Immaginate di avere da anni casa e negozio di famiglia a Palermo, a due passi dal Parco della Favorita, ma che un giorno un costruttore in odore di mafia compri tutti i terreni intorno a voi per costruire. Immaginate poi che, corrompendo l’assessore, il costruttore faccia passare in Comune per suo anche il vostro terreno. E poi che inizi un valzer quotidiano di pressioni, intimidazioni, occupazioni, minacce. Tutto per far abbattere la casa e placare la sua sete edilizia.
Ora, però, scegliete di non cedere. Rifiutate tutti i soldi offerti, e gli appartamenti “in cambio” per sloggiare da lì. Resistete alle minacce. Alle intimidazioni. Al silenzio generale dei vicini. Delle istituzioni. E rilanciate con esposti, denunce a raffica in tribunale, più interviste sui giornali e televisioni nazionali mentre venite circondati tutto intorno da un casermone alto nove piani che non rispetta le distanze previste dalla legge.
Immaginate però che le denunce cadano nel vuoto, e il vostro negozio pian piano si svuoti. E vi indebitiate. Pesantemente. Anche con gli avvocati che sono pagati per dimostrare ciò che è autoevidente.
Immaginate, infine, che quando, trent’anni dopo, lo Stato finalmente vi riconosce vittime di mafia, non potete riscuotere settecentottantamila euro di risarcimento che vi spettano perché nel frattempo al costruttore, condannato per associazione mafiosa, è stato pignorato tutto. Anche se la sua società continua a vendere gli appartamenti a prezzi da saldo. Finito qua? Macchè! Ora dovete pagare il tre per cento di questi soldi che non avete mai avuto all’Agenzia delle entrate. Più tutti gli avvocati. Mentre la casa, danneggiata dalle ruspe, è irrimediabilmente pericolante e danneggiata.
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Questa storia non è un incubo. Ma ciò che è successo veramente alle sorelle Maria Rosaria e Savina Pilliu e che Pif e Marco Lillo hanno portato alla ribalta nel caso editoriale dell’anno: Io posso. Due donne sole contro la mafia (Feltrinelli, 2021, pp. 151).
Una storia-simbolo perché indirettamente si offre un breviario di cultura mafiosa e di storia edilizia del dopoguerra italiano: c’è un imprenditore (Pietro Lo Sicco) che, coperto da politici, mafiosi e avvocati di prim’ordine, si crea illegalmente un impero del mattone; c’è un quartiere, anzi una città che lo vede, lo sa, e si gira dall’altra parte; c’è uno Stato che «si costerna, si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità». Nel mezzo ci sono le vittime che, per riottenere dopo trent’anni ciò che gli spetta di diritto, dovranno pagare all’Erario un “pizzo” sul risarcimento che quello Stato che doveva e non li ha protetti, non gli può dare.
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Oltre a ciò, nella costruzione di un palazzo diventato pure un albergo a ore per i mafiosi (come Giovanni Brusca) proprio all’alba della stagione stragista, si può intravedere tra le maglie di questa storia il genocidio ambientale causato dalla febbre edilizia da boom economico. C’è di più: come ad esempio i vari condoni edilizi dei governi Berlusconi che spuntano magicamente per far diventare in un amen legale l’illegale; e c’è un magistrato, Paolo Borsellino, l’unico probo rappresentante dello Stato che si interessa al dramma delle sorelle, ammazzato prima di poter fare alcunché.
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Il valore del libro, però, non sta solo nel denunciare una storia di soprusi dal finale ancora aperto, ma nel proporsi coraggiosamente come medium di ribellione civile e di solidarietà verso le vittime. I due autori, infatti, hanno rinunciato ai tutti i compensi per ripagare la cartella esattoriale chiesta alla famiglia Pilliu. E per ricostruire, finalmente, le loro casette a Piazza dei Leoni. Per mostrare in altre parole che dove prima la mafia diceva «io posso», ora lo dice chi non aveva voce. Con la voce di tutti.
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