I conflitti sono da sempre propulsori di cambiamento, sia in termini positivi di sviluppo, sia in termini negativi di ripercussioni e ferite personali, sociali ed economiche. L’obiettivo delle azioni militari è quello di perpetrare violenza fisica e psicologica verso il nemico, lasciando indelebili i segni della guerra. Uno tra i metodi più brutali utilizzati è la violenza sessuale. L’intento di questo articolo è quello di illustrare alcuni utilizzi sistematici dello stupro come arma di guerra durante i conflitti armati, partendo dalla definizione e dall’inquadramento giuridico di questo crimine. Si prenderanno poi in considerazione alcuni utilizzi di questa pratica durante le diverse guerre del Novecento, usando per semplicità come periodizzazione la prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale e gli anni dal dopoguerra a oggi.
Secondo l’Enciclopedia Treccani, si definisce stupro ogni «azione volta a costringere un individuo a compiere o subire atti sessuali contro la propria volontà, mediante l’uso della violenza o della minaccia». L’ordinamento italiano punisce questo reato con una condanna non inferiore ai sei anni e non superiore ai dodici, come sancito dall’articolo 609-bis del Codice penale.
Lo stupro come arma di guerra è documentato dai tempi della guerra civile americana. Questa pratica, tuttavia, non ha ricevuto condanne né al Processo di Norimberga né ai processi di Tokyo. Nonostante la Quarta convenzione di Ginevra nel 1949 proibisca con l’articolo 27 lo stupro e la prostituzione forzata in tempo di guerra nei confronti di tutte le donne che si trovano nell’area interessata dal conflitto, lo stupro viene definito come crimine contro l’umanità solamente nel 1998. Questa definizione compare per la prima volta nello statuto di Roma della nuova Corte penale internazionale, introdotta da due tribunali incaricati di perseguire i responsabili delle violenze sessuali perpetrate nel corso dei conflitti jugoslavo e ruandese.
È importante ricordare anche un’altra forma di violenza psicologica e sessuale: il matrimonio forzato. Il matrimonio è forzato qualora manchi il consenso di uno o di entrambi i coniugi. Questa pratica si è verificata, e continua a verificarsi in molti Paesi in conflitto come Congo, Siria, Iraq e Sudan. Il matrimonio forzato è stato perseguito come crimine internazionale solamente dalla Extraodinary Chambers in Cambogia e dalla Special Court della Sierra Leone.
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Nonostante la Serbia sia stato uno dei Paesi più colpiti dalla Grande Guerra, poco si conosce degli episodi di stupro che si consumarono nei suoi territori.
Il criminologo Rodolphe A. Reiss racconta le sevizie sui serbi da parte dell’esercito austro-ungarico e di quello bulgaro. Nelle tasche di ufficiali e soldati, Reiss ritrovò fotografie che li ritraevano in posa accanto a uomini e donne sulle forche. La violenza sui civili non era infatti celata, ma esibita in modo trionfante. Furono le donne, simbolo di fertilità e continuità della specie, a pagare il prezzo più alto: moltissime morirono mutilate, violentate e arse vive. Addirittura, alcune furono sottoposte a “gravidanza forzata”, vigilate da soldati affinché non tentassero l’aborto.
Queste violenze passarono per lo più in sordina, poiché tra la popolazione contadina vi era il desiderio di occultare quello che poteva essere un danno all’onore e al buon nome. Tutte le violenze perpetrate in Serbia furono rese note solamente nel 1919, quando comparvero gli atti dell’inchiesta della Commissione interalleata sulle violazioni delle convenzioni dell’Aia e del diritto internazionale.
Molte violenze carnali furono commesse anche dai soldati tedeschi in Italia. Il tema di una gravidanza dopo uno stupro fu molto dibattuto nel nostro Paese. Su Il Popolo d’Italia, il segretario della Lega antitedesca Francesco Mario Zandrino affermava che lo stupro fosse «un delitto antiumano tipicamente tedesco». Altre voci, come quella di Alfredo Colombo e Lorenzo Cenni, affermavano per le donne rimaste gravide il diritto e il dovere di abortire, per non dare vita al figlio del nemico.
Le violenze vennero rese note solamente nel dopoguerra, attraverso la relazione della Reale commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico. In questi documenti si legge come le violenze fossero commesse davanti a famigliari e bambini.
Al ritorno dal fronte, la notizia degli stupri e delle gravidanze delle mogli non era sempre ben accettata da parte dei mariti. A Portogruaro, in provincia di Venezia, venne costruito l’istituto San Filippo Neri con lo scopo di ospitare i “figli del disonore”. Spesso erano gli uomini stessi a chiedere alle mogli di abbandonare il figlio, perché il marito che combatteva al fronte non poteva essere “condannato” a subire il figlio del nemico.
In questo scenario, donne e bambini furono ancora una volta le categorie che pagarono il prezzo più alto. Il figlio era un “intruso”. La differenza fra violenza subita e tradimento commesso era molto sottile agli occhi di molti mariti tornati dal fronte, che non riuscivano a sopportare il peso di questa terribile situazione.
La Resistenza ebbe inizio in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I tedeschi da subito occuparono i territori a ridosso della Linea Gotica, compiendo violenze e abusi sulla popolazione civile.
Si riporta l’esperienza di A., una donna che viveva nei dintorni di Marzabotto (Venturoli C., La violenza taciuta. Percorsi di ricerca sugli abusi sessuali fra il passaggio e l’arrestarsi del fronte, 2000).
«Fu il 25 giugno del 1944, io avevo il bambino piccolo. […] Questi due tedeschi cominciarono a dire che dovevano fare una perquisizione nelle case per vedere se c’erano dei partigiani. […] Mi chiesero: “Tuo marito dove ce l’hai?” Io dissi: “Mio marito è in Germania, prigioniero”. “Tuo marito soldato Badoglio, soldato traditore. Tu pagare per lui”. Io avevo in braccio il bambino. […] Quando rinvenni ero sul letto, e purtroppo ero sotto le sue grinfie. Feci per fare un urlo, e mi misero una bomba in bocca. Poi fu di quella storia lì per un’ora e mezzo o due. E poi andarono via».
Il giorno dopo i tedeschi tornarono.
«Non so se ce n’erano tre o quattro, quei due della prima sera c’erano. Uno mi prese il bimbo da in braccio e lo lanciò a mia suocera, come se fosse un cuscino, per fortuna che lei riuscì a prenderlo. […] E poi mi buttarono su come a buttare su una cosa, su per una scala che andava su nella camera. E fu di quella lì fino a sera. Poi andavano e venivano, non so se erano cinque o sei, quanti erano. Gli altri erano scappati tutti quanti via, mia suocera aveva preso i bimbi, erano andati da una famiglia lì vicino. Degli schiaffi, degli sputi… preferivo in quel momento lì mi avessero uccisa».
Dalle parole di A. traspare una certa riservatezza nel raccontare la violenza subita, non esplicitando mai termini alludenti alla sfera sessuale. Questo potrebbe essere ricondotto alla mentalità del tempo, che vedeva il sesso come qualcosa di vergognoso e innominabile. Il silenzio rendeva ancora più difficili la rielaborazione del trauma. A., come tante altre, avrebbe voluto raccontare al tempo la sua esperienza, ma le fu imposto il silenzio dal marito per salvaguardare il loro buon nome. Questa situazione venne vissuta dalla donna come un’ulteriore violenza:
«Io volevo parlarne, quando vedo quelle cose alla televisione vorrei parlarne, ma non posso. […] Io, da allora, non sono più riuscita a dormire senza prendere dei tranquillanti».
Eventi simili sulla popolazione civile accaddero anche nel 1945, sul finire della seconda guerra mondiale, quando, dopo essere penetrata dalla Prussia orientale, l’Armata Rossa commise numerose violenze a danno della popolazione tedesca.
Le testimonianze dell’epoca mettono in luce una violentissima guerra totale, condotta dai sovietici contro l’esercito tedesco e contro la popolazione civile stessa. Nei territori occupati i russi si dimostrarono sempre spietati. Nei villaggi venivano violentate tutte le donne, comprese quelle ammalate, inferme, disabili e addirittura infermiere e suore. Spesso questi stupri erano commessi in gruppo e all’aperto, come se fosse un macabro spettacolo pubblico.
Nella letteratura e nella cinematografia vi sono alcune testimonianze di questi avvenimenti. Nel 1992 venne proiettato nella Germania da poco riunificata il film provocatorio del regista Helke Sander dal titolo Befreirer und Befreite (Liberatori e liberati, in italiano). Incentrato sulle violenze da parte dei sovietici sui civili tedeschi, venne accolto dalla critica come la rottura di un tabù, ovvero quello del tema dello stupro durante i conflitti armati. In quei territori vi era reticenza a raccontare le violenze ricevute già immediatamente dopo la fine del conflitto e l’esperienza dello stupro venne lungamente taciuta. Spesso le violenze erano denunciate anonimamente. Se ne poteva trovare traccia solamente nei documenti dei medici e degli ospedali, che oggi sono per i ricercatori una delle poche fonti sistematiche e oggettive d’indagine.
Un ulteriore esempio delle violenze subite dai cittadini tedeschi da parte dell’Armata Rossa è rintracciabile nel romanzo Il rogo di Berlino di Helga Schneider. La scrittrice narra, a cinquant’anni di distanza, la sua infanzia ai tempi del conflitto. La piccola Helga viveva con il nonno Opa e riuscì a sopravvivere a stento cercando cibo.
La situazione peggiorò quando arrivarono i sovietici. I soldati trovarono nascosti in uno scantinato Helga e i suoi affetti. Tra di loro, l’amica coetanea Erika, che venne violentata e morì in seguito alle lesioni riportate. Nelle parole della Schneider è racchiusa tutta la violenza e lo sprezzo nei confronti del nemico da parte dell’Armata Rossa. Dopo la violenza nei confronti di Erika «se ne andarono, forti di una loro presunta innocenza perché convinti di aver esercitato il diritto del vincitore».
Della questione degli stupri in Germania durante il secondo conflitto mondiale si è occupato inoltre Erich Kuby. Nel suo libro del 1965 I russi a Berlino dedicò un capitolo sulle violenze compiute dall’esercito occupante sulla popolazione civile.
Anche la seconda metà del Novecento è stata teatro di conflitti armati. In questo excursus di esempi in cui lo stupro è stato utilizzato come arma durante le guerre, un caso particolare è quello delle donne naxalite. Il movimento naxalita prende il nome da Naxalbari, un villaggio del Bengala Occidentale nel quale, nel 1967, scoppiò una rivolta da parte dei contadini locali contro i ricchi latifondisti. Il movimento dei ribelli naxaliti trae ispirazione dalle teorie di Marx combinate al maoismo.
Nonostante sia stato dichiarato organizzazione terroristica dal Governo indiano, il movimento è ben accettato dalla popolazione rurale. L’obiettivo dei naxaliti è quello di avere una società egualitaria e le donne arruolate, in questo contesto, non fanno eccezione. Nel 2011 è stato stimato che le donne combattenti nel territorio del Gadhchiroli, distretto occupato dal movimento, siano circa il 25% del totale dei militanti.
Molte donne ex combattenti hanno rivelato di sentirsi al pari degli uomini e di apprezzare questa situazione. Molte altre però hanno denunciato abusi, che vanno dal pestaggio allo sfruttamento sessuale, proprio da parte dei loro commilitoni maschi. Nelle parole di altre combattenti, la concessione (obbligata) di prestazioni sessuali nei confronti dei leader maschili era vista come un dovere.
Lo stupro come arma ha avuto un largo utilizzo anche nell’America Latina del secondo Novecento, segnata da dittature militari e conflitti armati interni. Meritano certamente menzione le violenze accadute nei centri clandestini di detenzione (CCD) argentini e gli abusi nei confronti delle mogli e compagne degli attivisti politici contro Augusto Pinochet in Cile.
In questa sede ci si soffermerà sugli stupri di massa nel conflitto interno peruviano, in atto dal 1980 al 2000, che ha visto l’alternarsi di governi civili autoritari. Da una parte vi era lo Stato, dall’altra i gruppi sovversivi in lotta fra di loro, in particolare il Sendero Luminoso, di stampo comunista, e il Movimento Rivoluzionario Tùpac Amaru.
Questi due movimenti rivoluzionari bandivano teoricamente lo stupro, ma nei fatti continuavano a praticarlo. Le testimonianze raccontano di come le violenze da parte del Sendero avvenissero durante i momenti di ritirata. I rivoluzionari in fuga dall’esercito peruviano obbligavano gli abitanti dei villaggi rurali a seguirli. In questi rifugi avvenivano violenze, unioni forzate, aborti e uccisione di neonati appena dopo il parto. Le violenze del Movimento Rivoluzionario sono testimoniate, anche se in misura minore. Queste avvenivano spesso durante gli scontri con il Sandero, quando le donne avversarie venivano catturate, violentate e uccise. Un testimone ha dichiarato, però, che a causa delle violenze perpetrate vi furono importanti defezioni nell’ala del Movimento.
Le violenze sono state commesse anche da parte dello Stato peruviano nei confronti delle donne militanti in entrambi gli schieramenti ribelli. Nel 2002, i rappresentanti della Commissione per la verità e la riconciliazione hanno visitato le prigioni di tutto il Paese per raccogliere le testimonianze di persone condannate per terrorismo negli anni della guerra civile peruviana.
Queste testimonianze hanno rivelato che le militanti donne incarcerate sia del Sendero che del Movimento sono state sottoposte a violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza al momento dell’arresto. Hanno denunciato torture, umiliazioni sessuali, stupri e violenza psicologica. Micaela, una militante del Movimento Rivoluzionario, ha detto nel 2007: «Mi hanno arrestata e lì, loro… Ebbene, si può immaginare, mi hanno violentata e solo dopo mi hanno arrestata ufficialmente».
Il passato più recente ha visto la Bosnia come teatro di una sanguinosa guerra tra il 1992 e il 1995, inserito nel contesto delle guerre jugoslave dopo la disgregazione della Repubblica Socialista di Jugoslavia.
La notizia degli stupri di massa cominciò a circolare già dal 1992. Queste terribili violenze erano commesse dai serbi nei confronti della popolazione civile bosniaca, di religione musulmana. Questi stupri avevano però un nuovo aspetto.
L’obiettivo era quello di violentare le donne con l’intento di dare alla luce i figli dei loro stessi violentatori. Così facendo, le donne sarebbero state ripudiate dalle loro stesse comunità che si sarebbero lentamente disgregate dall’interno.
Le notizie di questi stupri, divulgate dai media dell’Europa occidentale mentre erano messi in atto, hanno aiutato le donne a riconoscere lo stupro come crimine di guerra e hanno invitato le organizzazioni mondiali ad agire immediatamente.
Nonostante ciò, si è cercato di tenere nascosto il problema. I media serbi hanno lanciato un’enorme campagna su alcuni presunti stupri di donne serbe da parte degli albanesi nel 1987. Gli albanesi furono presentati come creature bestiali che violentavano non solo donne adulte ma anche bambini, morti, donne anziane, addirittura uomini e animali.
Di queste violenze non esistono dati reali, e le ipotesi sono ancora al vaglio dei ricercatori. Questo è un chiaro esempio di come gli stupri commessi in Bosnia diventino una violenza contro tutta la collettività femminile e di come la violenza verso le donne possa essere strumentalizzata.
Lo stupro come arma di guerra è un crimine che viene perpetrato anche nei conflitti del Ventunesimo secolo. Per questo paragrafo si utilizzeranno come fonti alcune testate giornalistiche internazionali, che riportano le testimonianze delle vittime.
La testata giornalistica statunitense The New York Times riporta la testimonianza di una ragazzina di dodici anni, violentata da un appartenente all’ISIS in un campo di prigionia, dove è stata detenuta con la sua famiglia per undici mesi: «Continuavo a dirgli che faceva, di smetterla. Mi ha detto che secondo l’Islam gli è permesso violentare un non credente».
Lo stupro sistematico di donne e ragazze yazidi, minoranza religiosa presente nelle regioni del Sinjar iracheno, è diventato un’arma utilizzata dallo Stato Islamico per ottenere e mantenere il controllo di quei territori. L’ISIS ha infatti enfatizzato una lettura decontestualizzata e selettiva del Corano, al fine di giustificare la violenza e innalzare a gesto virtuoso ogni aggressione sessuale.
L’articolo riporta la testimonianza della quindicenne F., venduta come schiava sessuale a un combattente: «Ogni volta che veniva a violentarmi, pregava. Diceva che violentarmi fosse la sua preghiera a Dio».
F. offre anche una testimonianza della sua cattura, avvenuta nel suo villaggio da parte dello Stato Islamico il 3 agosto 2014: «Immediatamente, i combattenti hanno separato gli uomini dalle donne. Mi hanno separato da mia madre. Le giovani ragazze non sposate sono state costrette a salire sugli autobus. […] Si sono presi gioco di noi, dicendoci che eravamo le loro sabava. Non sapevo cosa significasse quella parola». Solamente dopo le fu spiegato che la parola aveva il significato di schiava. Infatti, come si può leggere nell’articolo stesso, il commercio del sesso dello Stato Islamico sembra essere basato esclusivamente sulla schiavitù di donne e ragazze della minoranza yazida.
Una donna yazida di trentaquattro anni, acquistata come schiava e ripetutamente violentata da un combattente saudita nella città siriana di Shadadi, ha raccontato di una sua parente di dodici anni, violentata per più giorni di fila nonostante le forti emorragie: «Ha distrutto il suo corpo. Era piena di infezioni. Il combattente continuava a chiedere perché avesse un odore così cattivo. Gli dicevo che era solo una ragazzina, e lui rispondeva che invece era solo una schiava».
Per questo elaborato, risulta poi pregnante e attuale il caso dei campi di rieducazione dello Xinjiang, in Cina. In essi vengono fatte confluire tutte le minoranze etniche, tra cui gli uiguri, etnia turcofona che vive nel nord-est della Cina, che dalla prima metà del Novecento porta avanti posizioni indipendentiste.
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La nota emittente inglese BBC riporta la testimonianza di una donna kazaka dello Xinjiang, Gulzira Auelkhan, che è stata detenuta per diciotto mesi in un campo nello Xinjiang: «Il mio compito era togliere i vestiti delle altre prigioniere e ammanettarle, in modo che non si potessero muovere. […] Poi lasciavo le donne nella stanza ed entrava un uomo. Mi sedevo in silenzio, accanto alla porta, e quando l’uomo usciva dalla stanza, portavo la donna a fare una doccia».
Lo stesso articolo della BBC riporta anche la testimonianza di Tursunay Ziawudun, che è stata internata per nove mesi. La donna racconta le esperienze della terribile dark room. Come lei stessa definisce la stanza in cui avvenivano le violenze sessuali: «Avevano un bastone elettrificato, non sapevo cosa fosse. Lo hanno spinto dentro di me e mi hanno torturata con scosse elettriche».
Gli effetti fisici e psicologici degli abusi sono stati considerevoli. Ziawudun racconta di aver visto molte ex detenute cadere nell’abuso di alcolici, tra cui una sua ex compagna di cella, che definisce come «completamente esaurita dagli stupri».
Depressione e dipendenza da sostanze stupefacenti o alcolici sono alcune delle conseguenze dei danni psicofisici dovuti alla violenza sessuale subita. Infatti, gli effetti psicologici e fisici di uno stupro sono gravi e spesso permanenti.
Durante il conflitto armato in Sierra Leone avvenuto negli anni Novanta, si stima che tra il 70 e il 90% delle donne vittime di violenza sessuale abbia contratto qualche malattia sessualmente trasmissibile. Queste violenze possono essere causa di infertilità, gravidanze non desiderate, infezioni o morte.
Inoltre, le donne che hanno riportato una gravidanza in seguito allo stupro difficilmente hanno avuto accesso a un aborto sicuro. Coloro che hanno tentato illegalmente la pratica abortiva sono andate incontro a complicazioni anche gravi, a causa dello stigma sociale dovuto alla violenza subita.
A proposito di ciò, sul giornale inglese The Guardian, Glenys Kinnock, eurodeputato per il Galles e membro del Comitato per lo sviluppo e la cooperazione del Parlamento europeo, ha pubblicato un articolo nel quale ha raccontato la storia di Saida Abdukarim, donna incinta di otto mesi, violentata e picchiata.
In Darfur, dove fu praticato un programma di pulizia etnica con l’appoggio del governo locale, lo stupro di donne e bambini diventò un’arma. Questa guerra ha visto scontrarsi, dal 2003 al 2010, gli Janjawid, miliziani arabi di etnia baggara, e la popolazione civile non baggara.
Scrive Kinnock, nel 2006, nel pieno del conflitto:
«La violenza sessuale è diventata ormai parte integrante e devastante del conflitto, volta a spezzare la volontà della popolazione locale. […] Ogni giorno le donne in Darfur affrontano la prospettiva di essere violentate e picchiate quando lasciano le loro case per trovare cibo o cercare legna da ardere. Affrontano questa prospettiva anche se la comunità internazionale afferma di proteggerle. […] I loro villaggi sono rasi al suolo, sono costrette a camminare per giorni, trasportando i loro figli attraverso il caldo torrido e le tempeste di sabbia».
Continua:
«Questi sono gli aspetti fisici del disastro. Quelli psicologici sono molto più profondi. Nessuno può stimare la frequenza con cui le donne in Darfur vengono aggredite e violentate, perché la loro società fa tacere le vittime. […] Fino a poche settimane fa, le donne che cercavano assistenza medica dopo essere state violentate venivano effettivamente arrestate dalle forze di sicurezza sudanesi. Questo silenzio lascia i suoi segni sulla società e sulle donne stesse. Non solo molte delle donne non saranno in grado di sposarsi, ma dovranno anche affrontare lo stigma dovuto all’essere state violate».
Oggi lo stupro è un crimine punito dal diritto internazionale, che garantisce alle vittime di ogni parte del mondo la riparazione del danno subito (diritto individuale alla riparazione). È di fondamentale importanza che questi programmi abbiano effetti sul lungo termine e siano indirizzati a eliminare le ingiustizie socio-culturali e le differenze strutturali delle varie società, ponendo l’accento sull’importanza dell’empowerment e del cambiamento.
In questi articoli sono stati ripercorsi alcuni dei momenti in cui l’abuso sessuale si è trasformato in arma di guerra contro la popolazione civile, contro gli eserciti rivali o contro i propri stessi commilitoni.
Questi tristi avvenimenti, per quanto gravi e riprovevoli, sono solamente un esempio che dimostra quanto la violenza contro le donne sia endemica e fortemente radicata nella società. Che sia in tempo di guerra o in tempo di pace, la violenza contro le donne non deve essere mai accettata, tantomeno giustificata. «In tempo di guerra la violenza diveniva così non solo tollerata, ma anche giustificata», scrive Helga Schneider ne Il rogo di Berlino. Questo però non deve accadere, la violenza di genere non è mai lecita né tollerabile.
A livello di conflitto armato, nelle zone di guerra, molti eserciti compiono atrocità che restano impunite e l’azione internazionale di enti come le Nazioni Unite si rivela carente e andrebbe sensibilmente migliorata.
A livello quotidiano, invece, la violenza contro le donne può compiersi nel vissuto di tutti i giorni tramite il linguaggio, l’oggettivazione e la mercificazione del corpo della donna, la discriminazione sul luogo di lavoro o la dipendenza economica della donna dall’uomo, fino ad arrivare alla violenza domestica e allo stupro. Ognuno ha il diritto, il dovere e soprattutto il potere di porre fine alla violenza di genere, sia nella propria dimensione privata e famigliare che in quella pubblica e lavorativa. Occorre responsabilizzare la popolazione sia maschile che femminile con programmi ad hoc, pensati a partire dal mondo della scuola.
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Per uno studio approfondito si consiglia la lettura del volume Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, a cura di Marcello Flores.
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