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Il G8 di Genova: tre giorni lunghi vent’anni

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Carlotta Zaccarelli

Nei tre giorni compresi tra il 19 e il 21 luglio di quest’anno, ricorre il ventennale del G8 di Genova.

In quei tre giorni del 2001, lo Stato italiano ha commesso crimini che hanno toccato i diritti umani non solo di centinaia di persone personalmente presenti nel capoluogo ligure durante il breve periodo della riunione internazionale: sono stati toccati i diritti di tutti i cittadini italiani e di tutte le cittadine italiane, perché le violenze compiute dai suoi rappresentanti sono state generiche, randomiche, senza discriminanti.

Comprendere le circostanze di quegli eventi e ripercorrerli è fondamentale, per difendere i propri diritti e per evitare che quei crimini siano ripetuti.

La preparazione tra dubbi e informative

Il G8 di Genova era il meeting degli otto Paesi più industrializzati del mondo: Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Canada, USA, Giappone e Russia si incontravano per cercare un’intesa sulla direzione futura della politica economica globale. Il summit e le decisioni che sarebbero scaturite da esso non avevano alcun valore legale: il G8 era stato convocato in modo spontaneo e su base volontaria dagli stessi partecipanti, che quindi non potevano pretendere che i loro accordi potessero vincolare il resto del pianeta. Tuttavia, l’evento aveva un forte valore politico perché riuniva (e presumibilmente concertava le volontà) gli Stati più ricchi e quindi con maggiore capacità d’azione e di leva politico-economica.

È, questo, un punto fondamentale per capire il motivo dell’organizzazione di manifestazioni anti-G8: la protesta si concentrava contro una gestione elitista del destino comune. I manifestanti contestavano una globalizzazione intesa come processo di soggezione e omologazione condotto secondo logiche neoliberiste che individuavano nel profitto dei pochi l’unico obiettivo perseguibile, alimentando così disuguaglianze che si estendevano su tutti i piani del vivere comune della società internazionale. Chi sarebbe sceso in strada per dichiarare il proprio dissenso era un universo costituito da associazioni, organizzazioni non-governative, gruppi e individui che non si riconoscevano in un’unica bandiera, ma che erano accomunati dalla voglia di presentare una proposta alternativa all’ordine globale imposto dal sistema vigente. La maggior parte arrivava a Genova con intenzioni pacifiche. Alcuni, senza dubbio, con uno spirito più guerriero: i cosiddetti “black block”, quelli identificati come i vandali vestiti di nero, c’erano e hanno agito ma non sono stati il principale bersaglio delle forze dell’ordine.

Proprio per fare chiarezza su chi fossero i manifestanti e cosa volessero, la Questura di Genova ha messo insieme un fascicolo investigativo informativo. Compilata ai primi di luglio 2001 e poi resa nota dal quotidiano Il Secolo XIX alcuni giorni dopo la fine del G8, l’Informativa sul fronte della protesta anti-G8 divideva i gruppi di contestazione in blocchi colorati in base alla loro pericolosità, segnalando anche le presunte strategie d’azione di ognuno. Il “Blocco rosa” era il più pacifico: le associazioni che in esso erano inserite avrebbero avuto intenzione di manifestare senza disordini. Il “Blocco giallo” avrebbe potuto dare più pensieri, in quanto i suoi componenti avrebbero potuto causare azioni di disturbo volte a ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine. Si trattava comunque di atti non particolarmente violenti: presidi, boicottaggi, blocchi stradali o ferroviari, uso di spray urticanti, lanci di oggetti. Più preoccupanti erano invece il “Blocco blu” e il “Blocco nero”, perché avrebbero cercato lo scontro diretto con le forze dell’ordine per impedire il regolare svolgimento del vertice. L’informativa imputava loro la capacità di attuare azioni violente su diversi fronti. Questa possibilità allarmava particolarmente i questori di Genova e altre istanze pubbliche italiane anche per il contesto urbano nel quale tali azioni sarebbero avvenute. La topografia del capoluogo ligure, con le sue stradine strette e intricate, sembrava favorire l’organizzazione di brevi attacchi i cui partecipanti si sarebbero potuti disperdere rapidamente, l’applicazione di strategie di una guerriglia urbana che avrebbe potuto dilagare facilmente per la città. Di contro, rendeva difficile l’organizzazione di misure di ordine pubblico adeguate a un grande evento come il G8, tanto che la scelta della città come sede della riunione internazionale era stata criticata da diverse parti nei mesi prima del luglio 2001. E quei mesi, come almeno i due anni precedenti, erano stati densi di segnali che dimostravano come un meeting di quella portata dovesse essere pensato nei minimi particolari per minimizzare le violenze e gli incidenti: Seattle (1999), Napoli (marzo 2001) e Göteborg (giugno 2001) erano state testimonianze del fatto che gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine potevano degenerare facilmente. Il Governo italiano in carica non ha voluto ascoltare questi dubbi: l’impegno era stato preso, la location stabilita, Genova si doveva fare.

Corteo con scudi di plastica in Corso Europa, Genova
Fonte: Ares Ferrari – Wikimedia Commons.

I tre giorni del G8 di Genova

Agitazione e disorganizzazione sono state le cifre dominanti dei tre giorni del G8 di Genova. I risultati, quelli intuiti. La violenza, si spera, molto più grande di quella prevedibile.

Giovedì 19 luglio, la prima giornata, è passata in modo tranquillo: la marcia dei migranti organizzata in quella data non ha visto scontri.

Già dal primo pomeriggio, invece, venerdì 20 luglio si è dimostrato particolarmente inquieto. Forze dell’ordine e manifestanti si sono scontrati in diversi luoghi della città. Anche i più pacifici rimangono coinvolti: un corteo autorizzato viene bloccato e aggredito da un gruppo di Carabinieri durante la sua regolare marcia. Alle 15.00 circa, è iniziata la tragedia di Piazza Alimonda. Le forze dell’ordine hanno lanciato lacrimogeni in direzione di alcuni manifestanti che transitavano in fondo la piazza in modo tranquillo, come testimoniato da alcune persone affacciate ai balconi attorno al luogo. Quindi, gli agenti si sono ritirati verso la piazza vera e propria. I manifestanti sono partiti all’inseguimento: alcuni di loro hanno aggredito un Land Rover Defender, un mezzo dei Carabinieri, che si era trovato separato dal proprio reparto perché il suo percorso era stato ostacolato da un cassonetto rovesciato. Sul veicolo si trovano tre giovani Carabinieri, circondati dai manifestanti che hanno continuato l’aggressione. Improvvisamente, uno degli uomini in divisa ha estratto la pistola d’ordinanza e l’ha puntata ad altezza uomo verso un giovane che alzava un estintore sopra la testa, a circa quattro metri dal Defender. Il Carabiniere ha sparato due volte e Carlo Giuliani, il manifestante con l’estintore, è caduto a terra colpito alla testa da uno dei proiettili. Sono circa le 17.00 ed è scoppiato il caos, ma Carlo Giuliani è ancora vivo. Il Defender è riuscito a liberarsi dall’impasse del cassonetto e si è allontanato dallo scontro: nel farlo, ha investito Carlo Giuliani due volte. Nessuno, nessuna delle pubbliche autorità ha prestato primo soccorso a Carlo Giuliani, che è morto alcuni minuti dopo l’accaduto. Le forze dell’ordine hanno ripreso il controllo della piazza e nascosto il corpo a terra, lasciando che si avvicini solo il personale medico che dopo mezz’ora arriva sul posto per trasportare Carlo Giuliani altrove. Nel frattempo, gli scontri tra manifestanti e agenti non si sono fermati. Anzi, la situazione è degenerata a tal punto che, secondo sua stessa ammissione, l’allora ministro degli Interni Scajola ha dato ordine alle forze dell’ordine di sparare ai manifestanti qualora si fossero introdotti nella zona rossa di Genova, la parte più controllata e asserragliata della città perché lì dovevano avvenire gli incontri e lì si trovavano i rappresentanti dei Governi che partecipavano al summit internazionale.

Sabato 21 luglio, l’ultimo dei tre giorni del G8, non poteva cominciare in modo più teso quindi. Ed è peggiorato: è il giorno dei fatti della scuola Diaz-Pertini. L’edificio era stato concesso in gestione al Genoa Social Forum, il conglomerato di organizzazioni che ha organizzato in gran parte le manifestazioni anti-G8, ed era occupato da manifestanti e giornalisti italiani e stranieri. Nel pomeriggio di sabato, le forze dell’ordine hanno pattugliato la zona ma non sono intervenute sugli occupanti. Sono però ritornate intorno alle 22.00, quando centinaia di poliziotti supportati da Carabinieri hanno circondato la scuola. Si sono fermati in silenzio davanti al palazzo, in strada, e hanno cominciato a prepararsi con le tenute antisommossa. Poi, hanno assaltato l’edificio e aggredito indiscriminatamente i suoi occupanti. Avevano l’ordine di prendere tutti. Lo hanno fatto con violenza fuori misura, senza limiti, traumatizzante tanto per chi l’ha subita come (addirittura) per chi abitava attorno alla Diaz e si trovava a essere testimone dei fatti: negli atti del processo contro gli esponenti delle forze dell’ordine accusati dei pestaggi, i fatti sono paragonati a una “macelleria messicana”. Dopo l’avvenimento, la scuola è rimasta sequestrata venti giorni: la maggior parte è servita per ripulire i locali dal sangue e dalle tracce di chi era stato massacrato al suo interno. Un reato durato circa due ore: introno alla mezzanotte (sempre di sabato), non è rimasto nessuno che non sia stato toccato dalla furia e le forze dell’ordine hanno cominciato ad allontanarsi dalla scena del crimine. Circa trenta manifestanti sono usciti dalla Diaz in barella. Altri sono stati portati nel carcere provvisorio di Bolzaneto.

E Bolzaneto è un altro problema dei tre giorni del G8 di Genova. Nella struttura, per la durata del meeting, i manifestanti sono portati spesso per fermi immotivati e sottoposti a tortura: minacciati (anche di violenza sessuale), spogliati, derisi, umiliati, picchiati. Un testimone ha raccontato delle risa degli agenti mischiate alle urla dei manifestanti detenuti, della paura. Complici degli agenti che anche qui massacravano sono stati medici e infermieri della struttura penitenziaria. E anche qui, il reato sembra non essere eterno, perché i tempi di detenzione sono arbitrari (dalle dodici ore medie di venerdì alle trentatré della domenica mattina, dopo i fatti della Diaz) e perché i fermati non hanno la possibilità di avvisare famigliari e avvocati della loro condizione.

Targa di Piazza Alimonda a Genova, da qualcuno reintitolata a Carlo Giuliani.
Foto: flickr.com

Un G8 senza fine

I tre giorni del G8 di Genova sono stati una continua violazione dei diritti di chi aveva deciso di partecipare all’evento contestandolo. L’informativa sui manifestanti sembrava prendere una posizione negativa nei confronti di misure che i manifestanti avrebbero potuto prendere legittimamente, per tutelare i propri diritti in generale e la libertà d’informazione e di essere informati. Il rapporto, infatti, metteva in guardia contro la possibilità che i blocchi più pacifici organizzassero gruppi di esperti legali per difendersi da eventuali reati commessi nei loro confronti o che si munissero di media (come canali satellitari affittati) per trasmettere in diretta le manifestazioni. Le minacce di aggressione da parte delle forze dell’ordine e le aggressioni vere e proprie hanno represso la libertà di espressione e di riunione pacifica dei manifestanti. A chi è stato detenuto ingiustamente è spesso stato negato il diritto a comunicare la propria detenzione. Ai picchiati selvaggiamente, quelli delle strade, alla Diaz e a Bolzaneto, è stato tolto il diritto alla salute e all’integrità fisica. A Carlo Giuliani è stato strappato il diritto alla vita. Tre i fatti da sottolineare, a questo punto. Il primo, raccapricciante, è che la violenza è stata perpetrata da rappresentanti dello Stato contro i cittadini. Uno Stato deve certo garantire il rispetto dell’ordine pubblico, perché questo significa il rispetto delle regole stabilite dalla comunità per organizzare la convivenza comune. Ma proprio perché si tratta di un mandato che riceve dalla comunità, lo Stato dovrebbe garantire il rispetto dell’ordine pubblico nella sicurezza generale: nessun cittadino, nessun membro della società dovrebbe finire in barella o a terra sanguinante o morto per mano delle forze dell’ordine. (I limiti della questione, evidentemente, esistono. Qui il senso generale è che la sicurezza individuale e collettiva dovrebbe sempre essere una priorità delle forze dell’ordine: a Genova, nonostante non ci fossero terroristi o assassini, non lo è stata). E la questione della sicurezza porta con sé il secondo fatto a cui si accennava prima. La violenza è stata generalizzata, indiscriminata, cieca. Gli agenti non perseguivano sospetti con nomi e cognomi: si sono gettati, secondo gli ordini e il loro istinto, contro tutti. Significa che tutti, anche cittadini che non avevano intenzione di unirsi alle manifestazioni, erano potenzialmente in pericolo. Terzo fatto: non ci sono state serie conseguenze giuridiche per gli esponenti delle forze dell’ordine o per le forze dell’ordine in generale. Sono stati istituiti processi contro alcuni agenti, ma la maggior parte sono finiti in fumo: i reati sono stati dismessi perché giudicati non sussistenti, le procedure chiuse per prescrizione. Raramente le indagini sono riuscite poi a risalire ai veri perpetratori delle violenze, perché non è stato possibile identificare con certezza gli individui dietro i caschi e nelle divise. Mai è stata emessa una condanna per tortura, nonostante “tortura” sia stato il termine spesso usato per definire le violenze subite dai manifestanti in svariate occasioni. Tortura è anche la condanna emessa nei confronti dello Stato italiano dalla Corte Europea di Diritti dell’Uomo, quando le è stato presentato il caso dell’assalto alla scuola Diaz. In quella sentenza, datata 2017, il tribunale internazionale sottolineava come l’Italia non avesse ancora un reato di tortura e una legge che lo puniva e come questo rendesse complicato giudicare alcune violenze.

Lo Stato ha tappato il buco legale introducendo il reato di tortura e di istigazione alla tortura nel Codice penale nel 2017: è prevista un aggravante se il perpetratore è pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Tuttavia, la serietà e la tenuta del provvedimento sono un poco dubbie: già nel 2018, Fratelli d’Italia ha contestato l’introduzione del reato perché impedirebbe agli agenti di svolgere il loro lavoro. La tutela degli agenti sembra essere il motivo principale della difficoltà dell’adozione di un’altra misura fondamentale per la protezione dalla violenza istituzionale, ugualmente caldeggiata da Parlamento europeo e Nazioni Unite. Si tratta dei codici alfanumerici identificativi: piccole sequenze di lettere e numeri apposte su divise e caschi per dare agli agenti un nome e un cognome. Una sorta di distintivo, un equivalente del cartellino di riconoscimento di altre figure che svolgono servizio pubblico (come i controllori sui treni). Un documento d’identità tanto più necessario per chi si occupa di un compito importante come la sicurezza pubblica: costituire un elemento di trasparenza nel lavoro delle forze dell’ordine, un elemento per creare fiducia nei cittadini, una garanzia per gli agenti che svolgono correttamente il loro lavoro, un deterrente per chi è tentato a non farlo. La soluzione è costituita dalla proposta, sostenuta anche da una petizione aperta da Amnesty International Italia, di apporre dei codici o numeri identificativi sulle divise e i caschi degli agenti che svolgono servizio di ordine pubblico. Tuttavia, la proposta di questi codici alfanumerici è contestata da più parti (compresa quella politica), perché metterebbe le forze dell’ordine sotto una pressione eccessiva nello svolgimento del loro lavoro. Una giustificazione simile è stata usata quando Fratelli d’Italia ha proposto l’abolizione del reato per tortura, nel 2018.

Nonostante la petizione di Amnesty International e l’esempio della maggior parte dei Paesi membri dell’Unione europea, l’introduzione di misure identificative per le forze dell’ordine sembra essere ancora lontana. L’Italia è in ritardo, anche su questo fronte. E la situazione non sembra migliorare, perché la violenza perpetrata dagli agenti non è un fatto circoscritto ai tre giorni del G8 di Genova. Gli esempi sono tanti, individuali e collettivi. Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi sono conosciuti. E il caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere l’ultimo scandalo in ordine cronologico. Però non si tratta di episodi sporadici. E tutti riportano elementi che richiamano Genova: aggressioni indiscriminate e immotivate, umiliazioni, derisione. Sono segnali di pericolo per tutti e tutte, ma esiste un vuoto carsico intorno alla loro realtà: emergono dal sottosuolo dell’ingiustizia pubblica solo quando trasbordano i limiti di ciò che sembra (ma non dovrebbe) essere comunemente sopportabile. In altre parole, non esiste un vero dibattito pubblico sulla questione. Non sembra che la violenza quasi legittimata delle forze dell’ordine preoccupi nessuno. Dovrebbe, però. Perché il rischio è quello che i diritti di tutti siano di nuovo messi in pericolo. Perché i tre giorni del G8 di Genova non devono ripetersi. Perché devono davvero significare qualcosa.

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Carlotta Zaccarelli

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