«Se non ce la metti tutta, non ne esci vincitore». Michael Schumacher, quando era un pilota, lo sapeva benissimo, e oggi che la vita gli ha posto davanti ostacoli impossibili questa frase assume significati ancor più intensi. Una sfida umana che è parte integrante di Schumacher, il docu-film targato Netflix che racconta la dualità del Kaiser: da una parte, il pilota inflessibile, dall’altra il padre di famiglia che amava far festa e proteggeva i suoi cari. Sono proprio i suoi familiari ad aver fortemente voluto questo documentario, a otto anni dal terribile incidente sulle nevi francesi di Méribel che ancora oggi condiziona la vita dell’asso tedesco.
Nel film, tuttavia, di novità sulla salute di Schumacher non ce ne sono. Tutto quello che si sa è che Michael «è ancora qui, ma è diverso», come dice la moglie Corinna. «È davvero forte mentalmente, me lo dimostra ogni giorno. Stiamo insieme, facciamo la terapia, facciamo tutto il possibile per far sì che Michael migliori e stia bene, per fargli sentire che la sua famiglia è vicina, e io farò tutto il possibile, qualsiasi cosa accada». Se un tempo a proteggere lei e i figli Mick e Gina-Maria era il Kaiser, Oggi è il loro turno. «Il privato è il privato, diceva lui» continua Corinna. «Per me è molto importante che si goda la sua vita privata il più possibile». Il racconto prosegue: «Era sempre molto premuroso con me. Se doveva uscere presto, non mi svegliava mai. Si avvicinava al letto prima, mi accarezzava il braccio, mi baciava e mi diceva: “Io vado”».
C’è spazio anche per le voci dei due figli. «Quando andavamo alle gare – dice Gina-Maria – e vedevamo tutte quelle persone che lo ammiravano e lo consideravano un grande, io pensavo che fosse davvero un uomo eccezionale. La parte migliore era quando tornava a casa, perché restava con noi per ore, anche se era stanchissimo. Ma non ce ne accorgevamo: eravamo solo felici di riaverlo con noi». Anche Mick, oggi pilota in Formula 1 per la scuderia Haas, interviene nel documentario: «Ho un gran rispetto per papà. È il mio eroe. Quando entrava in una stanza, non si sente volare una mosca. Ogni volta che lo guardo, penso tra me e me: sì, è così che voglio essere. Così tanta forza, così tanta serenità». Poi, sfoglia l’album di famiglia con malinconia e un velo di tristezza: «Quando penso al passato arrivano immagini di noi quattro che ci divertiamo. Noi che guidiamo un kart sul prato, noi che andiamo in giro con i pony, tantissime fotografie che mi riempiono di gioia. E, dopo l’incidente, tutti quei momenti che molte persone vivono con i propri genitori non ci sono più stati, o sono stati molto più rari. Lo trovo ingiusto. Credo che io e papà ci saremmo compresi in modo diverso adesso. Parliamo la stessa lingua, quella dell’automobilismo, avremmo avuto molto altro da dirci. Lo penso la maggior parte del tempo. Sarebbe stato fichissimo. Mitico. Rinuncerei a qualsiasi cosa, pur di avere quella possibilità».
Il vero punto di svolta della vita di Schumacher è l’incidente sulle montagne di Méribel, cui è dedicato ampio spazio nelle battute conclusive del film. Racconta Jean Todt, il compagno degli anni in Ferrari: «Cambiò completamente la vita della famiglia, che si vide privata da un momento all’altro del suo leader, un uomo con una personalità forte, decisa. Tutto nel giro di un minuto». E ancora Corinna, in lacrime: «La neve non era buona, secondo Michael. Pensò: magari invece di sciare potremmo fare paracadutismo a Dubai, ma alla fine decise comunque di scendere. È stata solo sfortuna, succede anche ad altre persone. Michael mi manca ogni giorno, ma non solo a me. Ai suoi figli, alla famiglia, a suo padre. Michael manca a tutti. Eppure, è qui. È diverso, ma è qui. E questo ci dà forza».
Anche il rapporto con la scuderia trova spazio nella narrazione. «I miei meccanici sanno cosa pensare di me. Io mi fido al cento per cento di loro, loro di me», racconta Schumacher del suo box, in un’intervista di repertorio. Conosceva tutti, aveva sempre una buona parola per chiunque, a volte aveva rapporti anche le mogli di meccanici e tecnici. Pur di non rompere l’armonia del gruppo, teneva dentro sé ogni paura o preoccupazione. Così, tutti gli garantivano sostegno assoluto. «La Ferrari era una grande famiglia: ci faceva sentire sicuri», racconta ancora Corinna. Anche i colleghi partecipano al ricordo. David Coulthard, ex pilota della McLaren/Mercedes, rivela: «C’è Michael, il pilota: inflessibile, veloce, determinato e competitivo. E poi c’è Michael, il padre di famiglia: ho passato molte serate con lui a bere Bacardi e cola, si fumava un sigaro… era una persona diversa. In quel momento, non c’è competizione: si sta solo insieme e ci si diverte». Corinna aggiunge: «Amava fare festa e buttare le persone in piscina. Era la “sua cosa”. Non sapeva cantare bene, ma si cimentava nel karaoke: metteva sempre My way di Frank Sinatra, si ricordava il testo a memoria».
Tra i tanti avversari che il Kaiser ha affrontato durante la sua lunga carriera, ce n’era uno con cui ha avuto duelli impossibili: sé stesso. Schumacher non accettava di poter sbagliare, alzava sempre l’asticella. Contro Jacques Villeneuve, nel duello che nel 1997 lo portò a giocarsi il mondiale, durante la gara di Jerez lo urtò e finì fuori pista, mentre il canadese ne uscì indenne. Era furioso: pensava di essere lui, quello colpito. Non era così. «Supero il limite, quel giorno. Un limite dato dalla sua dedizione, dal suo impegno. Ci mise in difficoltà», racconta Ross Brawn, suo direttore tecnico in Benetton e Ferrari. La Federazione lo squalificò: fu la prima volta di sempre. Solo a quel punto Michael, con le spalle al muro, dovette accettare di aver sbagliato, assumendosi (pur riluttante) le sue responsabilità. A riguardo, Mark Webber, ex pilota Red Bull, commenta: «Michael superava il limite anche quando non era necessario. Alle qualifiche era già in pole, aveva già nel sacco la vittoria, era impegnato nel duello con un altro pilota ed esagerava. Aveva una paranoia della perfezione. Doveva sempre fare di più, come a dimostrarsi qualcosa. Molte volte, gareggiava solo contro di sé. Si chiedeva: cosa posso dimostrarmi di più? Come posso distruggere i miei rivali? Come posso continuare a essere il numero uno?».
Insieme a Mika Hakkinen, con cui battagliò nei primi anni Duemila, l’avversario più difficile fu Ayrton Senna. Quando nel 1991 Michael Schumacher approda alla Benetton (con cui il pilota tedesco vinse i suoi primi due titoli mondiali) Senna aveva vinto il suo terzo titolo iridato. Tutti amavano il pilota brasiliano, una leggenda vivente, tutti quelli che si avvicinavano al Circus volevano essere lui. Lo stesso Schumacher, racconta Flavio Briatore (ex direttore esecutivo della Benetton), aveva un poster di Senna in camera, da giovane. Su questa rivalità interviene anche l’ex patron della Formula 1, Bernie Ecclestone: «Schumacher era un signor nessuno che sfidava il meglio del meglio». Le prime scintille tra i due, dopo alcuni screzi, arrivarono nel 1992, al Gran Premio di Magny-cours, in Francia: Schumacher attaccò Senna, lo tamponò e lo eliminò dalla corsa. Il brasiliano gli parla nel paddock, prova a metterlo in riga. «You fucked it up», gli dice a brutto muso. Secondo Ross Brawn, Senna aveva capito che «un altro leone era entrato nel suo territorio». Nel 1994, al Gran Premio di San Marino, Imola, Schumacher arrivò con più punti brasiliano, che aveva la pressione dalla sua. Sapeva di dover vincere a ogni costo per accorciare il gap in classifica. In gara, l’asso della Williams precedeva il giovane talento tedesco. Ayrton, però, andò dritto alla curva Tamburello. Fu la sua ultima gara. Schumacher vinse. Avrebbe appreso la sorte del rivale solo ore dopo. Divenne insonne. Quando qualche giorno dopo fece un giro di ricognizione a Silverstone, in occasione del Gran Premio. Racconta, in un’intervista di repertorio: «Ho iniziato a guardare ogni curva con occhi diversi. Mi dicevo: qui potrei morire, qui potrei morire, qui potrei morire…».
C’è poco spazio per le vittorie di Schumi nel docu-film. Gli autori, piuttosto, puntano la loro lente sulle fasi iniziali e centrali della carriera di Michael Schumacher, lasciando ancor meno spazio alla seconda parentesi, quella del ritorno con la Mercedes nel 2009. Si parte dall’esordio del 1991 (a Spa, in Belgio) con il settimo posto in qualifica con la Jordan, al primo successo, l’anno seguente, sempre a Spa ma con la Benetton, fino all’approdo in Ferrari: proprio al binomio tra il tedesco e il Cavallino Rampante è dedicato gran parte del documentario. Ciò che interessa alla produzione è la sofferenza del campione, il peso del riportare ai fasti del passato la scuderia più iconica del Circus. «Aveva vinto con kart e gomme usate – racconta Will Weber, storico manager di Schumacher – perché non doveva riuscirci alla Ferrari?». Quando nel 1996 approda alla Rossa su indicazione di Niki Lauda, allora scout della squadra, la macchina è poco competitiva e inaffidabile. L’ostinazione di Schumacher, però, lo portò a restare ogni giorno fino a tardi insieme ai meccanici, pur di cercare di risolverne i problemi. Riuscì a vincere, sul bagnato, la gara di Barcellona, un’impresa quasi impossibile. Dopo anni di difficoltà, quando i dubbi sulle qualità del tedesco iniziavano a serpeggiare, il successo mondiale del 2000. Da lì, racconta l’ex commentatore di Formula 1, James Allen, «il grande fardello che aveva sulle spalle sparì. Non si sentiva più in debito con nessuno, aveva donato alla Ferrari il campionato che voleva da più di vent’anni. Da allora, guidò libero, con il cuore, la passione, un senso di pace, come dire: faccio quello che amo, non devo nulla a nessuno».
Il merito di Schumacher non è tanto quello di raccontare i fasti di uno dei più grandi piloti di tutti i tempi (se non il più grande), o di aprire una finestra sul difficile presente del campione, quanto piuttosto restituire a tifosi e appassionati l’immagine di un uomo capace di riscrivere la storia di questo sport. Un uomo non solo spietato e letale sul tracciato, ma anche premuroso e amorevole con familiari e amici. Dopo aver visto Schumacher, nella testa non c’è più solo il Kaiser, ma anche e soprattutto Michael.