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Famiglia come sistema educativo: intervista ad Alessandro D’Antone

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Marco Capriglio

Negli ultimi tempi, la famiglia come sistema educativo è stata messa al centro della riflessione pedagogica, in termini di co-progettazione verso il cambiamento. Ne abbiamo parlato con il dottor Alessandro D’Antone, ricercatore in Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.

Da dove nasce l’interesse pedagogico verso la famiglia?

«L’interesse verso la famiglia è un interesse prima di tutto pratico, poiché rappresenta un’urgenza nella contemporaneità. Essa esprime bisogni ed esigenze che vengono intercettati soprattutto sotto il profilo assistenziale e della tutela, raramente sotto quello educativo. Troppo spesso si pensa alla famiglia come a un modello astratto e idealizzato, che deve rispondere a certi canoni a cui tutta la società dovrebbe conformarsi per poter funzionare bene.

Sul piano dei servizi educativi, ho visto una molteplicità di famiglie che non corrisponde a un modello univoco. Esistono tanti possibili percorsi in cui le famiglie si producono. Un pedagogista dovrebbe conoscere e comprendere questa molteplicità, piuttosto che giudicarla e valutarla. L’obiettivo è sapersi approcciare ai setting che ci sono in quella famiglia per potersi inserire, con grande rispetto, e co-progettare percorsi nuovi di evoluzione e cambiamento.

È un rapporto centrale, perché la pedagogia si occupa della vita di tutti i giorni. Se non lo facesse, sarebbe solo speculazione. La mia idea di educatore è quella di una figura che conosce ma anche che co-progetta con l’utenza il cambiamento. La vita in famiglia è la prima esperienza sociale che noi viviamo e da lì dobbiamo partire. La famiglia come sistema educativo è tale perché esprime effetti educativi, sia visibili che latenti.

Alessandro D’Antone.

Qual è il rapporto tra pedagogia famiglia come sistema educativo?

«Essa è sempre stata considerata come un “affare privato” e in larga parte è ancora ritenuta come tale. In tempi relativamente recenti si è pensato anche alla famiglia come oggetto di studio e di intervento da parte del sociale. Laddove la famiglia mostri difficoltà, un professionista può accostarsi senza alcuna vergogna per proporre un piano di intervento per e con la famiglia stessa».

Come ha influito la pandemia sulla famiglia come sistema educativo?

«Esistono ricerche sull’argomento e queste esperienze mi hanno fatto pensare al rapporto tra famiglia e pandemia in modo ambivalente. Molte famiglie hanno giovato in qualche modo dall’emergenza sanitaria. Parlo di famiglie “solide”, con spazi adeguati in casa e con una situazione economica stabile. Durante la pandemia questi nuclei famigliari hanno curato meglio le loro relazioni intra-famigliari e i membri hanno potuto lavorare su loro stessi. Addirittura, in casi di ragazzi che avevano presentato abbandono o ritiro scolastico, la didattica a distanza ha messo tutti nella stessa condizione, cioè quella di non poter frequentare la scuola. Si sono trovate allora strategie nuove per poter favorire tutti allo stesso modo.

Necessariamente, però, le famiglie che hanno sofferto di più sono state quelle che già da prima si presentavano come più fragili. Mantenere, dove possibile, un legame con la figura educativa è stato fondamentale, dato che spesso queste famiglie, anche prima dell’emergenza, sperimentavano spesso situazioni di discontinuità e abbandono.

La pandemia ha influito anche sul lavoro degli operatori a contatto con le famiglie. Gli spazi sono stati completamente alterati, poiché era impossibile creare uno spazio fisico d’incontro dove poter fare attività. Sul piano del tempo, invece, gli educatori spesso si sono trovati a essere reperibili ventiquattr’ore su ventiquattro e i tempi di lavoro si sono dilatati, a causa dello smart working. Altre modalità, come gli incontri protetti o lo spazio neutro, hanno subito alcune necessarie modifiche».

Leggi anche: Giuseppe Rambaldo: educatori, educazione, pedagogia e comunità.

Nella sua attività di educatore e ricercatore ha lavorato nello spazio neutro. Può spiegare ai nostri lettori di cosa si tratta?

«Lo spazio neutro è un servizio che tendenzialmente viene visto come deputato a garantire il diritto di visita e di relazione tra uno o più minori e le figure adulte che non hanno la responsabilità genitoriale, per esempio dopo una separazione conflittuale.

È un servizio di incontri protetti e vigilati in cui gli adulti sono presidiati da una figura educativa che ha la funzione di tutelare questo incontro: da non dimenticare che lo spazio neutro è attivato da un atto giudiziario. Così descritto sembra un servizio puramente assistenziale: è mia opinione che sul piano pratico questo debba essere anche un servizio di carattere educativo. Proprio nella misura in cui si organizzano incontri tra adulti e minori, non solo si garantisce l’esercizio dei diritti di ciascuno ma si sta anche curando la relazione che intercorre fra le persone coinvolte. Il lavoro educativo è sia a sostegno della famiglia come sistema educativo, sia verso la figura che coabita con il minore, sia verso quella che incontra il minore nello spazio neutro.

Questa realtà è pedagogicamente rilevante perché permette di scindere il legame tra i partner dal legame genitoriale. Scinde quindi il legame orizzontale da quello verticale. E non lo sovrappone. Lo spazio neutro è come se dicesse, citando un caso astratto: “Anche se il papà non vive più con noi, lo puoi incontrare e continuare a curare con lui una parte importante della tua educazione e della tua vita”. Questo impone, come già detto, di pensare il servizio prima di tutto come educativo, piuttosto che assistenziale».

Foto: Pixabay.

Quali sono le sfide che la pandemia ha messo di fronte alla pedagogia?

«La sfida della pedagogia nei confronti della famiglia come sistema educativo è già molto gravosa, anche senza la pandemia! Lo sguardo sulla famiglia è uno sguardo complesso: ciascuna famiglia è unica e irriducibile ad un modello standardizzato. Conflitti, problematicità irrisolte o questioni evolutive rendono il lavoro con le famiglie di per sé molto articolato.

Rispetto al post-pandemia, credo si debba ridefinire il rapporto tra continuità e discontinuità nei progetti educativi. L’emergenza sanitaria ha posto un limite a questi, depotenziandoli e rendendoli spesso discontinui. La necessità era, è e sarà creare una situazione di ancoraggio e di stabilità per le famiglie che attraversano situazioni di vita problematiche. Nel momento in cui l’intervento tornerà lentamente ad essere attuato in maniera “normale”, come è sempre stato, la sfida vera sarà capire dove un intervento possa e debba essere presidiato e co-progettato con la famiglia stessa e dove invece occorra pensare a un distacco della figura educativa, anche, perché no, al fine di aprire nuovi scenari e nuove possibilità evolutive. L’idea è ridefinire quello che c’era prima, alla luce di quello che c’è stato nel frattempo».

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