Con oltre settecentocinquantamila firme raccolte – e l’obiettivo del milione ora raggiungibile – il referendum sull’eutanasia legale promosso da Marco Cappato e dall’associazione Luca Coscioni si fa sempre più vicino. Il tema, quello del trattamento dei malati terminali, è per sua natura spinoso e polarizzante, e già da ora la campagna referendaria si preannuncia accesa.
«Ma prima di tutto bisogna fare chiarezza sui termini» ci dice la dottoressa Ludovica de Panfilis, ricercatrice sanitaria e responsabile dell’Unità di Bioetica dell’AUSL di Reggio Emilia. A lei abbiamo chiesto di spiegare di cosa tratti il referendum, cosa intendiamo quando si parla di eutanasia e quali siano le ragioni di chi promuove la consultazione e di chi vi si oppone.
Sedazione palliativa, suicidio assistito ed eutanasia. Può fare chiarezza su questi termini?
«Ci sono delle importanti differenze. La sedazione palliativa, o sedazione profonda continua, è l’unica opzione attualmente legale nel nostro Paese. Essa è regolata dalla legge 219/17 sul consenso informato e sulle DAT, ovvero le disposizioni anticipate di trattamento. Si tratta di un accompagnamento alla persona in fase avanzata e terminale di malattia negli ultimi giorni o nelle ultime ore di vita, tramite l’utilizzo di farmaci che riducono gradualmente la conoscenza fino a un totale annullamento. Si interviene, accompagnando la persona a morire, senza accelerare il processo, ma controllando i sintomi.
Il suicidio assistito e l’eutanasia sono le due grandi categorie che riguardano la morte volontaria assistita. Nel primo caso il medico non ha alcun ruolo diretto nel processo del morire. Prescrive un farmaco che il paziente assume in autonomia. Invece, nel caso dell’eutanasia il medico produce esplicitamente la morte di un’altra persona attraverso l’uso di un farmaco letale. In entrambi i casi, ciò avviene solo su richiesta esplicita di malati in determinate condizioni stabilite dalla legge. La sedazione palliativa, ci tengo a precisare, non ha nulla a che fare con suicidio assistito ed eutanasia».
Come si legano questi temi alla Legge 2019/17?
«L’Italia si è dotata di questa legge dopo un lungo dibattito. Questa norma le disposizioni anticipate di trattamento, il cosiddetto testamento biologico, e il consenso informato ai trattamenti. La legge è importantissima e molto diversa da quelle degli altri (pochissimi) Paesi che hanno legalizzato suicidio assistito ed eutanasia. La 219/17 consente ad esempio ai cittadini di sospendere un trattamento in corso, anche quelli salvavita.
Pensiamo al caso di Piergiorgio Welby. Egli dipendeva da una tracheotomia che gli consentiva di respirare e quindi di rimanere in vita. Per sospendere questo trattamento ha dovuto cercare, non senza difficoltà, un medico disposto a farlo. Il dottor Mario Riccio è stato per questo indagato, anche se la vicenda si è conclusa con un proscioglimento.
Dopo l’approvazione della legge, ogni cittadino ha diritto a sospendere le cure e il medico è tenuto per legge a rispettare la sua volontà e accompagnare il paziente alla morte tramite sedazione profonda. Non suicidio assistito o eutanasia. Bisogna fare chiarezza. Spesso si parla di eutanasia passiva, identificandola con la sospensione delle cure, ma non è così. Vi sono ragioni, esiti e procedure che distinguono queste due pratiche. La legge in questione consente inolte le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), ma ovviamente non è possibile inserire nelle proprie volontà una richiesta eutanasica o di suicidio assistito».
A proposito del referendum promosso dall’Associazione Luca Coscioni, quali sono le posizioni di chi è a favore?
«Il dibattito è fortemente polarizzato. Chi è a favore ritiene che chiunque sia libero di condurre la propria vita come meglio crede fino alla morte, compreso il momento della morte stessa. Lo Stato deve allora garantire un aiuto alle persone che desiderano non vivere in situazioni di estrema sofferenza, causate da una malattia grave e inguaribile. Le idee che prevalgono sono quelle di qualità della vita e di disponibilità della vita. La vita è disponibile, precisamente è a mia disposizione, proprio perché è mia».
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E di chi è contro?
«Chi è contro si attiene al principio della sacralità della vita. La vita è sacra e non spetta a noi decidere come e quando interromperla. Secondo queste persone, ad esempio, un referendum di questo tipo potrebbe rappresentare una “china scivolosa”. Se si iniziasse a depenalizzare il reato di aiuto al suicidio, punito dall’articolo 576 del Codice Penale, si arriverebbe a fare l’eutanasia a tutti fragili.
Essenzialmente queste sono le due grandi posizioni, una appoggiata tendenzialmente da un pensiero laico e l’altra da un pensiero cattolico. Certamente, all’interno di queste vi sono posizioni più complesse, che problematizzano la questione».
Quali sarebbero le conseguenze di un’eventuale approvazione?
«Il nostro è un Paese pronto a discutere di questi temi e quello sull’eutanasia legale è molto sentito. Credo che il referendum sia uno strumento utile per accendere i riflettori sulla questione. Attenzione però: il referendum è abrogativo, come tutti i referendum nel nostro Paese. Propone la parziale abolizione dell’articolo 579 del Codice Penale, relativo all’omicidio del consenziente.
Se il referendum dovesse andare avanti, la questione dell’eutanasia sarebbe ancora tutta da normare. Ad esempio, vi saranno sempre criteri per l’accesso a tale pratica, come l’avere una malattia terminale ed essere capaci di intendere e di volere, e delle procedure che ne garantiscano il rispetto.
Importante anche sottolineare che, negli altri Paesi, le leggi riguardanti il suicidio assistito e l’eutanasia prevedono l’obiezione di coscienza. Il medico può quindi rifiutarsi di prescrivere un farmaco o praticare una iniezione letale. L’obiezione non è però prevista per tutti i casi che rientrano sotto la legge 219/17, secondo la quale il medico è tenuto per legge a sospendere i trattamenti al paziente che lo desidera, proprio perché questa non è una forma di eutanasia o di suicidio assistito».
Lorenzo Tecleme e Marco Capriglio