Secondo gli esperti una bolla finanziaria di proporzioni bibliche minaccia di esplodere in Cina, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intera economia mondiale.
Al fine di comprendere pienamente le motivazioni profonde che hanno portato a questa situazione, è necessario scavare in quel particolare sincretismo tutto cinese tra comunismo e capitalismo.
Per spiegarlo con un’analogia, immaginiamo un bicchiere di olio e aceto. Si tratta di due elementi tra loro insolubili, eppure frustandoli con forza si può ottenere una parvenza di emulsione. Ma è un’impressione effimera: i due ingredienti rimangono inevitabilmente impermeabili l’uno all’altro e, non appena la frusta si ferma, è solo una questione di tempo prima che l’unto venga a galla.
Tra comunismo e libero mercato: una storia di amore e odio
La motivazione di questo strano rapporto in realtà è piuttosto semplice. La natura stessa del comunismo è l’antitesi del libero mercato e questo, a chi ci mette il proprio capitale, non piace affatto.
Il nuovo corso economico voluto dal presidente Xi Jinping sta facendo tornare la Cina sui suoi passi, portando lo Stato all’interno dell’economia come non si vedeva dai tempi di Mao: non solo a livello di soft power (com’è sempre accaduto, anche nei momenti di maggior apertura) ma fisicamente, con funzionari del partito comunista all’interno dei consigli di amministrazione e con partecipazioni di capitali sempre più massicce da parte di aziende controllate dal governo.
Il problema è che questo non avviene solo in Cina ma anche nei confronti di aziende estere, italiane comprese.
Come siamo arrivati a questa situazione? Quali sono le conseguenze per l’economia mondiale, in particolare per le imprese e i risparmiatori italiani?
Dal maoismo all’apertura internazionale del nuovo millennio
La presa del potere di Mao Zedong
Alla vittoria del partito comunista cinese, dopo la seconda guerra mondiale, la Cina era a pezzi. Anni di guerra contro il Giappone prima e di guerra civile poi avevano profondamente segnato il tessuto economico: infrastrutture ai minimi termini, industria quasi inesistente, economia di sussistenza ancora profondamente legata a una forma arcaica di agricoltura.
L’implementazione del comunismo maoista fu la goccia che fece traboccare il vaso. Partito con le migliori intenzioni, ovvero mettere fine a un sistema fortemente diseguale e rilanciare l’economia post bellica, finì per mettere il Paese in ginocchio del tutto.
La politica economica maoista
Il “grande balzo in avanti” fu la grande riforma economica di Mao per dare una scossa alla Cina. Purtroppo, fu qualcosa di più simile a una sedia elettrica.
Ad esempio, in campo agricolo si implementò la collettivizzazione di tutte le proprietà fondiarie, con l’eliminazione anche fisica dei proprietari terrieri e la creazione di enormi comuni agricole. I contadini non erano più proprietari del frutto del loro lavoro e pertanto non avevano alcun interesse a essere più produttivi. Ne conseguì un vistoso calo della produzione, dovuto anche al ricollocamento di numerosi contadini ad altri ruoli.
Un altro – gravissimo – esempio è la campagna di eliminazione dei quattro flagelli, un’operazione di antropizzazione dell’ecosistema che valutata con l’occhio di oggi sembra il piano di uno scienziato pazzo. Il governo promosse l’eliminazione di quattro animali ritenuti dannosi: ratti, mosche, zanzare e passeri. In particolare quest’ultima specie divenne oggetto di una caccia spietata. Un disastro ambientale, compiuto ignorando il fatto che i passeri non si nutrono solo di cereali ma anche dei loro parassiti, che senza questi importanti predatori naturali furono liberi di rovinare interi raccolti mettendo in grave difficoltà la già insufficiente produzione agricola del Paese.
Anche in campo industriale l’esperimento maoista si rivelò miope. Un esempio emblematico fu il tentativo di aumentare la produzione di acciaio distribuendo delle mini fornaci casalinghe. Il prodotto finito era però di qualità talmente scadente da risultare inutilizzabile.
Il fallimento di Mao
Questi tre esempi sono la punta dell’iceberg di un sistema che venne applicato uniformemente in tutto il Paese, senza alcuna distinzione tra le diverse regioni e senza alcuna sperimentazione. Il risultato fu disastroso e verso la fine degli anni Cinquanta ampie fasce del Paese soffrivano la fame a causa della carestia dilagante, la cui gravità era direttamente proporzionale allo zelo con cui le amministrazioni regionali applicavano le direttive centrali.
Deng Xiaoping e la seconda generazione dei leader cinesi
Poco dopo la metà degli anni Sessanta e grazie a interventi mirati (questa volta testati preventivamente e calati nelle singole realtà territoriali) la produzione arrivò a un livello sufficiente, ma solo dopo decine di milioni di morti dovuti alla carestia.
Alla morte di Mao Zedong nel 1976 la fazione più moderata del partito si fece rapidamente strada. Si tratta della stessa fazione purgata durante la rivoluzione culturale di Mao di fine anni Sessanta, il cui principale esponente si rivelerà essere quel Deng Xiaoping già fautore della ripresa produttiva avvenuta dopo il fallimento del grande balzo in avanti, e successivamente messo in disparte per le sue idee considerate troppo di destra dall’intransigente Mao.
Abbandonati i decenni di comunismo duro e puro, la nuova generazione di leader guidati da Deng aprì poco alla volta al mercato secondo la dottrina che portò, alcuni decenni dopo, al concetto di “un Paese, due sistemi“, con il ritorno di Hong Kong e Macao sotto il diretto controllo di Pechino.
I primi passi furono la de-collettivizzazione dell’agricoltura, l’apertura all’imprenditoria privata e agli investimenti stranieri. Questo, quantomeno, per alcuni settori e in alcune aree geografiche adibite a interfaccia con il mondo esterno, come ad esempio Shenzhen.
In questa fase la Cina è cresciuta a un ritmo vertiginoso e, tranne una breve pausa a seguito del massacro di piazza Tienanmen, ha continuato con le riforme e le aperture ai mercati internazionali fino alla prima decade del nuovo millennio.
L’era di Xi Jingping
Con l’ascesa al vertice della nazione dell’attuale presidente Xi Jingping nel 2013, le riforme portate avanti dai leader della generazione di Deng hanno subito una battuta d’arresto.
Xi Jingping è intervenuto rapidamente al fine di consolidare il suo potere personale, assumendo svariate cariche apicali e imponendo l’eliminazione del vincolo di durata del mandato presidenziale, assicurandosi pertanto di rimanere in carica a tempo indeterminato. Il suo Pensiero, detto del “sogno cinese”, è stato inserito direttamente nella Costituzione.
Sotto la sua presidenza è aumentata la sorveglianza di massa e la censura, con l’instaurazione di un vero e proprio culto della sua persona.
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L’accentramento a tutti i livelli tipico della sua politica ha dirette conseguenze anche sul piano economico. L’economia non è più un mero strumento per il raggiungimento del benessere collettivo ma un vero e proprio mezzo di proiezione del potere cinese nel mondo. In questo senso la Cina, attraverso le proprie aziende, è entrata prepotentemente in Africa al fine di assicurarsi una posizione dominante nella produzione di materie prime, e con la Belt and Road Initiative punta a diventare il fulcro dell’economia mondiale.
La lunga mano del partito
Sebbene venga mantenuta una certa apertura economica in senso liberale, la pervasività del controllo del partito sull’economia viene mascherata attraverso il collocamento dei propri emissari nei consigli d’amministrazione delle principali aziende cinesi, direttamente con partecipazioni di capitale da parte di società a controllo statale o attraverso multe e sgambetti vari alle imprese che non si allineano al governo.
Questo è particolarmente vero per le aziende legate al tech e al mondo di internet, tanto che una legge sulla sicurezza nazionale del 2017 obbliga tutte le aziende ad alto valore tecnologico a cooperare con il governo.
Anche i colossi non sono immuni
Il colosso cinese Huawei, ad esempio, è formalmente posseduto dai suoi dipendenti. Ma come ha scoperto una minuziosa ricerca di Christopher Balding sui curriculum dei dipendenti, molti di essi hanno o hanno avuto ruoli nell’intelligence cinese. Cosa particolarmente grave se consideriamo che Huawei è una delle aziende leader nella tecnologia 5G e molti Paesi l’hanno scelta quale partner tecnologico per aggiornare le loro reti di comunicazione.
Un altro esempio è TikTok, celebre social particolarmente diffuso tra i giovanissimi: non è un segreto che gli Stati Uniti nutrano profondi dubbi sull’indipendenza dal governo cinese di quella miniera di dati personali che è TikTok, dopo la cessione di quote della propria controllata a tre società statali da parte della holding del social network, ByteDance.
Anche il colosso dei media Alibaba è nel mirino del governo. Proprietario del Twitter cinese, Weibo, della piattaforma video Bilibili e di numerose case editrici e testate giornalistiche, al gruppo Alibaba è stato imposto di liberarsi di alcuni asset nel mondo della comunicazione, con la motivazione di evitare l’insorgere di un monopolio. Questo dopo aver bloccato qualche mese prima la più grande quotazione in borsa della storia cinese. Si tratta di Ant Group, la società fintech del gruppo proprietaria di Alipay, uno dei più famosi sistemi di pagamento in Cina.
I tentacoli del governo cinese anche in Italia
Le velleità di controllo statale dell’economia da parte della Cina hanno tentacoli non solo in patria ma anche all’estero, Italia compresa.
È di pochi giorni fa l’eclatante notizia (riportata anche dalla BBC) che la Guardia di Finanza ha scoperto un’acquisizione avvenuta nel 2018 di un’azienda italiana produttrice di droni militari, aerei e componentistica per l’industria aerospaziale (e già fornitrice delle nostre forze armate), da parte di un’impresa di Hong Kong, a sua volta controllata da aziende collegate al governo cinese attraverso un complesso sistema di partecipazioni societarie.
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L’azienda, quando era già sotto il controllo cinese, avrebbe esportato senza le necessarie autorizzazioni ministeriali un veicolo senza pilota in Cina, dove pianificava di spostare anche il centro di ricerca (con tutto il know how annesso).
Si tratta di un’operazione apertamente illegale, in violazione della normativa sul golden power che protegge le aziende strategiche del nostro Paese. Secondo la Guardia di Finanza anche altre due aziende italiane soggette al golden power sono sotto indagine per ingerenze cinesi del medesimo tipo: una che si occupa di trattamento dei rifiuti e una di tecnologie informatiche.
L’avvertimento di George Soros: una bolla sta per esplodere
Il 30 agosto scorso il noto magnate (e ossessione dei complottisti di mezzo mondo) George Soros ha lanciato un avvertimento dalle pagine del Financial Times: la repressione di Xi nei confronti dell’imprenditoria privata è la dimostrazione della sua incapacità di comprendere l’economia di mercato.
Secondo Soros il bagno di realtà arriverà presto e non sarà affatto piacevole, per nessuno. In particolare punta un riflettore sul settore immobiliare quale principale malato del nuovo approccio statalista cinese, pompato da dati sulla natalità gonfiati, tali da aver portato a forti investimenti nel real estate che difficilmente troveranno compratori. In parole povere, la classica bolla immobiliare.
Il tempo ha dato ragione a Soros con estrema rapidità. Il giorno successivo il colosso immobiliare cinese Evergrande ha segnalato al mercato il proprio rischio default. Poco dopo è stato declassato dall’agenzia di rating Moody’s, e ora è a soli due minuscoli scalini dal default vero e proprio. Evergrande è di fatto insolvente per cento miliardi di dollari con i mercati internazionali, una bomba che nulla ha da invidiare al crack Lehman Brothers del 2008.
L’allarme di Soros è in particolare rivolto ai gestori dei fondi pensione e dei fondi d’investimento (il riferimento tra le righe è per BlackRock, la più grande società di investimento del mondo) che in passato hanno investito in Cina con grande soddisfazione, e continuano a farlo incuranti che il Paese che conoscevano non c’è più: quella che si trovano davanti è una Cina molto più simile a quella di Mao che a quella di Deng.
Solo che, questa volta, i capitali che rischiano di essere bruciati non sono solo cinesi ma anche quelli di milioni di piccoli risparmiatori occidentali.