«L’uomo del futuro». In un decennio oscuro per il calcio italiano, sconvolto dagli scandali del totonero e ustionato dal fallimento della spedizione azzurra nel mondiale tedesco del 1974, Paolo Rossi rappresentò, nonostante il rapporto spesso non idilliaco con stampa e televisioni, un’ancora di salvezza per l’intero movimento calcistico nazionale.
Dopo le buone prestazioni durante la Coppa del Mondo in Argentina nel 1978, il giovane attaccante pratese, all’epoca in forza nel Lanerossi Vicenza, cominciò, assieme a una nuova generazione di grandi calciatori, una lenta ascesa culminata quattro anni dopo con il trionfo nel mondiale spagnolo della selezione azzurra. Tuttavia, pur avendo avuto un esito felice e vincente, la carriera di Paolo Rossi non poté dirsi facile, soprattutto a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta.
L’1 marzo 1980, a seguito dell’esplosione dello scandalo del calcioscommesse, la magistratura prescrisse le manette per ben tredici giocatori, e per altri quattro, tra cui lo stesso Rossi, furono emanati ordini di comparizione. Il giovane centravanti venne squalificato dalla CAF per due anni, perdendo così la possibilità di disputare il deludente Europeo tenutosi l’estate seguente.
Sebbene mancasse ancora un anno al termine del provvedimento disciplinare, la Juventus decise di ingaggiare Paolo Rossi nella primavera del 1981. Diede così fiducia a un giocatore che molti giornali davano per finito. Terminata la pena nell’aprile dell’anno successivo, Rossi prese parte alle ultime quattro giornate di campionato. Segnò anche una rete nella sfida contro l’Udinese e conquistò, al termine della competizione, il ventesimo scudetto della storia della società bianconera, nonché il primo trofeo della sua giovane ma già discussa carriera.
A meno di poche settimane dall’inizio della Coppa del Mondo, ospitata dalla Spagna, Paolo era tuttavia ancora lontano dal suo periodo di miglior forma. Era lento, macchinoso nei movimenti e sembrava non avere più quella brillantezza e quella fame che avevano caratterizzato sino a quel momento il gioco rapace di un attaccante atipico come lui. Ma il CT della nazionale, Enzo Bearzot, decise di convocarlo nonostante il dissenso della stampa e la presenza di validissime alternative offensive, Roberto Pruzzo su tutte, che con la sua Roma aveva chiuso la stagione precedente come capocannoniere del campionato. Una scommessa a dir poco azzardata, che in caso di cattivo esito negativo della manifestazione avrebbe potuto portare ad un esonero lampo dell’allenatore azzurro.
Una volta superato non senza qualche fatica il girone, l’Italia, ripescata come migliore terza, si apprestò, contornata da polemiche e aspre critiche, a confrontarsi con un sorteggio tragico che la condannava ad affrontare l’Argentina di Maradona e lo stratosferico Brasile di Falcao, Zico e Socrates, per l’accesso alla semifinale.
Una prestazione vintage di Claudio Gentile in marcatura non proprio “gentile” sul numero dieci argentino consentì ai ragazzi di Berzot di portare a casa una vittoria sudata contro la selezione albiceleste. Ma la cronaca, forse non contenta del gioco duro e poco brillante degli azzurri, non placò le proprie ire.
Contro il Brasile, al Sarrià di Barcellona, gli italiani non godevano, almeno alla vigilia, dei favori del pronostico; senza contare che, forti di una maggior differenza reti, i carioca avrebbero potuto passare il turno anche con un pareggio. Dopo essere passati in svantaggio grazie alla rete di Socrates, e dopo aver ribaltato il risultato grazie alle due marcature di un indemoniato Paolo Rossi, l’Italia, sfruttando la totale inconciliabilità dei brasiliani con il gioco difensivo, si portò avanti, a seguito del gol del pari segnato da Falcao, con un’altra furbizia di Rossi, da quel momento per tutti «Pablito».
Il campionato del mondo si concluse l’11 luglio 1982, quando, dopo aver eliminato la Polonia di Boniek in semifinale grazie a una doppietta del ritrovato bomber, Rossi e compagni batterono per 3-1 nella finale di Madrid gli eterni rivali della Germania Ovest, sollevando un trofeo mondiale che mancava dal 1938.
Eppure, nonostante l’impresa eroica nel «Mundial» ispanico e la conseguente vittoria del pallone d’oro, la carriera di Rossi, dopo solo qualche stagione dai gloriosi fasti azzurri, poteva dirsi già sul viale del tramonto. Complice qualche infortunio di troppo e una condizione fisica che stentava a raggiungere la smagliante forma di qualche anno prima, nel 1987 l’eroe azzurro appese definitivamente le scarpette al chiodo.
Dopo la sua prematura scomparsa, avvenuta il nove dicembre 2020, molti avrebbero voluto veder intitolato lo stadio del Vicenza, lo storico Romeo Monti, al defunto campione, già nominato cittadino onorario della città del Palladio. Ciononostante, confermando la riluttanza delle società a dedicare gli stadi alle leggende passate (con l’unica recente eccezione del Diego Armando Maradona di Napoli, già Stadio San Paolo) la giunta comunale ha deciso di intitolare al bomber toscano ma vicentino de facto solo uno slargo al di fuori dell’impianto sportivo. Forse un riconoscimento non pari al prestigio del compianto fuoriclasse, ma pare che per il momento non ci sia la volontà di fare di più.
Simbolo di un calcio bello, vincente e spettacolare: Paolo Rossi, il numero 9 inciso a fuoco nella storia.
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