Gli anni di piombo sono stati una triste parentesi della storia recente del nostro Paese, costellata di attentati, violenze e rapimenti. I prigionieri è un romanzo che racconta una di queste vicende. Il 20 maggio del 1981 le Brigate Rosse rapiscono a Mestre il direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, Giuseppe Taliercio. Per quarantasette giorni l’uomo resta nelle mani dei terroristi, che lo sottopongono a un “processo proletario”.
Oggi theWise Magazine ha incontrato Pierluigi Vito, giornalista professionista e autore de I prigionieri, edito per la collana Le Frecce di AUGH! Edizioni nel 2021.
Come si evince dal titolo, questo romanzo parla di un rapimento. Chi sono però realmente i prigionieri?
«Sono tanti in questa storia. Indubbiamente c’è Giuseppe Taliercio, questo è lampante. Ma la sua prigionia smaschera anche quella dei suoi carcerieri, avviluppati dentro un’azione di lotta armata votata al fallimento e chiusa in una deriva ideologica, capace solo di seminare morte e non riscatto. C’è un momento nel romanzo in cui si confrontano Taliercio ed Emilio, colui che sta gestendo l’ostaggio. Ed è nelle parole del terrorista che si svela inconsciamente una disamina della realtà che stanno vivendo: “Non è solo una catena a fare un prigioniero, ci sono silenzi che soffocano, parole che attanagliano”.
In quel momento Emilio sta riferendosi a sé e ai suoi compagni, impegnati nel rapimento del direttore del Petrolchimico, ma senza rendersene conto allarga il contesto. Parla delle loro vite precipitate nel gorgo della disperazione. Come pure, per tutt’altro frangente, era precipitata la vita di Alfredino Rampi, il bambino di Vermicino morto in un pozzo artesiano. Quella vicenda tragica si intreccia transitoriamente con il destino dei brigatisti, finendo per soffocare ancor più le loro giornate, aggiungendo pena su pena. Come se non bastasse quella che stavano infliggendo a un innocente che tenevano incatenato in una soffitta».
Chi è Giuseppe Taliercio? Qual è la grandezza della sua figura?
«Se vogliamo usare il presente, e la cosa mi piace, possiamo dire che Giuseppe Taliercio è un uomo che vive al di là della propria morte. Perché il suo martirio a opera dei terroristi non ha spezzato, semmai ha amplificato, la traccia lasciata nel corso di un’esistenza votata alla famiglia, al lavoro e alla fede cristiana. Non si comprende Giuseppe Taliercio separandolo da queste tre dimensioni costitutive.
Era un uomo innamorato di sua moglie Gabriella, veramente la sua metà, e devoto alla famiglia costruita insieme e che insieme portavano avanti vivendo con modestia ma senza far mai mancare niente di essenziale ai loro cinque figli, a partire dal profondo affetto che univa tutti loro. E poi c’è il lavoro, vissuto da Taliercio come occasione per dare il meglio di sé a servizio degli altri. Lui entra in Montedison da giovane laureato in ingegneria e custodisce uno sguardo tecnico sugli impianti e profondamente fraterno verso gli operai.
Sempre avverte che il suo compito è quello di far funzionare una fabbrica perché produca il benessere di chi ci lavora. E se qualcosa va storto, se ci sono operai che si ammalano o devono affrontare difficoltà lui, il direttore, con la Società di San Vincenzo de’ Paoli (un’organizzazione caritativa cattolica) gira per le case per portare beni e parole di conforto.
Questo ci conduce alla terza dimensione, quella di cristiano, che per Taliercio è la base di tutto. Lui cresce nelle fila dell’Azione Cattolica, in parrocchia incontra sua moglie e impara che non ci si salva da soli, ma che la vita la si gioca insieme, cercando di seminare il bene. Ed è nella preghiera e nella lettura quotidiana della Bibbia che trova la forza per rimanere saldo su questa strada. Tutto questo esplode letteralmente davanti agli occhi dei suoi rapitori, che non riescono a reggere la statura morale di un uomo che non riconosce in loro i padroni della sua vita o della sua morte. E questo è attestato dalle lettere che due dei rapitori scriveranno, anni dopo, dal carcere alla vedova di Taliercio».
Per la ricostruzione della vicenda si è servito delle memorie del brigatista Gianni Francescutti come di quelle dei figli di Taliercio stesso. Come ha vissuto questa “dicotomia”?
«Erano i due sguardi necessari per raccontare questa storia. I figli di Taliercio mi hanno aperto la loro casa. Ho visto il luogo in cui il 20 maggio del 1981 loro padre gli è stato strappato via per sempre. Mi hanno raccontato soprattutto che uomo fosse Giuseppe Taliercio, le sue abitudini, i suoi atteggiamenti, le relazioni che intesseva con ognuno di loro. Una miniera di ricordi che ho portato con me e che ho trasposto nelle pagine dedicate ai pensieri che agitano il prigioniero rinchiuso nel covo dei terroristi.
Da Francescutti, invece, ho preso il sostrato ideologico, il clima politico, ma pure alcune note spicciole di vita in clandestinità che caratterizzava la quotidianità dei brigatisti. Devo dire che in lui non ho trovato alcun tentativo di ridimensionare le proprie responsabilità nell’orrore realizzato, bensì un’analisi lucida della deriva in cui lui e i suoi compagni si sono lasciti trascinare».
Come viveva un terrorista delle Brigate Rosse?
«Da quanto ho capito era una vita segnata da una partecipazione emotiva intensissima. Anche perché generalmente si bruciava in fretta. Mario Moretti – il capo delle Brigate Rosse dal 1976 al 1981 – diceva: “La vita media del militante delle B.R. è di tre anni. Poi viene arrestato o ucciso”. Potremmo dire che la sua longevità a piede libero fu l’eccezione che confermava la regola.
Certamente non c’era molta tregua. Ai diversi livelli della catena gerarchica si studiava e si leggeva, si discuteva e si adottavano decisioni, si eseguivano pedinamenti e azioni criminali, si progettavano campagne di lotta armata e si sceglievano obiettivi; e ovviamente si doveva sfuggire alle forze dell’ordine. E in tutto questo, ogni militante a proprio modo, si ritagliava spazi di quella che potremmo chiamare normalità.
Si andava al cinema, si ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto alla radio, ci si innamorava – generalmente tra compagni e compagne – e ci si lasciava. Era una vita complessa, fatta di dissimulazioni (chi entrava in clandestinità rinunciava al proprio nome per assumerne uno di battaglia, per far perdere le proprie tracce) in certi momenti frenetica, adrenalinica, che poteva essere retta solo da giovani. Non dimentichiamo che i brigatisti andavano per lo più dai venti ai trent’anni d’età».
Cosa dovrebbero insegnare ai posteri, secondo lei, le vicende come quella di Taliercio o quella dell’onorevole Aldo Moro?
«Che al potere (quello ammantato di legalità e quello che si presenta con le armi in pugno) fanno paura gli uomini che cercano la mediazione, che cercano di leggere la storia secondo prospettive diverse, che lavorano per disinnescare le conseguenze disastrose dei conflitti e operano perché dalla dialettica degli interessi nasca una mediazione che costruisca il bene comune».
Alla luce dei seguenti disordini sociali, si rischia che il nostro Paese, seppur con le dovute distinzioni, ricada in un «periodo crudele e nefasto, foriero di morte e lacerazioni»?
«Prima ancora degli antagonismi mi preoccupano gli egoismi. La pandemia avrebbe dovuto farci sentire quanto mai interdipendenti, ricordarci come la cura del bene comune debba stare a cuore a ognuno di noi, occupare i nostri pensieri e le nostre azioni. Fuori da questa prospettiva vedo solo un acuirsi delle disuguaglianze, delle ingiustizie, delle paure che possono sfilacciare il tessuto sociale. E riportarci a periodi bui.
Un esempio: secondo i dati del Viminale aggressioni e intimidazioni, fisiche e via internet, nei confronti dei giornalisti da parte di estremisti politici (per lo più di destra) sono quasi triplicate nell’ultimo anno. C’è chi pesca nel torbido e per questo bisogna impegnarsi a mantenere limpida l’acqua in cui nuotiamo. In questo senso si può leggere il mio romanzo: tenere presente la memoria del male che può generare qualsiasi ideologia, strategia o prassi che non abbia a cuore la dignità di ciascuna persona».