa che ogni cosa può velocemente colare a picco al medesimo modo. E allora si rode nella paura, nel sospetto, nella nevrosi e nella paranoia: «È tutta colpa della precarietà. Dell’ora dubbiosa, degli indugi, delle esitazioni, un’ora che dura da anni e non trascorre. È tutto un rosario di tergiversazioni». È un terribile gioco di ombre e di sussurri, di tensioni e tentennamenti.
Tuttavia, contro ogni previsione Mussolini si riprende dalla malattia che lo aveva tenuto sotto scacco per tutto il 1925. Insieme a lui, anche il fascismo riprende vigore. Il consenso dilaga per le città italiane. L’opposizione politica e la stampa antifascista vengono progressivamente messe a tacere, e l’immagine del duce rifulge nell’immaginario italiano di quegli anni. È una grande bolla che cresce e si allarga, fino a inglobare ogni cosa. Superati i mesi difficili della malattia, Mussolini torna a infiammare i cortei e le adunate di piazza. Diventa l’uomo-immagine dell’Italia nel mondo, ammirato persino dall’opinione pubblica inglese e americana.
A consacrarlo definitivamente sarà la fortuna di riuscire a scampare a una serie di attentati che gli vengono rivolti. È l’uomo della provvidenza, sopravvissuto al suo destino, graziato dalle mani impacciate e imprecise dei suoi attentatori. La reazione è durissima: occorre adottare una linea più intransigente, è l’inizio della dittatura. Mussolini assume la carica di guida politica e spirituale dell’Italia, di padre della patria. Allo stesso tempo, viene costruita un’imponente macchina del fango che innerva le gerarchie del regime. L’obiettivo è semplice: sedare sul nascere ogni possibile barlume di insurrezione, bloccare le cellule più oltranziste e quelle più moderate del partito, eliminare gli eretici e premiare i segugi più docili e ottusi.
In contemporanea all’indurirsi del regime e al ramificarsi della politica interna, mentre l’Europa comincia a trascinarsi intorpidita verso una nuova guerra mondiale (cominciano a sentirsi i primi echi di un certo esaltato e delirante politico tedesco che macina consenso al di là delle Alpi), dall’altra parte del Mediterraneo, in Libia, imperversa una spietata guerra colonialista. L’offensiva viene portata avanti sotto la guida di Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio. È una guerra ignobile e insensata, intrisa di una retorica subdola e ampollosa, e combattuta con i mezzi più spietati. Eroica la resistenza libica, che combatte senza speranza l’avanzata dei coloni italiani, che marciano rapiti dal deserto lisergico e dagli ordini deliranti dei loro generali.
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Nell’intrecciare la vita di Mussolini con l’ascesa del fascismo in Italia, Scurati dà vita a un testo che brilla per la sua spiccata vena narrativa. Un romanzo storico che tiene incollato il lettore alla pagina, che scorre via serrato nel susseguirsi degli episodi. La finzione narrativa si mescida al rigore della ricostruzione storiografica, le due istanze traggono valore l’una dall’altra, unendosi in un nodo inestricabile.
In questo senso, Scurati sembra raccogliere la grande lezione degli storici greco-latini, secondo i quali la storiografia era prima di tutto storia, narrazione: costruzione letteraria. È soltanto attraverso la trasfigurazione in racconto, infatti, che il flusso caotico degli eventi trova un ordine concettuale, una struttura di segni: una vocazione ermeneutica. Comprendiamo la storia attraverso i racconti che ci vengono fatti di essa. La memorizziamo (quando riusciamo) grazie ai tentativi di dare e darsi una narrazione agli avvenimenti.
Scurati getta una luce letteraria nell’ombra di uno dei periodi più loschi del Novecento italiano. I personaggi reali, vivi, che abitano le pagine del romanzo non si muovono come macchine incastonate in una storia che si sa già conclusa in partenza; ma riempiono di fiati e di voci il tracciato della parola sulla carta. Sono grandi ritratti esistenziali, costellati dai chiaroscuri della loro ambiguità. Personaggi che sembrano ricalcare i protagonisti tardo-repubblicani delle opere di Sallustio, o quelli che animano alcune delle pagine più belle di Tacito. Rifulgono nella luce e camminano nell’ombra, come uomini miserabili e ripugnanti: ci disgustano, ci ingannano, ci spaventano.
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Con L’uomo della provvidenza Scurati avanza brillantemente nel suo ambizioso progetto di raccontare in tre volumi una delle figure più negative della storia italiana. In questo modo, ci consegna un romanzo poderoso (quasi seicentocinquanta pagine), che si staglia perfettamente nell’alveo delle prove letterarie più interessanti degli ultimi anni. Al centro del racconto troviamo soprattutto il parossismo esagerato di ogni forma di violenza: fisica, verbale, sessuale e corporale. Un lungo viaggio attraverso gli eccessi e le esuberanze del ventennio fascista: ogni cosa è portata allo stremo, ogni gesto viene enfatizzato nell’atto di compiersi. È l’oscena e fastosa teatralità di quegli anni.
La scrittura di Scurati segue il dispiegarsi di quest’orgia compulsiva, di questo sommario di decomposizione. Il dettato è preciso e arioso; ampio. Il periodare è incalzante, le frasi si incastrano tra di loro man mano che si arriva al nocciolo del discorso: avanzano per riassestamenti, precisazioni, smentite e digressioni. Una scrittura fisica, che rende il conto di un’epoca e lo consegna, oggi, a quasi un secolo di distanza, in tutta la sua perturbante e disperata attualità. Ecco, come campione di prova conclusivo, uno stralcio della labirintica prosa di Scurati:
«A tenere il campo sarà l’antica arte occidentale della guerra, la ferma determinazione a cercare uno scontro frontale, un urto di masse, una battaglia di annientamento che, in una giornata campale, una “giornata del destino”, segnata dal dispiegamento totale della forza, da un’ascensione agli estremi della violenza, breve, brutale, risolutiva, divida irrevocabilmente il mondo tra vincitori e sconfitti, tra i vivi e i morti. Lo stesso, antico, irrinunciabile, sanguinoso desiderio di luce che ha animato, attraverso i millenni, i guerrieri d’Occidente, dalla carica a piedi degli opliti greci sulla piana di Maratona nel V secolo avanti Cristo alle dodici inutili carneficine nella valle dell’Isonzo all’inizio di questo Ventesimo».
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