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Digital storytelling: progettare storie interattive

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Federica Baldi

Che siano utilizzate a scopo didattico nell’insegnamento o come mezzo d’intrattenimento tra le mura domestiche, che siano utilizzate con avvedutezza o con ingenua imprudenza, una cosa è certa: le nuove tecnologie articolano l’educare anche all’interno delle scuole e, se integrate con altre attività e sottoposte a uso critico, possono divenire una risorsa nell’ambito della formazione. Inserire l’arte del digital storytelling a scuola significa accettare e sfruttare il potere che le tecnologie digitali detengono e ricercare uno spazio, adeguatamente predisposto e pensato, nel quale possano tradursi in interventi a sostegno del processo educativo.

In questo modo, brevi video, che incorporano immagini, suoni, musica e parole per raccontare una narrazione, diventano lo strumento in grado di facilitare l’apprendimento meccanico e significativo – di costruzione ed espressione di significati – dei contenuti degli studenti. Ma non si tratta solo di apprendimento: il carattere fabulatorio delle narrazioni e l’ampia gamma di stimoli proveniente dall’elevata densità informativa, oltre a facilitare la memorizzazione cognitiva dei racconti e veicolare messaggi d’effetto, rafforza il grado di coinvolgimento dello studente e, con esso, anche che le variabili motivazionali e dell’impegno.

Foto: Pixabay.

Un passo indietro

Ma quali sono i collegamenti possibili tra lo storytelling e i primordi della civiltà? E come è possibile che le narrazioni digitali affondino le proprie radici in un’epoca così lontana dalla nostra?

La risposta è da ricercarsi nella necessità da parte della popolazione, sin dalla preistoria, di “educare” e “ propagare”. Non solo: di spiegare i fenomeni naturali e storici, di condividere vicissitudini, garantire intrattenimento e fissare i valori sul piano religioso e sociale. Basti pensare alle pitture rupestri, di forte connotazione magica, al ruolo degli aedi in Grecia, cantori per eccellenza delle storie di eroi, alle civiltà antiche greche e mesopotamiche che basavano l’intero processo educativo sulla narrazione.

Il digital storytelling è quindi l’evoluzione moderna e contemporanea di una forma primordiale di comunicare, condividere, fare educazione, che ha trovato, nell’antica Grecia, un portavoce: Platone. Il filosofo ha scardinato gli argini del racconto ordinario e gli ha conferito una funzione aggiuntiva, ovvero costruire significati e trasmetterli, come dimostrato dai suoi miti.

I miti platonici dell’antica Grecia potrebbero quindi considerarsi una forma antica di storytelling, che cela un significato, una morale, un insegnamento preciso che vuole essere comunicato, esattamente come al giorno d’oggi vuole essere comunicato un messaggio o un concetto didattico all’interno delle scuole.

La dipendenza dell’uomo dalle storie

Una delle ragioni per cui il digital storytelling dovrebbe continuare a farsi strada nella società e radicarsi in più ambiti possibili, è quella secondo cui l’innumerevole quantità di informazioni e stimoli sensoriali a cui siamo esposti quotidianamente, ci fa perdere di vista il focus e ci disorienta rispetto al nostro target. Vincere la battaglia dell’attenzione del pubblico, in questo caso l’attenzione del corpo studentesco, significa fare leva sulla dipendenza dell’individuo dalle storie e su come le storie hanno reso umani gli uomini.

Jonathan Gottschall, nel suo libro intitolato L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani (2018), offre un ventaglio di punti di vista che oscillano dalla biologia alle neuroscienze, utili a comprendere il retaggio culturale delle narrazioni. Quante volte una proiezione fantastica della realtà, rischiosa e impossibile da riprodurre, risulta invece educativa ed efficace nella vita reale? Quante volte gli insegnamenti e i principi morali estrapolati da narrazioni fantastiche possono essere tradotti in azioni appropriate alle nostre situazioni di vita quotidiana?

I racconti e le storie rappresentano una sorta di microcosmo, una “palestra” semplificata di vita, che attivano i nostri neuroni specchio e ci fanno provare empatia verso i protagonisti, a tal punto da immergerci nella loro condizione e farcene carico come se ci appartenesse realmente. Abbassiamo così le nostre difese ed eliminiamo quel filtro che ci renderebbe semplici critici intellettuali dell’opera letteraria.

Inoltre, tanto nel bambino quanto nell’adulto, anche il sogno rappresenta una storia. Quest’ultima passa da una prima fase meramente immaginativa a una fase verbale, nel momento in cui viene tradotta dal nostro lessico. Questo processo non si arresta nemmeno durante le ore di veglia, un terzo della quale è occupata dallo sviluppo di fantasie, dimostrando che quando siamo sovrappensiero e non ci troviamo  concentrati in una mansione specifica, la mente inevitabilmente esplora mondi immaginari.

Foto: Pixabay.

Fare digital storytelling è facile?

Nonostante i nativi digitali siano immersi nel mondo delle tecnologie, possono capitare casistiche in cui lo studente non sia in possesso di competenze informatiche tali da consentirgli un utilizzo fluido delle attrezzature, di base, difficili da maneggiare nelle loro opzioni più specifiche. Fare digital storytelling non è facile. Esso intende simulare una situazione immaginaria.

Non si tratta solamente di narrare, ma di creare un vero e proprio supporto narrativo in maniera simile al design di esperienze. Per storytelling si intende infatti una forma di didattica attiva basata sulla narrazione che diviene digital nel momento in cui si fa utilizzo delle tecnologie come computer e supporti multimediali.

In generale, la difficoltà non deriva solamente dai dispositivi e dalle loro funzioni, ma anche dai passaggi da rispettare, che esordiscono dalla definizione di un’idea iniziale per mezzo di una descrizione, e culminano nella raccolta e analisi dei feedback ottenuti.

L’importanza dei materiali e i tempi che scandiscono la pratica, non sono da sottovalutare: il contesto in cui si svolge questo tipo di attività, così come i materiali che ne fanno parte, dovrebbero supportare l’esplorazione e la sperimentazione e i tempi dovrebbero garantire la continuità delle esperienze proposte concedendo il tempo necessario alla riflessione. Questo permetterà ai bambini di sedimentare le idee, ripensare e rivedere le storie in itinere. 

L’adulto durante la progettazione non sarà una figura marginale ma dovrà, mostrando al parlante attenzione, rispetto e ascolto attivo, scrivere esattamente la storia del bambino, parola per parola, e successivamente leggerla in modo che il bambino possa fare modifiche in qualsiasi momento. La versione finale della storia verrà poi mostrata al pubblico.

Il clima di accettazione e fiducia che verrà a crearsi incoraggerà il parlante a continuare il proprio discorso diventando al contempo più disposto ad ascoltare il discorso degli altri e a cambiare la propria opinione.

Leggi anche: Giuseppe Turchi: coltivare relazioni positive.

Digital storytelling come nuova frontiera educativa

Il digital storytelling potenzialmente potrebbe divenire un valido strumento di insegnamento per l’educazione della prima infanzia, così come di ogni grado scolastico. Utilizzare questo metodo nella didattica significa affiancare all’acquisizione delle competenze tradizionali di scrittura e narrazione, quelle competenze creative e digitali che rendono possibile lo sviluppo di progetti.

La speranza è che una volta sperimentato il metodo e approfittato dei suoi benefici, gli insegnanti lo trasmettano e lo ripropongano alle famiglie affinché anche loro possano godere dei suoi vantaggi, stimolatori a un utilizzo più cosciente della tecnologia. Quindi perché non integrare le narrazioni digitali alle forme tradizionali d’insegnamento se possono tradursi in un valore aggiunto alla comunicazione, alla condivisione di valori e alla costruzione di un percorso educativo più completo?

«Le storie sono il collante della vita sociale umana, definiscono i gruppi e li tengono saldamente uniti. Viviamo nell’isola che non c’è perché non possiamo farne a meno. Siamo l’animale che racconta storie». (Jonathan Gottschall, 2018).                         

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Federica Baldi

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