«Mai vista così tanta gente, nemmeno negli anni Settanta, nemmeno quando hanno chiuso la Lanerossi» afferma un canuto signore mentre assiste incredulo al fiume umano che gli sfila davanti. Il 16 ottobre scorso migliaia di persone hanno riempito il lungo rettilineo che dalla zona industriale di Schio porta all’ospedale di Santorso, in provincia di Vicenza. Una manifestazione su un tema che tocca tutti, chi più chi meno: la sanità pubblica.
C’erano tantissime persone. Famiglie con il passeggino, anziani, ragazzi: uno spaccato fedele dell’alto vicentino in un corteo composto e rispettoso.
Secondo gli organizzatori ci sono stati diecimila partecipanti che, in un territorio da centottantamila persone e considerando la contemporanea manifestazione della Cgil a Roma, nonché l’attesissimo spettacolo delle frecce tricolori a pochi chilometri di distanza, si traducono in un risultato senza precedenti per un tema che altrove ha un seguito assai più tiepido.
Tra queste migliaia di persone, theWise Magazine ha intercettato e intervistato due elementi d’eccezione: Massimo Cirri, celebre conduttore della trasmissione di Rai Radio2 Caterpillar nonché psicologo nel Servizio Sanitario Nazionale di lungo corso, e Chiara D’Ambros, regista e collaboratrice della trasmissione di giornalismo d’inchiesta della Rai Report.
Prima dei loro preziosi contributi è però necessario fare un passo indietro per comprendere il background di questo «modello antropologico», come l’ha definito Massimo Cirri.
Tutto è nato due anni fa, quando una manifestazione scaturita dal grave stato di difficoltà della sanità nella zona aveva portato in piazza (un po’ a sorpresa) alcune migliaia di persone.
Molti erano i punti critici: liste d’attesa improponibili, anche per le priorità urgenti; deviazione dei pazienti verso il privato non convenzionato, a causa dell’impossibilità di garantire loro tempistiche adeguate; gravissima carenza di personale, con turni massacranti e fuga dei medici verso situazioni meno stressanti; pianificazione errata delle sostituzioni dei pensionamenti (compresi i medici di famiglia); completo abbandono del modello alto vicentino che prevedeva il coinvolgimento del territorio nella gestione, in favore di un modello aziendalistico che taglia completamente il ruolo dei sindaci e accentra tutte le decisioni sui manager apicali.
Il successo dell’iniziativa di due anni fa aveva puntato i riflettori dei media su Santorso. Tanto che da Venezia la giunta regionale di Luca Zaia, attentissima all’immagine viste le elezioni allora imminenti, si era attivata per minimizzare e promettere correttivi.
Appena conclusa la manifestazione le varie decine di sigle degli organizzatori (ma anche molti singoli cittadini e amministratori) sono confluiti nel Comitato Sanità Pubblica Alto Vicentino, mettendo da parte le bandiere per lavorare insieme.
Poi improvvisamente è arrivato il Covid-19 e il fervore si è inevitabilmente raffreddato. Un po’ per la concreta impossibilità di organizzare incontri, un po’ perché l’ordine delle priorità imponeva un rispettoso silenzio.
Sotto traccia però il Comitato ha continuato a lavorare e, soprattutto, a ricostruire i numeri reali della sanità, difficilissimi da reperire in quanto la Regione li rende pubblici con il contagocce: perfino i sindaci e le forze di opposizione faticano a elemosinare qualche dato.
Ora, a due anni dalla prima manifestazione la situazione concreta della sanità veneta, quella che i cittadini toccano con mano (che è cosa ben diversa dai Lea, i livelli essenziali di assistenza, in cui il Veneto primeggia) non sembra migliorata, nonostante le promesse fatte in precedenza.
La scintilla che ha acceso la seconda manifestazione, quella dello scorso 16 ottobre, è scattata a fine agosto. In quel periodo la stampa riportava che la guardia medica di Schio, comune di quasi quarantamila abitanti e centro nevralgico della meccanica vicentina, non sarebbe più stata garantita. A questo si è aggiunta una grave carenza di medici di famiglia – come preventivato dal Comitato due anni prima – che si è tradotta in interi comuni i cui cittadini si sono trovati privi del medico di base da un giorno all’altro, com’è accaduto nella valle dell’Astico.
Considerata anche la situazione precaria del centro di salute mentale – sempre sull’orlo della chiusura, dopo essere già stato chiuso per più di un anno – e constatando l’aumento vertiginoso di accessi alla neuropsichiatria infantile causa Covid-19, con gravi disagi per molte famiglie in situazioni delicate, il Comitato ha ritenuto che la misura fosse nuovamente colma.
Le diecimila persone presenti hanno stupito perfino gli organizzatori.
Dal palco gli interventi non hanno risparmiato critiche, in particolare ai sindaci rei di aver preso le distanze dalla manifestazione (seppur con qualche eccezione). In varie occasioni è stata specificata la natura dell’iniziativa: non “contro” qualcuno ma “per” difendere la sanità pubblica.
Articolati i punti esplicitati dal palco, nello specifico:
Orianna Zaltron, portavoce del Comitato: «Che dire? La manifestazione si commenta da sola, con tutta la gente che è venuta. I problemi che abbiamo portato sono stati tanti, e sono stati colti naturalmente i principali, ma vorrei che si raccogliessero anche quelli del sociosanitario, che sta soffrendo come, e forse più ancora, del sanitario».
Qui di seguito è disponibile per il download il testo integrale del discorso dal palco della manifestazione:
Massimo Cirri e Chiara D’Ambros non sono nuovi nell’alto vicentino.
I due infatti avevano già visitato il Comitato qualche mese dopo la manifestazione del 2019, tanto che quella chiacchierata è entrata nel loro documentario sulla sanità pubblica italiana trasmesso su Raitre e disponibile su RaiPlay, Quello che serve.
«Avevamo fatto con Chiara D’Ambros un documentario sulla sanità pubblica e c’eravamo imbattuti in quello che fanno qui. Sono venuto perché quanto avviene in alto vicentino è un modello politico e antropologico molto interessante, per non dire meraviglioso».
«Non ho un’idea specifica. Mi colpisce il fatto che in tutta Italia capita continuamente ai cittadini di chiamare per un esame o una visita di controllo, e sperimentano una delusione nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale. Quello che sono riusciti a fare qui è unico: hanno trasformato questa delusione in un momento di comunità e questo non è successo da nessun’altra parte. Viviamo anni di sfilacciamento sociale, di solitudine. Il fatto di essere riusciti a fare comunità su un bene primario come la sanità è un modello antropologico da sposare».
«Discorso estremamente complicato, permettimi di farlo quasi per slogan. La sanità lombarda ha una meravigliosa narrazione. Il presidente Formigoni, che è finito condannato per questioni legate alla sanità, ha sempre raccontato che la sanità lombarda è l’eccellenza ospedaliera. Il che è vero, ma solo per i tumori e per le cardiopatie. Questo è stato pagato dalla sanità lombarda drenando una quantità di risorse impressionante in favore del privato, che nel modello lombardo è indiscutibilmente predominante. Che abbia funzionato io ho qualche dubbio».
«Un discreto disastro. Ho lavorato per vent’anni nei centri di salute mentale e l’approccio ospedale-centrico ha distrutto un modello di sanità che era vicino alle persone, che costava meno. E non è quello dell’altissima specializzazione tecnologica, ma quello della prossimità della cura. Interessa soprattutto chi ha una malattia cronica e considerando che abbiamo una popolazione che invecchia abbiamo drammaticamente bisogno di un’efficace medicina di prossimità. Il modello lombardo invece è quello dell’efficienza del privato, dei soldi sulla salute. Io credo che i soldi vengano in secondo piano quando si parla di salute, e mi par di capire che lo pensi anche parecchia gente nell’alto vicentino. Quanto avvenuto qui è un modello antropologico assoluto, sono riusciti a cucire la comunità invece di dire “ognuno per conto suo”».
«Credo che ci sia un’altra questione, che ha a che fare con un pezzetto di autoritarismo che c’è in questo Paese: è difficilissimo per chi lavora nella sanità dire quello che succede. Sembra quasi che ci sia il terrore che se fossero liberi di parlare si interromperebbe la narrazione di efficienza che i politici hanno costruito. Io vengo dal mondo della sinistra e credo che nemmeno la sinistra abbia capito che se in un territorio ci sono delle persone che partecipano è un valore da preservare».
«Eh, il mistero doloroso del Veneto [ride, N.d.R.]… intanto questa cosa l’hanno fatta solo qui però. Non mi risulta che ci siano altrove esperienze così ampie di un pezzo di comunità che riesce a mettere insieme le persone su una questione cruciale come questa. Cosa vuoi, c’hanno fregati tutti…».
«Questa te la devo raccontare, è una mia ossessione. Nel 2018, quando ci sono state le elezioni politiche, c’erano in Italia gli osservatori dell’OSCE. Erano qui per osservare lo svolgimento delle elezioni, lo fanno sempre. C’è stato poi il rapporto finale redatto dalla presidente – una parlamentare svedese – e diceva che le elezioni in Italia si sono svolte in un clima di sostanziale rispetto delle regole democratiche. Ma, poi, nel rapporto ha specificato che durante la campagna elettorale si è parlato esclusivamente dell’immigrazione. Quindi, dice, è stato violato il diritto dei cittadini italiani di parlare delle cose fondamentali di cui si deve discutere quando si vota, come la sanità, o la scuola. Ci siamo fatti fregare parlando per mesi di trecento, quattrocento, mille, ventimila disgraziati che venivano via mare per “invaderci”, salvo che poi volevano quasi tutti andare in Norvegia. E non ci siamo interrogati – noi cittadini, noi comunità – su che tipo di sanità vogliamo, che tipo di mercato del lavoro, che scuola pubblica. Quindi sono grato a voi di Vicenza per quello che state facendo».
«Per essere parte di questa comunità [Chiara è originaria di Recoaro Terme, a pochi chilometri da Schio, N.d.R.] e per testimoniare quello che sta succedendo. Eravamo venuti con Massimo Cirri qualche tempo fa e ci ha colpiti che dopo la pandemia la cittadinanza si è sentita di scendere in piazza nuovamente. Ho girato a Massimo la locandina della manifestazione e lui subito ha detto “andiamo, vediamo cosa sta succedendo”».
«L’hanno dimostrato qui, è una manifestazione “pro” e non “contro”. Secondo me in Italia in generale e in Veneto in particolare c’è poco spazio per il confronto. Tutto viene preso di punta, qualsiasi tentativo di dialogo viene trattato come offensivo. Il punto non è essere contro, ma dialogare. Ognuno ha la sua percezione di cos’è la sanità e ognuno ha diritto di manifestare la sua sofferenza. Quello che per alcuni è un piccolo taglio, se trascurato si infetta e può essere letale».
«Te ne faccio altri. Non è che per manifestare si debbano avere gli scarafaggi in sala operatoria. Quando si parla di salute anche i piccoli disagi possono impattare grandemente nella vita delle persone. Le liste d’attesa troppo lunghe possono fare la differenza tra la vita e la morte: se io non ho i soldi per andare nel privato – quel privato che in Veneto più che altrove sta sostituendo la sanità pubblica – le conseguenze possono essere fatali. A me un laboratorio analisi pubblico, qui in Veneto, ha consigliato di rivolgermi direttamente a un ambulatorio privato. Eppure tanti pensano che in Veneto si difenda la sanità pubblica: la narrazione che viene fatta mi sembra pericolosa, mi sembra quel piccolo taglio di cui parlavamo prima, che se ignorato rischia di infettarsi. Una volta che la sanità viene appaltata al privato e il pubblico smantellato, tornare indietro è difficile se non impossibile. Richiede soldi, tantissimi, soldi che non ci saranno più».
«A tal proposito mi vengono delle domande. Mentre in Lombardia il modello privato è palese, la narrazione veneta è che la difesa della sanità pubblica c’è: perché allora c’è così tanto spazio per il privato? Perché anche durante il Covid-19 sono stati dati così tanti soldi al privato? E ora che arriveranno i soldi del PNRR la cosa diventerà ancora più velata, perché una parte di questi probabilmente verrà davvero data al pubblico, come foglia di fico. Ma quanti ne verranno dati al privato? Guardando a come sono state gestite le risorse fino a prima del Covid-19, la paura che finiscano in mano a un privato vestito da pubblico c’è: il famoso privato convenzionato, alla lombarda. Ma attenzione: il privato convenzionato non è pubblico! Questo è un giochino molto pericoloso».
«Secondo me sì. Le persone che sono qui e che abbiamo conosciuto sono molto consapevoli, molto informate: è una cosa che colpisce. Credo che non sarà l’ultima manifestazione se le cose non cambiano, questo è il messaggio. Non siamo qui a dire “siamo contro”. Siamo qui perché abbiamo delle idee, perché abbiamo delle proposte, perché vogliamo che le “loro” proposte vengano discusse nel territorio. Non è una manifestazione passeggera, è dire: “Io sono un interlocutore, mi ascolti?”. Questa è una buona base. In molti territori c’è menefreghismo, non c’è questa partecipazione. Qui invece hanno partecipato tutti: giovani, anziani, famiglie. Colpisce, e credo che sia una controparte che non si può ignorare».
La palla ora passa ai decisori.
Usando le parole di Chiara, «non sarà l’ultima manifestazione, se le cose non cambiano». La situazione nell’alto vicentino è grave ma altrove non è che le cose vadano molto meglio: il Comitato Sanità Pubblica Alto Vicentino non è affatto solo. Molti altri comitati sono nati in tutto il Veneto e si sono coordinati nel CoVeSaP, il Coordinamento Veneto Sanità Pubblica.
Se chi ha il potere di decidere non si attiva, il rischio è di vedere iniziative di questo genere sempre più spesso e sempre più diffuse.
La strigliata è rivolta anche al governo attuale e a quelli passati. La sanità è stata fin troppo sforbiciata, il tutto mentre altre sacche di spreco di denaro pubblico (e di clientelismo) sono state apertamente tollerate per decenni.
La gestione della sanità è comunque un tema prettamente regionale, tanto da occuparne l’ottanta percento del budget. Immediatamente dopo la manifestazione del 2019 la Regione e Luca Zaia erano intervenuti con lavate di capo ai manager locali, minimizzando la situazione sulla stampa dato che le elezioni regionali erano di lì a pochi mesi (per poi slittare a settembre 2020 causa Covid-19).
Forse sarebbe tornata loro utile un pizzico di saggezza veneta: come si dice da queste parti, «el pesse spussa sempre dała testa», il pesce puzza sempre dalla testa. Non c’è bisogno di capri espiatori: se un’organizzazione fallisce la responsabilità ultima è del vertice e di nessun altro.
Questa volta, invece, in mancanza di scadenze elettorali la Regione Veneto si è trincerata dietro un indifferente no comment, come se la manifestazione non fosse mai avvenuta.
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