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Giovanni Brusca, la vera storia del sicario di Cosa Nostra

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Francesco De Paolis

Da circa un mese a questa parte la notizia che sta scuotendo l’opinione pubblica è la scarcerazione per fine pena di Giovanni Brusca, esponente di Cosa Nostra e collaboratore di giustizia dal 2000. Per aver usufruito dei benefici del Decreto legge del 15 gennaio 1991 sui collaboratori di giustizia, Brusca è stato liberato dopo soli ventinove anni di carcere, avendo rilasciato dichiarazioni ritenute attendibili dalla magistratura. 

Gli inizi

Nacque nel 1957 a San Giuseppe Jato, piccolo comune di ottomila anime nel palermitano. Sin da giovanissimo entrò in contatto con alcuni esponenti della criminalità organizzata, iniziando a delinquere poco più che da ragazzino. 

Suo padre, Bernardo Brusca, era un boss di spicco della mala siciliana, mentre entrambi i fratelli, Emanuele ed Enzo Salvatore, avevano il rango di “uomini d’onore”. Nel 1976, all’età di soli diciannove anni, Giovanni Brusca entrò nella cosca del padre, dando ufficialmente il via al proprio cursus honorum nel mondo della criminalità. 

Quello stesso anno, dopo aver commesso un omicidio per i Corleonesi, capeggiati da Salvatore Riina, Brusca fu protagonista della propria cerimonia di iniziazione (la cosiddetta “punciuta”) in cui lo stesso Riina ebbe il ruolo di “padrino”. 

Gli omicidi

Negli anni successivi, a seguito di molte uccisioni, fu ribattezzato Scannacristiani (a causa della sua ferocia)  e divenne uno dei fedelissimi del “capo dei capi”, nonché uno dei killer più spietati di un’élite di sicari di cui facevano parte, tra gli altri, anche Antonio Madonia, Pino Greco detto Scarpuzzedda, Vincenzo Puccio, Giuseppe Lucchese e Calogero Ganci. 

Nel 1977 Brusca, assieme a Madonia, Puccio, Greco e Leoluca Bagarella, partecipò all’omicidio del capitano Giuseppe Russo braccio destro del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e comandante del nucleo investigativo di Palermo dell’Arma ordinato dal tandem Totò Riina-Bernardo Provenzano. Cinque anni più tardi, invece, collaborò alla fabbricazione dell’autobomba utilizzata per uccidere il giudice Rocco Chinnici e la sua scorta. 

Tra il 1983 e il 1984, dopo aver preso parte all’uccisione del capitano dei carabinieri Mario D’Aleo, il quale aveva in precedenza arrestato Brusca e sottoposto a pressanti indagini la di lui famiglia, sopraggiunsero le prime soffiate alle forze dell’ordine e i primi mandati di cattura. 

La latitanza

A seguito del pentimento e delle dichiarazioni del boss dei due mondi Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, Brusca fu costretto al soggiorno obbligato presso Linosa, mentre di lì a poco suo padre venne arrestato, lasciando la sovrintendenza del mandamento di San Giuseppe Jato a un uomo di fiducia, Baldassare Di Maggio

Nel 1991 Giovanni Brusca si diede alla latitanza, riprendendo le redini di San Giuseppe Jato e mettendo da parte Di Maggio che, fuggito per paura di essere ucciso, iniziò a collaborare con la giustizia, portando all’arresto di Totò Riina. 

Le stragi e la guerra allo Stato

Messa alle strette dalle dichiarazioni dei pentiti, Buscetta su tutti, Cosa Nostra iniziò, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, una vera e propria guerra allo Stato, combattuta attraverso stragi e omicidi premeditati, di cui Brusca fu spesso autore o mandante. 

Il 23 maggio del 1992 il conflitto tra istituzioni e mafia culminò con uno degli eventi più tragici della storia della repubblica italiana: la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, a seguito dell’innesco di una smisurata quantità di esplosivo sotto il viadotto autostradale. Brusca, assieme a molti altri esponenti della criminalità corleonese, fu uno degli esecutori dell’attentato comandato da Riina, Provenzano e Calò. 

Il blitz e l’arresto

I primi di gennaio del 1996, dopo l’altro grande lutto rappresentato dalla strage di Via D’Amelio e dopo la brutale uccisione del giovane Santino Di Matteo, figlio del pentito Mario Santo di Matteo, sciolto nell’acido da Brusca a seguito di una lunga prigionia, le forze dell’ordine, seguendo le indicazioni del collaboratore di giustizia Tony Calvaruso, riuscirono a individuare il luogo in cui si nascondeva Brusca, latitante ormai da più di cinque anni. 

La villetta, in una frazione balneare nell’agrigentino, era sorvegliata da mesi da un secondo piano di una villetta in una via parallela. Al momento dell’arresto, eseguito grazie all’intervento di oltre centocinquanta unità di polizia e carabinieri,  i fratelli Brusca stavano guardando il film Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara, trasmesso da Canale 5. 

Oltre all’arresto del sicario di Cosa Nostra, le forze armate trovarono, all’interno del bunker in cui era stato tenuto prigioniero Santino Di Matteo, un arsenale d’assalto munito di bombe anticarro, fucili mitragliatori, kalshnikov, bazooka, granate e lanciarazzi, oltre che un enorme quantitativo di munizioni. 

La collaborazione con la giustizia

Un mese dopo l’arresto, Brusca iniziò a rilasciare dichiarazioni alle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, le quali però si rivelarono false e volte esclusivamente al danneggiamento di cosche rivali. Dal 1997, ormai alle strette, cominciò il suo reale percorso da collaboratore di giustizia, e dal 2000, essendogli stato riconosciuto tale status, usufruì dei benefici e degli sconti di pena previsti dal decreto 8/1991 voluto da Falcone in persona. 

Libero da poco meno di un mese, Brusca è ora un cittadino comune, sebbene per altri quattro anni dovrà essere sottoposto a vigilanza e viva sotto scorta. 

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Francesco De Paolis

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