A meno di vent’anni anni dalla sua scomparsa, l’eredità di Giorgio Gaber fa ancora discutere. Inventore, assieme a Sandro Luporini, del cosiddetto teatro-canzone, osservatore della storia d’Italia dal boom economico al nuovo millennio, profetico a volte e arretrato altrove, Gaber non ha risparmiato un solo aspetto della politica, della cultura e della società del nostro Paese. Fra i temi ricorrenti nei brani e nelle invettive di Gaber due in particolare, intrecciati fra loro, risuonano ancora con particolare veemenza: la critica alla televisione e il j’accuse al giornalismo.
Da ex stella della RAI passata al teatro, Gaber sembra conoscere alla perfezione i meccanismi dei mass media e coglierne le trasformazioni (in peggio) nel corso dei decenni. Oggi l’ironia sulla qualità di certe trasmissioni italiane può sembrare scontata, soprattutto quando a contribuire è un vero e proprio effetto nostalgia. Da un lato si assiste alla rievocazione nostalgica dell’eleganza, dell’ironia e dell’intelligenza della RAI di mezzo secolo fa, specie quando ne scompare un protagonista (si veda Raffaella Carrà). Dall’altro, sul web si assiste a un continuo recupero, in chiave trash, delle sequenze più demenziali, imbarazzanti e proprio per questo memorabili della tv commerciale degli anni Ottanta e Novanta. La critica di Gaber, che trascorre questi decenni dall’altra parte della barricata, ha però radici più profonde.
Quanto ai giornalisti, il cantautore milanese è ancora più esplicito: «Io se fossi Dio / Maledirei davvero i giornalisti / E specialmente tutti / Che certamente non son brave persone / E dove cogli, cogli sempre bene», canta nella fluviale Io se fossi Dio del 1980. Si tratta forse del suo brano più violento e pericoloso: l’invito a sparare nel mucchio dei giornalisti doveva allora suonare non privo di implicazioni, dato che giusto tre anni prima Indro Montanelli veniva gambizzato in centro a Milano. Quello che sembra un semplice sfogo fine a sé stesso e vagamente qualunquista contro una categoria detestata nasconde, però, un atteggiamento che, come vedremo, può persino definirsi umanista.
Il giovane Gaber, si è detto, raggiunge il successo negli anni Sessanta proprio in televisione. I modi educati e autoironici, l’effettiva padronanza della scena e il volto inconfondibile lo rendono, assieme alle competenze maturate con Adriano Celentano, uno dei conduttori più apprezzati delle trasmissioni musicali della RAI. Fra le quali, si ricordano Le nostre serate (1965) e Diamoci del tu (1967). Quest’ultimo è uno show dai tratti innovativi. Vi fanno da padroni sono proprio Gaber e Caterina Caselli e vi passano, fra gli altri, gli esordienti Francesco Guccini e Franco Battiato.
Diamoci del tu è un ponte sospeso nella carriera di Gaber: il programma guarda da un lato a quel rock americano che del Gaber cantante aveva sancito le origini, dall’altro sembra cogliere certi fermenti socioculturali di lì a esplodere. Mancano pochi mesi al Sessantotto e Gaber e Caselli portano al pubblico italiano, tramite le frequenze di una televisione conservatrice e mediatrice, i testi di Bob Dylan e dei Beatles.
È di quegli anni un altro evento fondamentale della maturazione artistica di Gaber: l’incontro con Sandro Luporini, filosofo, pittore e scrittore di Viareggio. I brani scaturiti dalla penna, e dalla chitarra, del duo hanno una marcia in più. Gaber, lo stesso che pochi anni prima cantava Torpedo blu, Non arrossire e Valentina, ora racconta di città in preda alla frenesia del consumismo, di solitudini di periferia e di differenze sociali. Rispettivamente Com’è bella la città, Il Riccardo e Barbera e champagne, nati a cavallo fra il 1969 e il 1970, sono ancora brani di musica leggera ma nascondono più di una tematica di impegno.
Nel 1970 nasce il Signor G. Gaber lascia la televisione per dedicarsi al teatro-canzone, una forma espressiva ideata con Luporini che gli consente di alternare le doti da cantante a quelle, ancora poco espresse, di attore solista. È la più grande abiura della carriera di Gaber, che da allora in tv tornerà solo sporadicamente (l’ultima volta a pochi mesi dalla morte, assieme agli amici di una vita Adriano Celentano, Enzo Jannacci e Dario Fo). Prima di dire addio a quella che per un decennio era stata la sua casa, Gaber si esprime in un gesto alquanto eloquente: in diretta televisiva, nel mezzo di un monologo, prende a testate un teleschermo fino a sfasciarlo (anticipando di trent’anni Beppe Grillo, che avrebbe fatto quasi lo stesso con un computer durante un suo spettacolo).
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Fare l’artista negli anni Settanta non era un percorso privo di implicazioni. Senza essere ancora gli «anni affollati» di cui Gaber stesso avrebbe cantato nel 1981, quei tempi richiedevano, a chi sceglieva di cantarli e raccontarli, scelte espressive e allo stesso tempo politiche. Il teatro era strumento di critica intellettuale e militante e, ricordava Gigi Proietti, alcuni spettacoli erano così impegnati che per capirli «ce vo’ l’astrologo». La svolta di Gaber, che dal grande palcoscenico televisivo passa a quello più ristretto dei teatri, non porta però né a un inasprimento delle tematiche, né a pretese intellettualizzanti. Gaber ora può cantare più esplicitamente di operai e lotta di classe, di rivolte e dubbi esistenziali, ma non perde la semplicità, la chiarezza e i ritmi che ha maturato negli anni precedenti.
In cosa allora la televisione non riusciva a soddisfare le esigenze espressive di Gaber? Per capirlo bisogna riferirsi a un altro protagonista di quegli anni, che con il nostro condivide più di un’affinità: Pier Paolo Pasolini. Per lui la televisione, in quanto medium di massa «non può che alienarci. Nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico».
A pochi mesi dalla morte nel 1975 l’intellettuale friulano arriverà a nuova forma di fascismo. Negli storici Scritti corsari, redatti fra il 1973 e l’anno del suo assassinio, Pasolini definisce invece a quale pubblico la televisione si rivolge: una «media atrocemente indifferente e indifferenziata […] così che in realtà non si tiene conto di nessuna delle esigenze reali di questi vari gruppi sociali di cittadini, ma si tiene conto di una media irreale».
A quasi cinquant’anni di distanza, la critica di Pasolini potrebbe forse apparire troppo netta, soprattutto se riferita alla RAI di allora. Tuttavia proprio sulla considerazione della televisione come mezzo antidemocratico e del pubblico da casa come massa indistinta e irreale poggia la scelta di Gaber di trasferirsi nei teatri: lì, al netto della maggiore libertà da censure di ogni tipo, si può ritrovare un rapporto diretto e reale con un insieme di spettatori non indistinti, ma partecipi dei contenuti e delle esibizioni. Il gesto di Gaber è un duplice gesto d’amore. Verso un pubblico che lo applaudirà e lo contesterà violentemente a fasi alterne, senza però mai rimanere inerme, e verso la realtà come oggetto di ricerca prediletto.
La televisione italiana muta radicalmente a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Poco prima che Pasolini venga ucciso a Ostia e mentre Gaber calca i plachi cantando di sogni velleitari e rivoluzioni in crisi, gli effetti della riforma della RAI del 1975 sanciscono il passaggio del controllo del servizio pubblico dal Governo al Parlamento. Si avvia così il fenomeno della lottizzazione su base delle quote elettorali partitiche. Fra il 1984 e il 1985 il governo Craxi I vara il cosiddetto Decreto Berlusconi, un insieme di tre leggi che anticipano la Legge Mammì del 1990 e che sanciscono l’ascesa della Fininvest come competitor su tutto il territorio nazionale. La televisione pubblica, da allora, comincia inesorabilmente ad abbandonare lo spirito pedagogico che la innervava per adagiarsi sui modi della tv commerciale.
È l’epoca che Rino Formica sintetizzò nella locuzione «nani e ballerine» e di cui altri individuano il personaggio chiave proprio nell’allora imprenditore Silvio Berlusconi, soprannominato non a caso «Sua Emittenza». La trasformazione antropologica dell’uomo in spettatore passivo, della rappresentazione in merce e dell’umanità reale in massa statistica, preconizzate da Pasolini, sembrano avverarsi in questo decennio, che Gaber sceglie di chiamare «età della volgarità». L’espressione deriva da Il grigio, spettacolo teatrale del 1989, l’unico interamente in prosa del duo Gaber-Luporini. In uno dei luoghi più rappresentativi del testo, si parla della televisione come di uno «schermo fluorescente» che imperterrito separa l’uomo dalla realtà che intanto si riversa per le strade.
La critica di Gaber, ricorrente lungo tutta la sua produzione, alla televisione non riguarda tanto l’intrattenimento quanto il giornalismo televisivo e, per estensione, il giornalismo tutto. Proprio questi, prefiggendosi in linea teorica il compito di raccontare la realtà, la allontanano dall’uomo ormai gettato nel conformismo e nella confusione più assoluti.
È il senso della canzone Il conformista del 1997, il cui protagonista è un uomo tanto investito da notizie in eccesso da non avere più un’idea propria: un «areostato evoluto gonfiato dall’informazione» che «tiene sottobraccio due o tre quotidiani» e «si allena a scivolare dentro al mare della maggioranza».
Cogliere la realtà, per Gaber, è un gesto intuitivo che implica la rinuncia a qualsiasi mediazione. È quanto accade nel monologo Giotto da Bondone del 1974. Qui si racconta di come l’eponimo pittore fosse abituato come tutti i suoi colleghi a dipingere cieli dorati. Un giorno Giotto guarda in alto, per puro caso e si accorga finalmente che «maremma maiala il cielo l’è azzurro». Il contrario capita alla voce narrante de La realtà è un uccello, nella versione del 1995. Affamato di informazioni fino alla follia, il protagonista del brano cerca di smettere di leggere i giornali come si fa con le sigarette. Puntualmente si ritrova a comprarne quattro o cinque per volta.
Nell’iperbole della satira di Gaber, il personaggio arriva a guardare telegiornali in modo compulsivo, a registrarli e rivederseli a distanza di anni. La sovrapposizione fra realtà e fiction, nel mondo dell’eccesso di informazione, è totale. Dopo aver visto in televisione Antonio Di Pietro arrestare Mario Chiesa, afferma il personaggio, si attende con ansia la puntata in cui «Chiesa arresta Di Pietro». Qualche anno dopo, nel 2001, Gaber canterà dell’ipertrofia di notizie in un brano dal titolo eloquente, L’obeso.
«La stampa informa i fatti, non sui fatti», diceva Carmelo Bene citando Jacques Derrida. Rileggere queste parole produce un effetto particolare oggi, con la confusione circa la differenza fra notizia, realtà e opinione che sembra regnare nel sistema giornalistico odierno. Dal fenomeno, spiegabile nel digitale dove a determinare la diffusione di un contenuto è l’algoritmo del motore di ricerca, non sono esenti giornali e televisioni tradizionali. Lo si vede andando a scandagliare un tema al vertice del dibattito occidentale, quello della cancel culture. Qui appare evidente come un certo giornalismo abbia contribuito, dicendolo con Bene, a «informare i fatti».
Il caso recente più celebre, a tal proposito, è quello della polemica attorno al presunto bacio non consensuale del Principe a Biancaneve, nell’omonimo film Disney del 1937, e diffusasi in Italia nella primavera 2021 come prova di una inarrestabile dittatura del politicamente corretto. In realtà si trattava di un semplice editoriale delle columnist Katie Dowd e Julie Tremaine della testata statunitense SFGATE. Un’opinione, specie se così circoscritta e distante, non dovrebbe avere quello che in gergo giornalistico si chiama valore di notiziabilità, da cui dipende la pubblicazione con relativo dibattito di un fatto. La stampa italiana, nella veste di quotidiani di importanza e posizioni politiche variabili, ha invece inverato una notizia irrilevante fino a farla rimbalzare nel dibattito pubblico e politico.
Il caso di Biancaneve farebbe quasi sorridere se solo non gettasse polvere su questioni ben più reali e urgenti (quali il tema della rappresentazione di genere nei media). Più evidente, non fosse che per le conseguenze immediate, è la gravità delle problematiche relative alla narrazione mediatica della pandemia in corso, delle strategie di contenimento e del piano vaccinale. È indicativo, a titolo d’esempio, come anche una parola neutra quale «virologo» abbia assunto una portata divisiva e conflittuale, rimbalzando in modo spastico fra connotazioni negative e positive del termine.
Gaber, perseguendo il discorso intellettuale di Pasolini, sapeva ironizzare su tendenze dell’informazione che sono andate intensificandosi nel corso dei decenni. L’analisi fine della massmediologia e della semiotica del giornalismo non era però l’obiettivo principale di Gaber. Vi è infatti un filone del giornalismo, quasi assurto a genere a sé stante, su cui la critica del cantautore sembra essersi concentrata e superata in forza espressiva: la cronaca nera.
Annoverato fra i grandi romanzieri italiani del secolo scorso, Dino Buzzati fu molto di più. Pittore, alpinista, persino fumettista ante litteram, operò anche come giornalista. Fu proprio attraverso la redazione della cronaca sul Corriere della Sera che sviluppò una buona componente delle sue doti narrative. I suoi pezzi di nera erano veri e propri racconti, talvolta quasi indistinguibili da quelli di fantasia confluiti in storiche raccolte quali La boutique del mistero. Il legame fra cronaca nera e narrativa, peraltro, è insito nella nascita dello stesso genere noir, un secolo e mezzo prima.
Vi è però nella storia d’Italia un evento che, secondo molti, funge da spartiacque nella storia delle modalità narrative della cronaca nera. È l’incidente di Vermicino, svoltosi fra il dieci e il tredici giugno 1981, ricordato anche nella canzone Alfredo (2008) dei Baustelle. Qui si mette ben mette in risalto, con una delicatezza fuori dal comune, cosa rappresentò l’evento per l’Italia della Prima Repubblica. I tentativi di salvataggio e la morte di Alfredo Rampi vennero documentate con diciotto ore di diretta televisiva, cui fecero da contorno centinaia di telefonate ai centralini RAI e la presenza in loco del presidente Pertini.
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La morte di Alfredo non ha cessato di turbare la memoria di chi c’era ai tempi. Ne è stata prodotta anche una miniserie televisiva per Sky, a quarant’anni dall’accaduto. Il sottotitolo dello speciale, significativamente, è Una storia italiana. Il fattore interessante è proprio questo: la vicenda di Alfredo trascese il personale, per diventare collettiva, proprio in quanto evento narrato dai mass media. Il concetto di tv del dolore nasce in quella circostanza.
Nel corso dei decenni, troppe sono state le occasioni perché una simile insistenza del teleobiettivo su una tragedia personale si ripetessero. Bastino a titolo d’esempio gli ormai tristemente celebri plastici di Bruno Vespa e il recente episodio della diffusione dei video sui fatti del Mottarone del ventitré maggio 2021, caso ripreso anche dalla Commissione di vigilanza RAI. Proprio verso questo tipo di giornalismo la critica di Gaber si spoglia di umorismo per diventare vera e propria invettiva.
A Gaber l’ironia non manca quasi mai, nemmeno parlando della morbosa presenza della cronaca nera nella televisione italiana. La canzone La strana famiglia (1991) presenta, per l’appunto, una famiglia di disgraziati ognuno dei quali, in virtù di un qualche incidente personale, guadagna i suoi celebri quindici minuti di gloria in tv: «E giù in Aspromonte c’ho dei parenti / Li ho rivisti belli contenti / Nello Speciale rapimenti. / Mentre a Roma c’è lo zio Renzo / Che è analfabeta ma ha scritto un romanzo / È sempre lì da Maurizio Costanzo».
A dimostrazione di quanto certe mode non cambino mai i vari interpreti postumi di Gaber, da Paolo Rossi a Enzo Iacchetti, sono sempre riusciti ad aggiornare il brano in base al palinsesto del periodo. Il senso ne rimane intatto: l’Italia è «Il Belpaese sorridente / Dove si specula allegramente / Sulle disgrazie della gente».
La battaglia di Gaber contro i giornalisti della nera comincia però addirittura un anno prima della tragedia di Vermicino. La già citata Io se fossi Dio descrive con veemenza a quali giornalisti il novello Cecco Angiolieri augura il peggio. Si tratta dei «cannibali, necrofili, deamicisiani astuti / E si direbbe proprio compiaciuti». I quali sono rei di buttarsi «sul disastro umano, col gusto della lacrima / In primo piano». Poche strofe dopo, Gaber arriva ad augurarsi la scomparsa dei fogli e della stampa, senza avere la «superstizione della democrazia». Quella che Gaber descrive e a cui si rivolge è un’Italia «piena di sgomento», affogata nel sangue delle stragi e dei rapimenti. Non il raccontare, ma il fare merce del racconto di questa tragedia è il grande delitto per Gaber, un gesto imperdonabile verso l’umanità.
Gaber effettivamente è stato un umanista e la sua battaglia artistica e intellettuale si è sempre svolta, assieme a Luporini, a favore dell’uomo. Per parlare agli uomini, e non a un pubblico, ha preferito il teatro alla televisione. In difesa della dignità umana, e non delle idee politiche, sono i suoi brani. La continuità di questo discorso è tale da poter tracciare un cerchio fra l’inizio e la fine della sua carriera.
Proprio quando «un uomo muore» nell’omonima canzone del 1976, allora Gaber afferma di «esserci come persona» (Io come persona, 1994). Questo perché «appartenenza è avere gli altri dentro di sé» (Canzone dell’appartenenza, 1994). L’accusa ultima di Gaber al giornalismo si riassume in un semplice concetto. Esistono, nelle umane cose, dei limiti di dicibilità e rappresentabilità che non vanno violati. Infatti, l’uomo è sacro (nel senso etimologico di sacer, «inviolabile»).
Si ritorna così a Pasolini. Nel suo Uccellacci e uccellini (1967) il personaggio interpretato da Totò, assistendo a una scena di parto, copre gli occhi al figlio Ninetto Davoli. La scena, che potrebbe essere scambiata per una gag comica, ha in realtà secondo alcuni critici un significato più profondo. Nascita e morte, per Pasolini, sono elementi fondamentali della vita e come tali costituiscono un limite del rappresentabile.
Sembra ricordarsene Gaber nella sua canzone-testamento Non insegnate ai bambini del 2003. Proprio qui raccomanda di trasmettere all’umanità a venire non idee di progresso o vecchie ideologie, ma soltanto «la magia della vita». Gaber l’ha affermato durante tutta la sua carriera. Nello specifico, riascoltando oggi i suoi brani pensando al mestiere del giornalismo, all’arte del racconto o alla semplice trasmissione di memoria, viene davvero da riflettere su quanto sia una responsabilità incommensurabile tramandare qualcosa di così complesso come la vita degli uomini.
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