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Curiosità

Schegge di rumore, l’hardcore punk negli anni Novanta

Published by
Marco Capriglio

Oggi theWise Magazine ha incontrato Andrea “Capò” Corsetti e Monica “RageÀpart” Miceli, autori di Schegge di rumore. Storie di hardcore italiano negli anni ’90. Il libro, edito da Scatole Parlanti, cerca di ripercorre la storia dell’hardcore nella nostra penisola.

Cosa è l’hardcore punk? Cosa significa D.I.Y.?

Andrea: «Ciao e innanzitutto grazie per il supporto! Difficile definire in breve il termine hardcore. Non certo un sottogenere musicale, ma un vero e proprio stile di vita, direi. Questo va oltre quelle semplici otto lettere tatuate sul mio polpaccio… uno dei primissimi tra l’altro! Citando brevemente i Dissesto di Pescara, band hardcore presente nel libro e attiva per un decennio dal 1995, “HC non è tendenza, HC è resistenza!”

D.I.Y. invece è l’acronimo di do it yourself, in italiano fai da te, anima principale e vero motore dello spirito HC! Si va dai concerti, ai dischi, al materiale vario (magliette o toppe), tutto inteso come no profit, fuori (finché possibile) dalle rigide logiche di sfruttamento imperanti nell’ultima era del capitalismo occidentale».

Monica: «L’hardcore punk è rumore. Uno stile di vita contrapposto al resto della società. È il frastuono che assomiglia a ciò che sento avere dentro di me. Semplicemente è come io sono. Resta sempre un connubio difficile da spiegare per chi non lo vive. Scoprii l’hardcore per caso ma poi, con determinata convinzione, l’ho cercato e voluto. Fu come inseguire il malessere che mi divorava dentro fino a sbatterci la testa contro. Invece di un muro, trovai una porta aperta. E soprattutto trovai un movimento pieno di gente come me, che diceva le stesse cose che pensavo anche io e faceva quello come anche io credevo si dovesse fare.

Dopo tutto il tempo trascorso a sentirmi ovunque fuori posto, finalmente trovai una dimensione in cui mi sentirmi a mio agio. Potevo dare un nome a quell’irruenza che infuriava sotto la mia pelle. Conobbi l’hardcore e riconobbi me stessa. Per la ragazzina che ero al tempo, quel momento di incontro rappresentò un autentico punto di svolta per uscire dall’isolamento mentale in cui mi sentivo reclusa, a causa del mio essere “altro”.

Come diceva Andrea, D.I.Y. sta per do it yourself, fallo da te. Questa è una delle pratiche più significative del movimento HC. Quella cioè di superare gli ostacoli e le difficoltà rimboccandosi le mani, contando sulle proprie capacità, senza delegare al mondo esterno ciò che possiamo fare a modo nostro. È la messa in pratica del concetto di autogestione, in cui crediamo tantissimo e che genera buoni frutti. Qualche esempio? Se vuoi un luogo dove fare attività e aggregazione sociale con il tuo gruppo di amici, collettivo o crew (chiamalo come vuoi) ma non riesci a farcela, ti scegli un posto adatto e te lo occupi, evitando di lagnarti all’infinito senza mai alzare un dito o magari chiedere la “questua” al Comune-cattivo-che-non-pensa-ai-giovani.

Se hai un gruppo punk HC e vuoi incidere l’album con le tue canzoni, ti crei la tua piccola etichetta D.I.Y. per sostenere le spese (o ti rivolgi alle moltissime già esistenti nel movimento), che ti permetterà di far uscire il disco e distribuirlo nel nostro circuito senza perdere il controllo di ciò che crei. Ovvero senza dover cambiare pelle per piacere all’industria musicale. Senza essere sfruttato per poi essere masticato e risputato nel nulla dal quale sei venuto oppure, nel caso opposto, essere incatenato e spremuto con contratti truffa e nel frattempo far arricchire produttori e commercianti che si ingrassano alle tue spalle. E così potrei continuare con tantissimi altri esempi. In sostanza, il do it yourself è il modo in cui riusciamo a stare in piedi da soli».

Andrea Corsetti. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Chi sono le Schegge di rumore?

Andrea: «Nel caso specifico di questo libro, a nostro modesto parere, queste schegge di rumore sono le storie dei nostri amati intervenuti. Piccoli e/o grandi protagonisti di quegli anni sopra e sotto il palco. Sono stati bravissimi a trasportarci nel loro vissuto e a farci rivivere quelle bucoliche esperienze di provincia e non. E il rumore sta proprio nel fatto di non aver scelto l’omologazione di questa società basata sul produci-consuma-crepa. Anzi, aver imbracciato un microfono e uno strumento per gridare dal basso la propria rabbia riguardo temi scomodi allo Stato come animalismo, autoproduzione, antimilitarismo e anarchismo libertario».

Monica: «Le schegge di rumore sono le sedici persone intervistate, che si sono raccontate. Hanno condiviso le proprie esperienze, i ricordi, le impressioni e gli aneddoti, spassosi e non, di quegli anni da loro vissuti. Sono tutti membri di gruppi HC del filone vecchia scuola degli anni Novanta. Parliamo di formazioni storiche ancora oggi in piena attività, come nel caso di Contasto (è di pochi mesi fa l’uscita di Visto per censura, il loro ultimo disco), Affluente e Tear Me Down, mentre altre sciolte, come Frammenti, Sottopressione, By All Means, Kafka, Jilted, Monkeys Factory, Dissesto, Hobophobic, The Sickoids e Flop Down. Tra gli intervistati c’è anche Andrea, il coautore di questo libro-avventura, vista la sua presenza importante nella scena HC di quegli anni anche come batterista di due dei gruppi appena citati, ovvero Flopdown e TMD».

Qual era il rapporto tra hardcore punk, politica e impegno sociale?

Monica: «Innanzitutto, una precisazione mi sembra doverosa per rendere più chiare le riflessioni successive. L’impegno politico a cui si fa riferimento in Schegge di rumore è quello antistituzionale, fuori dalla logica parlamentare e dello Stato. Essendo l’hardcore un movimento in aperto conflitto con il capitalismo e la società, le sue regole morali non scritte ma ugualmente imposte e con le sue leggi codificate create a vantaggio esclusivo del ceto sociale dominante, è presente in esso una grossa componente di critica politica e sociale all’esistente. Proprio come oggi, però, anche allora non esisteva un unico modo di vivere questi diversi aspetti e di metterli in relazione tra loro.

Nelle interviste di Schegge di rumore emergono nettamente i diversi punti di vista personali a questo riguardo, come pure le diverse sensibilità e prassi. Ci sono casi in cui le cose coincidevano, cioè c’erano persone che suonavano, erano anche politicizzate e, inoltre, facevano parte di collettivi politici. Poi c’era chi suonava e aveva pure posizioni politiche chiare che venivano comunicate attraverso le canzoni del gruppo ma non faceva parte di collettivi, perché dentro di sé considerava già questa cosa come militanza, oppure c’è chi, partendo dallo stesso presupposto del caso precedente, invece, percepisce questa differenza tra l’essere politicizzati e il militare attivamente, ma sente come più giusto o naturale continuare a fare agitazione da sopra il palco.

Infine c’è anche chi suona ma non è interessato all’azione politica né la mette in pratica. Quindi, come vedi, gli scenari e pure gli orizzonti sono eterogenei, a volte molto lontani tra loro. A livello personale, mi sento vicina alle esperienze in cui si percepisce intensamente la necessità di mettere in pratica con fatti concreti ciò che si andava suonando sopra il palco, mettendo sottosopra le città con tutti i mezzi a disposizione, dai presidi alle azioni, dai concerti alle manifestazioni, dalle assemblee alle situazioni di piazza: tutto sotto lo stesso cielo, come dice uno dei nostri intervistati.

Questo è solo il mio punto di vista, non suono ma sono una militante politica oltre a far parte di un collettivo punk, il Tuscia Clan, perché ho bisogno di portare anche all’esterno questo stile di vita in guerra con lo stato di cose presenti, come esigenza di cambiamento e di trasformazione reale attraverso la lotta. Ad ogni modo, al di là della posizione personale, credo maggiormente nel valore della coerenza, perciò non sono ossessionata dal fatto che un gruppo sia politicizzato o meno (preferirei ci fosse maggiore militanza!), mi importa di più che non vada a millantare sopra o sotto il palco di fare cose che poi nella realtà non fa».

Andrea: «Per certi versi, almeno nel caso mio e dei Tear Me Down, era un’unica cosa. L’espressione impegno sociale non mi piace dato che fa molto “crocerossini”! Preferirei il termine militanza inteso a trecentosessanta gradi. Far parte di un collettivo politico, come quello Antagonista, presente a Viterbo alla fine degli anni Novanta, la partecipazione a cortei e l’organizzazione di benefit a favore di detenuti o prigionieri politici. Questo era presente in buona parte anche con l’altra mia band etrusca attiva in quegli anni, i Flopdown».

Monica Miceli. Foto per gentile concessione dell’intervistata.

Andrea, cosa voleva dire essere un batterista hardcore punk negli anni Novanta?

Andrea: «Mentalmente credo la stessa cosa che esserlo negli anni Ottanta, ma con molte meno facilitazioni rispetto ai millenial di oggi. Cosa, questa, a cui si poneva rimedio usando molta fantasia; come quando, appena iniziato, avevo la batteria accanto al letto e la suonavo coprendola con le mie magliette per attutirne i rumori e non fare impazzire i vicini! Altro che pad [oggetto che simula la risposta di un tamburo della batteria, ma in modo silenzioso, N.d.R.] o batterie elettroniche! Il tutto alla faccia dei più rudimentali metodi di solfeggio o ritmo, vedi l’uso dei moderni metronomi. Te lo dice uno “sfigato” autodidatta che poi, anche in buona parte grazie alla fortuna, s’è ritrovato a dividere il palco con band come Obituary, Diaframma, Brutal Truth, Nabat o Banda Bassotti».

Si può parlare di hardcore punk oggi? La scena è riuscita a trasformarsi o è morta, schiacciata dalla tecnologia?

Andrea: «Certo, nato sul finire degli anni Settanta, l’hardcore invecchia bene, rigenerandosi grazie anche a un lento ma progressivo ricambio generazionale. Vedi le importanti scene presenti nelle maggiori città come Milano, Torino o Roma. Per me la tecnologia non è un male a prescindere, tutto dipende dall’uso che se ne fa. E la rete ha per certi verso aiutato la scena accorciando le distanze in caso di booking per concerti o tour, così come nella maggior velocità nello stampare cd, fanzine o manifestini».

Monica: «Secondo me oggi si può parlare eccome di hardcore punk! La scena esiste, i collettivi ci sono, le band pure, i luoghi idem, malgrado alcune città siano in sofferenza. Soprattutto però c’è la voglia di fare, fare bene e a modo nostro. Io ritengo che la scena HC abbia saputo traghettarsi da un decennio all’altro e le trasformazioni prodotte facciano parte del gioco. Anzi, i cambiamenti in positivo potrebbero anche interpretarsi come segni di vita e di energia interna al movimento. Resta immutato nel tempo solo ciò che muore, a volte! Poi, da persona più giovane e forse più abituata all’uso della tecnologia, non percepisco in modo nefasto i cambiamenti avvenuti su questo piano.

Mi sembra abbastanza naturale che anche la scena abbia beneficiato dei vantaggi rappresentati da alcuni dei progressi tecnici sviluppati dagli anni Ottanta ad oggi e che, di conseguenza, abbia deciso di dotarsi e adottare una parte di essi. Anche qui, il buon senso e la coerenza sono sempre auspicati. Infine, anche per quanto riguarda il futuro, io non credo che una eventuale morte della scena potrà essere causata dalla tecnologia. Credo che anche la nostra storia del passato ci possa dimostrare quali siano stati, e probabilmente sono ancora gli stessi, gli elementi che possono portare allo schiacciamento di una sottocultura, o quanto meno al suo depauperamento: il nichilismo esasperato, vissuto in una dimensione estremamente sterile; le droghe, che negli anni Ottanta e Novanta hanno falcidiato gli strati meno protetti della nostra comunità.

Ancora, l’incapacità di comunicare tra le diverse anime del movimento, talvolta non sapersi legare agli ambienti potenzialmente affini, come quelli politici nell’accezione che ho specificato prima, sia per fare rete, difendersi meglio dalle azioni repressive, sia per impegnarsi concretamente nel cambiamento».

Un manifesto. Foto per gentile concessione degli intervistati.

Come si può tramandare le esperienze da voi vissute ai giovani, senza cadere nella nostalgia di un passato che non tornerà più?

Monica: «Non sono sicura di essere la persona più indicata per rispondere, perché sono nata nel 1989 e quindi negli anni Novanta ero una bambina. Comunque, penso che un buon inizio possa essere quello di non creare miti e falsi eroismi in generale. Poi, credo sia una buona cosa cercare di raccontare quello che è stato in modo sincero e il più possibile aderente alla realtà. Inoltre, ritengo che vada dato il giusto peso alle testimonianze in prima persona di chi ha contribuito a scrivere quelle pagine della nostra storia, anzi, di dargli direttamente la parola e di rispettarne il valore.

Sono queste cose qui che io e Andrea abbiamo cercato di fare con Schegge di rumore, che è il primo libro pubblicato sul punk hardcore italiano degli anni Novanta. Ti confesso che mentre ci lavoravamo sono state molte le domande che ci siamo posti per trovare il modo più giusto di raccontare queste storie di vita vissuta e ti assicuro che le risposte non sono state così scontate. Proprio perché prima di questa cosa qui non c’era niente di niente sull’argomento, con cui magari misurarsi anche stilisticamente.

Perciò, abbiamo cercato di trovare la via che ci sembrava rappresentare il giusto punto di incontro tra la volontà di non tradire con finti abbellimenti letterari la storia e lo spirito di chi si è raccontato a noi, la scelta di non permettere di trasformare quella parte della nostra storia in una epopea mitologica che mai è stata e, infine, di ottenere anche un risultato complessivo di cui poter essere felici noi curatori, ma prima di ogni altra cosa due punk e due generazioni a confronto. Io, per conto mio, sono molto contenta di Schegge di rumore, è stato un bellissimo regalo che abbiamo fatto a noi stessi e ai vecchi e nuovi amici che incontriamo e rincontriamo ora che stiamo girando lo Stivale, presentandolo da Nord a Sud».

Andrea: «Beh, i libri, come le fanzine o i magazine, servono proprio a quello. Non a caso Schegge di rumore termina con una carrellata di flyers e locandine di eventi dello scorso millennio. Senza scadere in sterili reducismi o malinconici rimpianti. Semplicemente, citando Sepùlveda, l’ombra di quel che eravamo, ma in senso sereno, positivo, non nostalgico. Nel bene o nel male questi anni hanno prodotto questo. Se giusto o sbagliato ai posteri l’ardua sentenza!

Sul fatto che il passato non tornerà più, non mi trovo molto d’accordo. Il libro si apre con la dicitura “Quello che brucia non torna indietro ma al tempo stesso non muore, dentro di noi…” perché è chiaro che, in una società che continuamente cambia e si evolve, quel tipo di stile non potrà restare immutato. L’hardcore ci ha già ampiamente dimostrato di sapersi rigenerare per resistere a trend e mode del momento, perché forse è proprio qui che risiede il segreto della sua dinamica forza a quasi quarant’anni dalla sua nascita».

Un manifesto. Foto per gentile concessione degli intervistati.
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