Mai come nelle difficoltà, lo spirito patriottico italiano risalta e contagia chiunque abbia sangue tricolore nelle proprie vene. Ormai più di centocinquant’anni fa Massimo d’Azeglio pronunciò un detto molto conosciuto sia dal punto di vista accademico che popolare: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani».
Partire da questa citazione per descrivere il processo evolutivo del Bel Paese può sembrare scabroso e sconnesso; ma alla fine vi renderete conto che è quanto mai riassuntivo.
Su cosa si basa il nostro Paese
Nel 1861, con la speranza e certezza che da quell’unione sarebbe nato un paese dalle realtà grandi tanto quanto i suoi sogni, gli abitanti della penisola italica cominciarono a sentirsi parte di qualcosa. Questa sensazione nasceva dalla consapevolezza che il Paese sarebbe stato trascinato verso il “futuro”, verso quella stabilità necessaria per crescere.
Dopo centosessant’anni di storia, si può dire con estrema sicurezza che le fondamenta di quell’unione non sono state sistemate con solidità, ma con lungimirante aspettativa. L’Italia non sono gli appennini o le isole; non i fiumi o le Alpi; men che mai laghi e monumenti. O perlomeno, anche. Ma non solo.
L’Italia sono le persone che la vivono, che la respirano, che l’hanno resa grande con le proprie imprese. E adesso, dopo un’evoluzione culturale basata sullo screditare i programmi politici, sanitari, accademici, sociali, il nostro Paese si riunisce sotto l’egida del calcio. Unico collante in grado di disgregare e connettere animatamente una popolazione intera.
«Un popolo di calciofili, imbroglioni, menzogneri…».
L’istruzione costruisce il futuro
La domanda che sorge spontanea è: come siamo arrivati a questo? Com’è stato possibile arrivare a disgregare secoli di cultura risorgimentale, rinascimentale, contemporanea, in neanche duecento anni?
Il verbo disgregare è stato scelto appositamente perché, nella sua matrice latina [prefisso dis- davanti a grex, gregis, N.d.R.] indica il gruppo che viene scisso. Gli italiani si sono distaccati molto tempo fa, appena pochi anni dopo aver creduto di poter riuscire a crearsi.
Citando d’Azeglio, “fare gli italiani” significava (e significa) non solo delineare un popolo sotto la stessa bandiera, bensì dare anche forma alle generazioni a venire, modellandole con la cultura e con l’istruzione che nei secoli precedenti era completo appannaggio dei più ricchi.
I passi avanti che sono stati fatti nel Novecento, con il riconoscimento dei diritti per le donne, l’abrogazione delle leggi fasciste e razziste, la fine dei totalitarismi che hanno invaso l’Europa (e il mondo) sembravano poter essere la base di partenza di un Paese pensante.
La cultura era diventata il sostentamento delle classi più giovani, che si cibavano di poesia, arte, matematica, politica, filosofia. Un nuovo rinascimento che proveniva non dalla borghesia ma dalle masse; dove il mecenate era la nuova Repubblica, simbolo di una vera unità, sotto tutti i punti di vista.
Dove abbiamo sbagliato?
Lo spettro dell’inflazione culturale ha però spaventato lo Stato. Si è tornato ad aver paura delle menti pensanti, perché non c’è nulla di più pericoloso (o magari “creativo”) di un popolo in grado di dire la sua.
Il 1968 era stato il primo squarcio di intelligenza popolare, arrivata alla sua massima espansione con le rivolte (come sempre accade quando una delle due parti non vuole ascoltare) e le richieste, da parte dei giovani, per il riconoscimento dei propri studi e della propria soggettività.
Cinquant’anni dopo, in un periodo florido dal punto di vista delle scoperte tecnologiche, proprio ora che la genialità è il prodotto che più di tutti dovrebbe essere coltivato e fertilizzato, il nostro Paese ci chiede di non arare più le menti.
Ma non lo fa direttamente, con striscioni e pubblicità, lo fa cercando di dare seguito a un programma in cui ci promette le stelle e ci regala le stalle. Il mondo può essere cambiato in due modi: con le guerre, bombardando e conquistando i territori annettendoli senza pensare troppo alle conseguenze; o creando le menti dei cittadini di domani.
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Il futuro ai giovani
Ma per formare i giovani, e insegnare loro il valore delle cose, bisogna avere qualcuno che lo faccia. Il processo di scelta per determinare queste persone, questi soggetti adibiti all’insegnamento, è deciso però in un modo quanto mai stravagante: un concorso costruito appositamente per lasciare che solo poche persone possano riuscire a diventare professori di ruolo.
La restante parte di quei numeri (perché questo siamo) che non riuscirà a entrare in graduatoria potrà aspettare anni per ripetere l’esame di abilitazione, pregando nel frattempo per una supplenza.
Questo giro largo intrapreso dalle mie parole si va a focalizzare poi su dati molto precisi, quali abbandono scolastico, analfabetismo funzionale, scarse competenze matematiche o di lettura. Insomma, per dirla in breve: non c’è una reale motivazione che porti lo studente a voler imparare e conoscere.
Come nella migliore tradizione italiana, la colpa (sì, siamo anche un Paese di “puntatori di dito”) verrà data al professore non in grado di sollecitare l’alunno; o magari alla famiglia per cui, non avendo nessun membro laureato, meglio andare a lavorare; e solo in pochissimi casi, praticamente nulli, al sistema.
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Un cambio di sistema
Bisognerebbe rifondare il tutto. Dal punto di vista dell’istruzione, con troppi cambi in corsa (si cambia a ogni cambio di governo, il che significa praticamente ogni due o tre anni), non si è riusciti mai a dare seguito a un reale sistema di formazione d’insegnamento.
Servirebbe un Garibaldi che vada da parte a parte cercando di unificare ciò che ad oggi ancora non sembra essere unito; una camicia rossa che possa guidare i futuri professori e i futuri studenti verso una modalità d’insegnamento e d’apprendimento che sia funzionale per entrambi.
Perché la stabilità economica del Paese non si misura dal PIL, ma dalle menti che ben pensano.
Fatta l’Italia, è arrivato il momento di lasciar istruire gli italiani…
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