Il 14 febbraio 2021 si sono tenute le elezioni che hanno rinnovato il Parlamento catalano, il quale ha a sua volta espresso il nuovo Presidente della Generalitat de Catalunya [nome del sistema amministrativo e istituzionale che governa politicamente la Comunità autonoma della Catalogna, N.d.R.]. Hanno vinto i partiti indipendentisti, che hanno investito della carica di Presidente un esponente del maggiore tra di loro. Le principali istituzioni della Catalogna sono pertanto guidate da espressioni e personalità politiche nel cui programma la voce principale è una sola: l’indipendenza catalana.
La situazione rappresenta un problema di notevole magnitudo non solo per Madrid, ma anche per Barcellona. Nemmeno la società catalana, infatti, è monoliticamente favorevole e compatta attorno all’opzione di costituire un nuovo Stato sovrano avanzata dalla sua maggioranza. Tra coloro che vedono un futuro diverso per la regione si schiera la ricercatrice, professoressa universitaria ed esponente di uno dei partiti d’opposizione Inmaculada Rodríguez Moranta. Il suo discorso sull’indipendentismo catalano porta alla luce un punto di vista inedito su cosa significhi e cosa comporti cercare di fondare un nuovo organismo statale nel contesto locale, nazionale e internazionale in cui si trovano i catalani.
Per capire la diversità dei punti di vista su questo movimento separatista, è utile indagare i motivi usati per sorreggere una richiesta d’indipendenza tanto insistente – e persistente. Chi la sostiene perora la sua causa affermando che i catalani sono una nazione la cui volontà è quella di fuoriuscire dallo Stato spagnolo attraverso la creazione di una Repubblica sovrana.
La parte più semplice di questo postulato riguarda l’espressione della volontà di autonomia completa e indiscutibile. Nel 2017, si è tenuto un referendum di natura vincolante per consultare i catalani sulla loro volontà di indipendenza. La vittoria è andata ai separatisti: è dunque vero che la maggioranza del popolo catalano vuole uscire dallo Stato spagnolo. Traballano tuttavia i presupposti legislativi e giuridici su cui si è fondato l’atto consultativo. Il quesito referendario, e il discorso pubblico dietro alla sua formulazione, rimandava al principio di autodeterminazione dei popoli.
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Si tratta di un assunto del diritto internazionale secondo cui un popolo (un gruppo umano i cui membri condividono storia e cultura) ha diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere libero da dominazione esterna (autodeterminazione esterna). Generalmente, si applica a popoli che si trovano in condizione di forte discriminazione rispetto a un gruppo maggioritario e/o sono impossibilitati ad accedere al sistema di potere che dovrebbe rappresentarli. Inoltre, la sua applicazione e tutela sono più definite e frequenti nei casi di autodeterminazione esterna: attuare sulla dimensione interna è più problematico perché implica la possibilità di secessione di minoranze e quindi lo scontro con un altro principio del diritto internazionale, ossia l’integrità territoriale degli Stati sovrani (oltre a interferire con la sovranità statale, un tema e un evento sempre assai difficile da affrontare).
Per cui, per esempio, hanno chiaro e pieno diritto di decisione su sé stessi i popoli sotto dominio coloniale o sotto occupazione straniera, oppure i popoli vittima di politiche di apartheid. Ammesso e non concesso che possano giuridicamente essere definiti “popolo” a sé stante, i catalani non si trovano in nessuna di queste situazioni. E non sono impossibilitati a partecipare alla vita politica dello Stato in cui risiedono. Dal punto di vista del diritto internazionale, non possono apparentemente appellarsi al principio di autodeterminazione.
È una conclusione alla quale sono arrivati numerosi giuristi che si sono occupati della questione, inclusi quattrocento dei cinquecentocinquanta professori di diritto internazionale presenti in Spagna. Tra loro, anche cinquanta catalani che, come i colleghi, hanno sottolineato che l’autodeterminazione non è la base legale per consultare i cittadini sull’indipendenza. Coerentemente con questo punto di vista, la questione catalana attiene strettamente alla situazione giuridico-legislativa interna allo Stato spagnolo. Madrid, ossia il Governo centrale e la Corona, non ha riconosciuto la legalità del referendum indipendentista e dei suoi risultati. Di conseguenza, e per quanto possa spiacere ai catalani, quell’atto non ha validità effettiva.
Resta l’appello alla nazionalità catalana: i catalani costituiscono una nazione diversa da quella spagnola ed è pertanto giusto che si costituiscano in un’unità statale che li rappresenti appieno. L’argomentazione si radica nella peculiarità storica e culturale della Catalogna. Ora, la Catalogna ha sempre goduto di un regime speciale all’interno dello Stato unitario spagnolo: dalla sua fondazione e quasi ininterrottamente fino al presente, la regione è stata di fatto una comunità autonoma che ha conservato ed esercitato numerose prerogative legislative ed esecutive, insieme al diritto di rappresentare la propria cultura.
Ed è anche vero che questa si distingue dalle analoghe espressioni frutto del resto della Spagna, soprattutto grazie al fatto di esprimersi in una lingua diversa dal castigliano – il catalano, appunto. Si potrebbe però rispondere a questi ragionamenti sottolineando che la Catalogna ha sempre fatto parte dello Stato unitario spagnolo. Anzi, ne è stata uno dei nuclei fondanti: è infatti dalle nozze tra la Casa di Barcellona, signori della Catalogna, e la Casa reale d’Aragona che nasce quel regno d’Aragona di cui è sovrano Ferdinando, il cui matrimonio con Isabella di Castiglia porta all’unione politica della Spagna. Tenendo presente ciò, risulterebbe evidente che la storia e la cultura della regione, pur avendo caratteristiche spiccatamente identitarie, non sarebbero slegate da quelle genericamente spagnole tanto da giustificare sufficientemente una secessione della Catalogna dalla Spagna.
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Nonostante ciò, l’indipendentismo catalano contemporaneo ha assunto vigore e una dimensione popolare interessanti anche a partire da iniziative concentrate sulla necessità di rivendicare l’identità culturale (linguistica, in particolare) della Catalogna e di difenderla dai tentativi di spagnolizzazione. L’evento più indicativo di questa tendenza è stata la nascita del movimento Crida a la Solidaritat en Defensa de la Llengua, la Cultura i la Nació Catalanes. Nato nel 1981 in risposta al Manifiesto por la igualdad de derechos lingüísticos en Cataluña (un documento firmato da duemilatrecento intellettuali e professionisti che denunciavano la discriminazione subita dai parlanti castigliano in Catalogna), è rimasto in attività fino al 1993: in dodici anni, ha saputo mobilitare grandi masse, riportando l’attivismo catalanista nello spazio pubblico. Un esempio su tutti è l’atto conclusivo della sua fondazione che, portato avanti da una campagna imponente, ha visto riunirsi circa centomila persone nello stadio Camp Nou di Barcellona.
Ora, un indipendentismo basato esclusivamente su rivendicazioni legate alla libertà del popolo e alla difesa dell’identità collettiva ha un sapore decisamente troppo romantico per corrispondere al vero. Infatti, le aspirazioni indipendentiste catalane hanno anche un carattere pratico. Fiscale, per la precisione. In Catalogna è infatti diffuso il sentimento che vi sia una sostanziale disparità tra la pressione fiscale e gli investimenti economici nella regione, per cui i catalani pagherebbero molte tasse e non otterrebbero alcun beneficio reale da questo peso. L’autonomia totale da Madrid consentirebbe loro di avere tutto quello che guadagnano e di sviluppare maggiormente l’economia della regione.
Dunque, elementi di diritto, motivazioni storiche, sentimenti identitari e aspirazioni economiche: i nodi che ingarbugliano la questione catalana sono molti e ben intrecciati. Tuttavia, la loro analisi e concomitante manifestazione fanno emergere in modo chiaro che la questione catalana ha una natura principalmente politica. È un problema di coesistenza e rappresentazione, sociale e non solo istituzionale, tra una società maggioritaria (gli spagnoli) e una minoranza (i castigliani). Ed è un problema anche di autogestione che crea notevoli problemi interni. Infatti, i cinquanta giuristi catalani contrari alla fuoriuscita dalla Spagna possono contare sull’appoggio di una nutrita minoranza di corregionali, i quali si oppongono all’indipendenza in modi e secondo narrazioni diverse.
Una (rappresentativa) di questi catalani è appunto la succitata Inmaculada Rodríguez Moranta. Professoressa e ricercatrice universitaria, Rodríguez Moranta è esponente della sezione catalana del Partido Popular (una formazione di centrodestra monarchica) con il quale ha partecipato alle elezioni del Parlamento di Catalogna per la provincia di Tarragona nel 2021, in qualità di capolista. Attualmente ricopre le cariche di assessora alla Comunicazione e alla Stampa nel Gruppo municipale del Partito Popular a Tarragona e di vicesegretaria alla Comunicazione nel Partito Popular di Tarragona Provincia.
Dottoressa Rodríguez Moranta, l’identità catalana, la sua conservazione e valorizzazione sono temi molto sentiti a livello popolare, tanto da essere al centro del dibattito attuale sull’indipendentismo catalano. Ma che cosa significa essere catalan*?
«Appartenere a una comunità autonoma di Spagna chiamata Catalogna, enormemente plurale e diversa».
Che conseguenze ha questo sentimento a livello politico?
«La storia ci dimostra a quali disastri si arriva quando la politica pone i sentimenti sopra la ragione».
Qual è la situazione attuale della Catalogna, in relazione alla sua indipendenza, da un punto di vista politico e culturale?
«La Catalogna sta pagando molto caro i deliri indipendentisti. La fuga delle imprese negli ultimi anni è stata inarrestabile [molte imprese, spaventate dalla possibilità di una secessione, hanno trasferito le loro sedi dalla Cataloga alla Spagna, N.d.R.] e la rottura della convivenza sarà molto difficile da sanare. Il “processo” separatista ha fatto sì che una delle regioni più prospere d’Europa abbia perso tutte le opportunità di leadership. Le nostre istituzioni sono deteriorate e siamo sprofondati in una crisi sociale ed economica».
Cosa hanno significato le ultime elezioni? Quali sono le loro origini e le loro conseguenze?
«Il risultato delle elezioni è che la Catalogna continua a essere in stallo e continua a essere l’unica Comunità autonoma spagnola che non ha visto una sana alternanza ai governi nazionalisti.
Una delle cause più chiare dell’egemonia nazionalista è che il governo della Generalitat si sta da anni dedicando all’espansione di un programma identitario ed escludente, con il denaro di tutti. Attraverso questo programma, ha conseguito che le élite nazionaliste abbiano conquistato quasi tutti gli organi di potere e di decisione. La società civile non indipendentista non può contare sui favoritismi del nazionalismo ed è emarginata dalla politica catalana. Anche se la realtà della Catalogna è, come dicevo, quella di una società plurale, è molto difficile frenare la valanga di questo movimento quando tutte le risorse e le istituzioni sono poste a servizio di una causa suprematista che non ha nulla a che vedere né con la realtà sociale né con le preoccupazioni e le necessità dei catalani».
Eppure, c’è chi ancora spinge per l’indipendenza. E gran parte dei catalani sembrano seguirli: alle elezioni, dopotutto, hanno vinto gli indipendentisti. Quali ritiene che possano essere i prossimi passi verso l’indipendenza? È possibile un nuovo referendum?
«L’indipendentismo è passato a una nuova fase. Ora ha escluso le vie unilaterali e ha attivato un’altra strategia: l’erosione dello Stato. Gli indulti ai detenuti indipendentisti sono stati il primo passo. Il “processo” è passato al Congresso dei Deputati e può contare sulla complicità del presidente Pedro Sánchez. Hanno bisogno l’uno dell’altro: gli indipendentisti per avanzare verso i loro obiettivi e Sánchez per mantenersi al potere [il Governo di Madrid, guidato da Sánchez, può godere sull’appoggio esterno di Esquerra Republicana de Catalunya, il principale partito indipendentista catalano, N.d.R.]».
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E a livello culturale, qual è l’ostacolo più grande all’indipendenza? Voglio dire, esiste qualcosa a livello popolare che ostacola anche il processo politico verso l’indipendenza?
«Abbiamo una Costituzione e delle leggi che necessitano di una maggioranza parlamentare per essere cambiate. In questo consiste, tra le altre cose, la democrazia. I politici indipendentisti commettono un grande errore quando affermano che la Catalogna “è un solo popolo”».
Le chiedo di fare uno sforzo di immaginazione: la Catalogna ha ottenuto l’indipendenza. E ora?
«Abbiamo già vissuto questo incubo di politica-fiction quando il signor Puidgemont ha proclamato l’indipendenza e l’ha sospesa trenta secondi dopo. La fantasia durò poco, però la frustrazione che generò nei cittadini indipendentisti, l’insicurezza politica e la cattiva immagine che abbiamo proiettato nel mondo non sono state un sogno».
Insisto. Come potrebbe essere organizzata allora una Catalogna indipendente?
«I politici indipendentisti non hanno dato il minimo segno di poter amministrare le realtà di una Comunità autonoma. Per questo, mi risulta impossibile immaginare che siano capaci di organizzare uno Stato indipendente».
Qual sarebbe la relazione con la Spagna monarchica? E l’Unione Europea?
«Nessuno riconoscerà l’indipendenza della Catalogna. Né l’Unione Europea né l’Onu né nessuna delle grandi democrazie del mondo hanno mostrato il proprio appoggio ai secessionisti catalani.
[I leader politici catalani sottoposti a processo in Spagna ma auto-esiliatisi a Bruxelles, l’ex presidente della Generalitat Puigdemont in testa, hanno tentato la via del coinvolgimento europeo nella questione catalana. Innanzitutto, trasferendosi a Bruxelles. Poi, appellandosi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per conservare la loro immunità di eurodeputati, eventualità che avrebbe reso difficile un processo in patria. Le istituzioni europee hanno però preso le parti dello Stato spagnolo, sostenendo che l’Unione non avesse le competenze per ingerire nella situazione interna di uno Stato sovrano, N.d.R.]»
E cosa succederebbe all’identità catalana?
«È rispettabile e apprezzabile tanto quanto le altre. Però l’indipendentismo non si caratterizza precisamente per rispettare la pluralità delle identità che convivono nella società catalana o in un unico individuo».
È chiara la distanza di opinioni tra chi la dottoressa Rodríguez Moranta rappresenta e chi invece sposa la causa dell’indipendenza catalana. La testimonianza della politica d’opposizione al separatismo dimostra forse l’affermazione con cui lei stessa apre e chiude il suo intervento: la realtà catalana è poliedrica, composita, complessa. Ogni sua sfaccettatura merita di prendere parola e ricevere considerazione. Anche e soprattutto perché questo prestare attenzione è un esercizio di democrazia critica universalmente valido, come di portata generale sono i dibattiti che la questione catalana si porta in seno.
Essa è infatti un contesto ideologico e pratico nel quale si riflettono e si sviluppano (con le peculiarità dello spazio sociale e geografico, certamente) i numerosi temi aperti nell’attualità: le rivendicazioni indipendentiste che percorrono l’Europa, i sovranismi che la spaccano, l’incontro tra identità individuali e mainstream, la situazione delle minoranze, l’espressione della sua volontà personale e la sua accoglienza tra le altre sono tutti punti interrogativi che hanno un’eco potente in terra catalana. Esercitare il proprio punto di vista ad allargarsi, ad ascoltare chi si pone dall’altra parte, è un’impresa che può partire anche da Barcellona.