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Curiosità

Superare il limite bianco del razzismo

Published by
Valentina Calissano

Esiste un limite, un limite bianco che non aspetta altro che essere superato. È il limite del razzismo e dell’emarginazione, termini che spesso tornano a farsi sentire e di recente sempre più forte.
Ma questo limite fa parte di tutte le storie, vicine o lontane che siano. Quelle che si presentano sugli schermi delle televisioni e sui giornali e quelle che invece restano in silenzio, nelle scuole e nelle case, ad aspettare di essere notate, raccontate, ricordate.

Come la storia di Carl, bambino e poi ragazzo che subisce l’emarginazione a causa del colore della pelle. Adottato a sei anni inizia subito a fare i conti con i contrasti, con gli opposti della vita.
Non tutti sono accoglienti e gentili come i nuovi genitori, Elisa e Achille, anzi. Ben presto a scuola scopre di doversi difendere e così inizia a correre. E la corsa segnerà davvero la sua vita. Grazie alle lezioni del professor Fulli diventerà un atleta professionista e da adolescente imparerà i ritmi frenetici di una vita al limite tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Perché quel limite bianco non sarà solo un simbolo dell’indifferenza o del razzismo di chi circonda Carl, ma anche un limite personale da superare volando.

Questa è la trama dell’ultimo lavoro letterario di Antonella Dilorenzo, intitolato proprio Limite Bianco, edito da Scatole Parlanti nella collana Voci, a settembre 2020.

Limite Bianco di Antonella Dilorenzo

L’autrice Antonella Dilorenzo. Foto: Fabrizio Intonti.

TheWise incontra Antonella Dilorenzo, giornalista pubblicista di origini pugliesi, che vive a Roma. Ha lavorato per il gruppo Blogo e collaborato con La7. Suoi articoli e racconti sono apparsi su Wired, Fox Life, Corriere.it, Futura del Corriere e in giro per la litweb. Nel 2012 ha pubblicato il libro Cuochi, sorrisi e tv. Racconti e ricette della telecucina (Editori Internazionali Riuniti) e nel 2020 il romanzo Limite bianco (Scatole Parlanti). Ha frequentato un corso di scrittura alla Scuola Holden. Lavora al Gambero Rosso. Collabora con Fantastico! e nel 2019 ha fondato Rivista Blam e ora la dirige. 

L’abbiamo incontrata per parlare del suo ultimo romanzo e approfondire la storia e il personaggio di Carl, intento a superare i propri limiti e quelli dell’ambiente che lo circonda.

Quando è scattata la scintilla che ha portato alla luce Limite Bianco?

«Posso dirti esattamente il quando, ma non so definirti il perché. Credo che questa storia mi sia venuta a cercare quando mi trovavo in un momento di debolezza. È successo mentre frequentavo un corso della Scuola Holden. L’intento del corso era quello di inventare una storia, fare una scaletta, scrivere un incipit e un finale. È scrivendo l’incipit che Carl si è formato nella mia mente. Non ci è voluto molto per incastrarlo, poi, con i personaggi giusti al momento giusto e farlo crescere. Ciò che rappresentava una mancanza, in quel momento della mia vita, è stato colmato da un’esigenza: superare i limiti della paura, del giudizio nella scrittura. E l’ho fatto facendomi affiancare dalla persona giusta: Carl».

La figura di Jesse Owens è di ispirazione per il giovane Carl. Quale legame può rendere così simili due atleti lontani nel tempo?

«Tutta la storia di Carl viaggia in parallelo con la storia di Jesse Owens. Entrambi corridori, entrambi di colore, entrambi vittime di razzismo, come entrambi persone forti e pronte a superare i limiti. I riferimenti alla storia di Owens, nel libro, sono vari – vedi la corsa sulle stufe bollenti e i cavalli alle spalle. Ci sono personaggi storici diventati i veri influencer del mondo. Jesse Owens sfidò l’impossibile: corse (e vinse) in pieno nazismo (era il 1936) nella patria della dittatura hitleriana (a Berlino) dinanzi a centinaia e centinaia di tedeschi, ariani. Ma riuscì a vincere e a dimostrare che anche davanti allo sport (e non solo) siamo tutti uguali.

Jesse Owens vince le Olimpiadi nel 1936. Foto: Wikimedia Commons.

Chi, meglio di Jesse Owens, poteva essere d’ispirazione per Carl? Sono questi i riferimenti umani a cui ci si dovrebbe aggrappare. Perché le loro sono storie di caduta e riscatto, e se ce l’hanno fatta loro, ce la possiamo fare anche noi. Non contano le epoche storiche: le emozioni non hanno spazio e nemmeno tempo».

“Limite bianco”, oltre a dare titolo al romanzo, è un’espressione che ricorre molto spesso lungo tutta la narrazione. Cosa rappresenta per il protagonista?

«”Limite bianco” ha una doppia valenza. Il limite rappresentato dalla linea bianca del campo da corsa che Carl dovrà superare varie volte, e il limite del colore bianco della pelle con cui si confronta tutti i giorni.

La diversità, qui, è intesa come condizione naturale che prende forma nel momento in cui si supera il confine: se oltrepassi la linea bianca sarai diverso, nel bene e nel male. E Carl lo fa nella corsa: oltre la linea bianca è un individuo diverso da quello che qualche secondo prima era ai blocchi di partenza; e se supera mentalmente quel limite bianco del colore della pelle altrui, diventa diverso da sé stesso, quindi uguale agli altri. Tant’è che da
ventenne, divenuto assistente di un grosso imprenditore romano (ex datore di lavoro di suo padre), comincia ad amalgamarsi a lui e al suo ambiente sentendosi semplicemente nello spazio giusto, nel tempo giusto. Come lui partecipa a feste, come lui ha a che fare con droga e sesso, come lui ha a che fare con la quotidianità di un lavoro “normale”. È potente, perché non si sente più fuori luogo. In questo romanzo, oltrepassare il limiti vuol dire trasformarsi, cambiare pelle, in tutti i sensi».

Leggi anche: Bayard Rustin, l’attivista afroamericano LGBT dimenticato.

Carl e la prima gara. Foto: Valentina Calissano.

Carl subisce l’emarginazione e il bullismo a scuola a causa delle sue origini e del colore della sua pelle. Ma quale rapporto vive con i suoi genitori adottivi? È possibile affermare che nel romanzo sia presente anche il dramma dell’alienazione dall’ambiente più intimo della dimensione familiare?

«Carl è un bambino di origini africane adottato a sei anni da Elisa e Achille Giovannelli, una coppia romana che, alla luce della società, potremmo definire nella norma. Cuoca a domicilio, lei; assistente di un grosso imprenditore, lui. Tra i due, la persona più presente con Carl è sicuramente la madre, non perché l’affetto o i sentimenti siano più forti in lei, ma per il semplice fatto che la vita che conduce le permette di stare più accanto a suo figlio. Cosa che non succede del tutto con Achille, costretto da orari di lavoro assurdi ad alienarsi dalla scena familiare con suo grande dolore. Dolore che deriva, poi, dalle attività lavorative e illegali che tiene nascoste a sua moglie e suo figlio. E oltre a mancanza, sotterfugi, e ansie che ne derivano, vive nel perenne senso di colpa che non riuscirà mai a
debellare.

Questo a dimostrazione che anche i genitori non sono perfetti e, sottolineerei, nemmeno i genitori adottivi. La trafila per l’adozione, almeno in Italia, è molto lunga con controlli e analisi certosine che servono a dare o meno l’idoneità.

Ma chi stabilisce qual è l’amore, il sentimento più idoneo per un bambino? Di certo non serve solo la stabilità finanziaria, purtroppo.
Questo spaccato di vita normale di una famiglia adottiva racconta il disagio che ci può essere nonostante per la legge due genitori siano ritenuti “idonei”. Rappresenta, da un lato, anche la volontà di lanciare un messaggio: la famiglia perfetta non è detto sia quella costituita da madre-padre-figlio. Prendo a prestito una frase di Chiara Gamberale che dice:
“Famiglia è dove famiglia si fa”. E credo che qui non ci siano ulteriori spiegazioni da dare».

Leggi anche: Le due facce del razzismo in Italia.

Il romanzo è diviso in due parti, la prima in cui Carl è ancora un bambino, la seconda in cui il protagonista vive pienamente l’adolescenza. Alla luce di questo
sviluppo si potrebbe definire Limite bianco anche come romanzo di formazione?

«Sì, lo è. Quando ho costruito questo personaggio, l’intenzione era proprio quella di metterlo nel mondo, farlo crescere e sbagliare, farlo andare avanti con le sue gambe fino a evolversi sia fisicamente che mentalmente. Carl, come tutti, per crescere sbaglia, per crescere e apprendere reitera molte azioni. E solo con la forza dell’abitudine e delle esperienze riesce a diventare adulto, a scontrarsi con il suo mondo del passato e a gettare le basi per il suo futuro. A formarsi, come ogni essere umano.

Credo sia questo il motivo per cui Carl possa rappresentare un personaggio con cui confrontarsi, sia che ci si metta nei panni del ragazzo/adolescente, sia che lo si veda dall’esterno come un figlio (parlo dei genitori che leggeranno questo libro). Un romanzo di formazione, dunque, che sia di aiuto ai genitori per capire i figli, e ai figli per capire i genitori».

I recenti fatti italiani in materia di emarginazione e razzismo sembrano fortemente legati alla storia di Carl. Qual è la tua riflessione in merito?

«Purtroppo, o per fortuna, sono molto legati. Hai ragione. Credo che chi abbia la capacità di veicolare messaggi sull’argomento debba farlo senza remore, debba sfruttare il canale divulgativo attraverso cui comunica.

Parlarne non sarà mai abbastanza. Non c’è articolo di giornale, libro, esposizione verbale in un video o similare che parli di quanto grave sia l’emarginazione, il bullismo, il razzismo che non aiuti, anche un minimo, a fermarci e riflettere su quanto accaduto. Penso a Willy ucciso a Colleferro, e penso a George Floyd a cui hanno tolto il respiro in America. Se scrittori, che prima di tutto sono pensatori e divulgatori di messaggi, mettessero in pratica le loro capacità, potrebbero fare tanto. Io ci ho provato».

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Valentina Calissano

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