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Spettacolo

“Una messa in scena posticcia”: intervista all’autore Valerio Carbone

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Giulia Zennaro

Valerio Carbone è uno strano incrocio di professionalità: psicologo, docente di scrittura creativa, editore, autore. Per Edizioni Haiku di Roma, fondata da lui insieme a Flavio Carlini, ha pubblicato il racconto La confusione chiara nel 2010, la silloge Lode a Mishima e a Majakovskij con Flavio Carlini nel 2011 e Il mercante d’acqua nel 2015, romanzo di formazione con ambientazione sci-fi. Per Edizioni Efesto ha pubblicato Il fantastico mondo di Fruitore Di Nonsense e il recente Una messa in scena posticcia, uscito lo scorso marzo.

La trama dell’ultimo romanzo, dalla quarta di copertina: «Una corsa notturna a perdifiato per le strade di Parigi, una scanzonata coppia di amici, una vita di espedienti. Un furto maldestro e un sogno d’amore portano i pittoreschi Sorcio e Banana in un viaggio attraverso un’Europa senza confini. È l’avventura di una vita, il tanto atteso riscatto per un’intera generazione. O è forse, solamente, una confusa illusione, la fantasiosa distrazione di un Dio stanco e annoiato, capace di mettere in scena le proprie nevrosi personali attraverso la scrittura. In fondo, nessuno può separare il sogno dalla realtà.»

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Valerio Carbone.

Com’è nato il romanzo Una messa in scena posticcia?

«Ho scritto il romanzo durante il primo lockdown. Era naturalmente un tentativo di evasione dalla realtà e dall’isolamento, cominciato come un esercizio di scrittura. Sono partito da un fatto della storia recente particolarmente doloroso per i parigini, quali sono i miei protagonisti: l’incendio della cattedrale di Notre Dame. Il loro viaggio si svolge proprio in quei giorni e loro apprendono della tragedia mentre sono in viaggio: proprio grazie a questa disgrazia ritrovano un senso di appartenenza alla loro città che avevano perso inizialmente».

Ma perché proprio “posticcia”? Titolo inusuale, per un road movie…

«C’è la convinzione che “posticcio” significhi falso: anche popolarmente il termine viene usato con questa connotazione, ma è profondamente sbagliato. Posticcio non significa falso, significa che va a sostituire qualcosa che non c’è più. Dietro questa parola c’è nostalgia, per una città perduta, per la giovinezza, ma anche per la necessità di recuperare le etimologie corrette delle parole. Inoltre “posticcio” è usato in senso rafforzativo dell’espressione “mettere ad arte”, ovvero in scena. Le due espressioni si sono incastrate bene nella mia testa e hanno subito funzionato bene come titolo per il romanzo».

Centrale per i protagonisti il legame con la loro città, Parigi, ma anche il legame di Parigi con tutte le altre città che toccano durante la loro fuga.

«L’ambientazione parigina è volutamente non da cartolina: conosco bene la città, ci ho vissuto e non volevo ricreare il solito paesaggio trito e ritrito. Il fil rouge del romanzo è l’ambientazione in città che si affacciano sul mare, e infatti nella loro fuga ne toccano molte: Istanbul, Roma…».

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La copertina del romanzo Una messa in scena posticcia, Edizioni Efesto.

Roma e Parigi: una bella lotta.

«Ci sono molte similitudini tra la grandeur parigina e il senso di superiorità che provano molti romani, per cui la loro città è la migliore al mondo e nun gliela devi toccà. La sintesi tra queste due gigantesse è proprio Istanbul, dove finisce il viaggio di Sorcio e Banana».

Parlami di loro: così opposti eppure così complementari, con questi nomi a metà tra Paura e delirio a Las Vegas e Don Chisciotte.

«Sono giovani, appartengono alla cosiddetta generazione Erasmus, quella che sente il prurito del viaggio, quel senso di non appartenenza che li porta a viaggiare di continuo. Sorcio è un sognatore estremo, che fatica a restare attaccato alla realtà: in qualche modo rappresenta Don Chisciotte, come ha sottolineato anche Sandro Bonvissuto nella sua prefazione. Vuole fare il colpo della vita, sistemarsi e magari mettersi con la sorella del suo partner in crime, Banana, di cui è innamorato, e magari trasferirsi con lei a Barcellona, essendo legato agli indipendentisti catalani. Banana invece è il Sancho Panza della situazione, quello che lo riporta coi piedi per terra e che lo segue sempre nelle sue follie per amicizia, fedeltà e spirito di protezione».

Sono in qualche modo proiezioni del loro autore?

«In qualche modo tutti i personaggi lo sono. L’autore è il loro dio che mette in scena una storia per far riflettere il lettore su temi come il viaggio, la morte, la stessa scrittura. La messa in scena a cui faccio riferimento nel titolo è l’opera stessa, è il romanzo in sé: ho messo ad arte le mie emozioni e le mie nevrosi attraverso la scrittura.

Questo percorso di auto consapevolezza autoriale lo insegniamo anche nella nostra associazione, Scrittura Efficace, che collabora con autori emergenti svolgendo servizi di coaching letterario. La nostra filosofia è che non puoi scrivere un romanzo e aspettarti di vederlo diventare un best seller: sarebbe come comprare un pallone e il giorno dopo vincere il campionato di serie A. Per scrivere ci vogliono talento e passione ma soprattutto tanto duro lavoro e umiltà: con Scrittura Efficace portiamo avanti la filosofia del coaching letterario, che affianca l’autore fin dalla prima bozza alla pubblicazione».

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Giulia Zennaro

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