Il 15 agosto 2o21 rischia di rappresentare, per gli americani, una data nel futuro, allo stesso modo dell’11 settembre 2001. La caduta di Kabul, che torna in mano ai Talebani dopo vent’anni, è il segno della fine di un periodo storico. Queste due date sono proprio i due cardini che rappresentano questo filo rosso lungo vent’anni. Proprio l’attentato alle Torri Gemelle diede inizio alla lotta al terrorismo islamico che portò l’esercito americano in Afghanistan. Ottantotto miliardi investiti, oltre duecentomila vittime civili, migliaia di vite americane in prima linea. Questi numeri sono l’immagine della campagna in Medio Oriente degli Stati Uniti che ora, dopo il ritiro immediato delle truppe, rischiano di aver sprecato tempo, denaro e vite umane. Cosa rappresenta questo nuovo scenario?
La reazione immediata di Washington alla caduta di Kabul è stato il ritiro immediato del personale diplomatico e delle truppe di connazionali. Le testate giornalistiche, americane e non, hanno ampiamente criticato la decisione presa dal presidente Biden. L’opinione internazionale ha definito questa manovra fallimento, umiliazione, sconfitta. Si delinea in questo modo un generale concetto di “passo indietro” di Washington. Al riguardo il Segretario di Stato USA John Blinken ha dovuto difendere l’amministrazione Biden dal paragone con Saigon. La correlazione non è così erronea, pur non essendo la situazione identica. I fondamentalisti islamici sono arrivati quasi indisturbati nella capitale, ma attraverso un preciso percorso. La ripresa del territorio da parte dei talebani è stata paziente e strategica, a differenza della loro prima ascesa al potere. La prima esperienza talebana si legò indissolubilmente alla formazione della cellula terroristica al-Quaeda, che ebbe a capo Osama Bin Laden. Da questa relazione nacquero tutte le conseguenze dell’attentato delle Torri Gemelle. Ma oggi la situazione sembra essere cambiata.
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La volontà di oggi da parte del gruppo fondamentalista è quella di sembrare una vera possibilità di scelta istituzionale. Questa opzione è rafforzata dalla fuga del governo e del Presidente Ashraf Ghani, scappato al nord in Uzbekistan. La resa incondizionata delle istituzioni, che si lega alla ritirata degli americani, mostra al popolo come negli ultimi vent’anni lo Stato non fosse poi così affidabile. Di qui la strategia di persuasione dei talebani, che hanno lavorato negli ultimi anni per reclutare nuovi seguaci e stringere alleanze con le forze locali, dislocate per tutto il territorio. In questo modo nell’arco di poche settimane sono riusciti a guadagnare strada verso la capitale senza quasi sparare un singolo colpo. La dinamica è stata favorita anche dall’arrendevolezza dell’esercito afgano. Questa è considerata la più grande macchia per gli USA, i quali hanno speso innumerevoli tempo e denaro per addestrare le truppe locali, in vista della loro futura ritirata.
La decisione di Biden non è stata improvvisa, ma è una pura conseguenza della linea iniziata dall’amministrazione precedente. Il 29 febbraio dello scorso anno l’ex Presidente Donald Trump firmava un patto con i Talebani. A Doha venne stabilito che gli Stati Uniti avrebbero gradualmente abbandondato il presidio militare in Afghanistan. In cambio, il gruppo islamico promise di non tornare più a collaborare col terrorismo jihadista. Forti di questa “promessa” fatta da Trump, i talebani hanno lavorato da lì in poi nel tentativo di trovarsi con la miglior posizione possibile nel momento della ritirata USA. L’attuale Presidente USA ha rimarcato, nel suo discorso del 17 agosto, di non essere il solo responsabile. Difatti il neo-eletto democratico è il quarto presidente ad occuparsi della situazione in Afghanistan. Biden è stato molto preciso nel sottolineare anche come il governo afgano sia fuggito senza opporre resistenza. Dunque il Presidente ha lasciato intendere di non pentirsi della linea tenuta da Washington in questi vent’anni di campagna.
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Sicuramente quello che preoccupa all’interno degli Stati Uniti non è solamente l’opinione internazionale, riguardo le proprie azioni. La ritirata fisica degli USA dall’Afghanistan comporta soprattutto perdere posizione in Medio Oriente. Questo cruciale quanto fragile scacchiere geopolitico è stato negli ultimi anni sempre in bilico. La situazione in Siria, la disputa per il Bangladesh, le tensioni in Iran: sono state svariate le minacce all’equilibrio della zona. Adesso gli attori principali che potranno sfruttare la dipartita americana sono Cina, Russia, Iran. Sicuramente Pechino è avvantaggiata dall’influente posizione che ha costruito nel tempo in Medio Oriente. Fatto che è riflesso dalla visita che i talebani hanno porto al Ministro degli Esteri cinese Wang Yi lo scorso mese. La Cina ha espresso la sua volontà di mantenere delle “relazioni amichevoli” con il nuovo governo.
Dall’altra parte abbiamo l’altro grande attore che ha giovato della decisione americana: Mosca. Ci sono tante correlazioni storiche tra Kabul e la capitale russa. La principale riguarda il concetto geopolitico di Great Game, il quale si gioca in Medio Oriente da più di un secolo. Una delle mosse storiche della partita a scacchi tra USA e Russia viene identificata proprio nell’invasione dell’Afghanistan, da parte dell’URSS, nel 1979. Tuttavia Mosca ha espresso la volontà di ponderare bene la scelta, soprattutto per il grande timore del filone jihadista che potrebbe collegare Kabul con gli Stati adiacenti. Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan sono attualmente le basi più solide in cui si trovano le sacche rimaste del terrorismo islamico. Sicuramente la promessa fatta a Trump lo scorso anno non può rasserenerare le grandi potenze, che temono una riesplosione del jihadismo. Dunque anche se la situazione di Kabul sembra favorire le avversarie di Washington, l’instabile situazione interna dell’Afghanistan potrebbe essere una mina pronta a esplodere in faccia ai grandi attori geopolitici.
Riguardo la totale evacuazione dei militari americani, promessa a Doha, il Presidente Biden ne ha discusso negli scorsi giorni al G7 straordinario convocato. Il primo cittadino americano non ha ceduto alle richieste degli altri partecipanti, confermando la totale smobilitazione USA entro il 31 agosto. In molti hanno criticato la strategia americana di annunciare tempo addietro la futura ritirata delle truppe, perché così avrebbero preparato il terreno a ciò che è accaduto il 16 agosto.
Dopo aver appurato la linea di Washington, ora tutte le preoccupazioni sono volte alle difficili operazioni di evacuazione di collaboratori e civili afghani dall’areoporto di Kabul. Abbiamo già assistito a immagini e video sconcertanti, che hanno mostrato il panico nella popolazione, nel tentativo di fuggire da un fondamentalismo che segna un fallimento di tutti i progressi sociali e umani fatti fino ad ora. La testimonianza di una giornalista afghana è l’emblema della disperazione, soprattutto per la futura condizione delle donne, ma non solo. La volontà di sfuggire ad un regime che in passato ha portato terrore ha condotto uomini a morire cadendo letteralmente dal cielo. La grande paura è collegata anche alle minacce del nuovo governo verso gli USA: rispettare il termine del 31 agosto o saranno prese delle misure forti.
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Il forte collegamento che unisce i talebani all’ISIS e la paura di un attentato nelle zone dove ora sono ammassati migliaia di civili purtroppo si sono concretizzate nell’attentato delle ultime ore all’areoporto di Kabul. Si parla di due forti esplosioni nella zona, e al momento si contano oltre cento vittime e numerosi feriti. Nelle prossime ore il bilancio potrebbe salire, ma l’attenzione è tutta rivolta alla possibilità di una rapida degenerazione della situazione. Inoltre sono emerse indiscrezioni che confermerebbero il collegamento dell’accaduto al Califfato Nero. Difatti proprio la CIA ha fatto sapere che un attentato da parte dell’ISIS era in programma oggi, attraverso l’utilizzo di quattro grandi autobombe. Sicuramente col passare delle ore si potrà avere un quadro più completo, ma per ora sembra che la decisione presa da Biden possa aver innescato un meccanismo esplosivo che potrebbe colpire tutto il Medio Oriente.
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