Nel mondo della finanza quando ci si trova davanti a una crescita che cammina su presupposti artificiosi la si definisce “bolla”. Tutto va bene finché tutti si fidano e agli speculatori poco importa se la domanda che sostiene questa crescita sia vera o farlocca: si spazza la polvere sotto al tappeto e si va avanti felici di godere di facili guadagni.
Ma la bambagia non dura per sempre e prima o poi la bolla scoppia. Quando? Difficile prevederlo.
C’è un momento, poco prima che la tensione superficiale ceda del tutto, in cui la pressione è troppa eppure la superficie sembra ancora reggere. Un delicato equilibrio, ma è un’illusione prima che avvenga l’irreparabile, è solo questione di tempo. Eppure, da quel singolo fotogramma non è semplice dire a priori se la bolla riuscirà davvero a resistere ancora oppure no.
È quello che sta avvenendo in Cina.
Per anni il mercato immobiliare cinese è cresciuto a ritmi elevatissimi. L’offerta immobiliare si appoggiava a una domanda artificiale, pompata dallo Stato. Per un po’ ha funzionato ma, come per tutte le bolle, basta che cada la prima tessera del domino per farle cadere tutte. theWise Magazine trattò l’argomento lo scorso aprile con un approfondimento dedicato.
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Nel caso della Cina i segnali erano chiari da anni ed era fisiologico che, a un certo punto, qualcuno cominciasse a porre seri dubbi sulla sostenibilità economica degli enormi prestiti concessi al mercato immobiliare cinese.
Intere città fantasma sono state costruite per abitanti mai nati, falcidiati dalla denatalità causata prima dalla politica del figlio unico e poi dal diffondersi di un maggior benessere. E, come accade spesso, a maggior benessere corrispondono meno figli, a meno figli meno cittadini e a meno cittadini meno acquirenti.
Il grande malato si chiama Evergrande, ovvero il secondo gruppo immobiliare cinese per grandezza.
Da tempo Evergrande faticava a essere puntuale nel pagamento dei propri, mastodontici, debiti. Finché nello scorso novembre ha saltato il rimborso di alcune scadenze, e in conseguenza di ciò la società di rating Fitch ne ha abbassato la valutazione a restricted default, ovvero appena un gradino sopra il default.
Questo espone l’intero mercato cinese a grandi rischi, e non solo. Vari investitori stranieri – come ad esempio i grandi fondi pensionistici occidentali – si sono alquanto esposti in Cina.
La prossima pandemia in arrivo da oriente sarà quindi finanziaria?
Per decifrare la situazione attuale e valutare le ricadute future, theWise Magazine ha raggiunto la professoressa Alessia Amighini, considerata tra i migliori esperti italiani quando si parla di economia e Cina.
Alessia Amighini è ricercatrice e Professore di economia internazionale presso l’Università del Piemonte Orientale e fa parte del China Management Lab dell’Università Bocconi di Milano. Presso ISPI ricopre il ruolo di Associate Senior Research Fellow e di Co-head dell’Asia Centre. E’ stata visiting scholar presso il Department of International Business and Economics dell’Universita’ di Greenwich ed economista presso la United Nations Conference on Trade and Development.
È anche un’autrice prolifica, sia di pubblicazioni accademiche che di libri come La Cina nel XXI secolo, Xi Jinping’s Policy Gambles: The Bumpy Road Ahead e L’economia della Cina.
«Il settore delle costruzioni è stato protagonista della crescita cinese a partire dal 2009. In quel periodo, le conseguenze economiche della grande crisi finanziaria avevano ridotto le esportazioni cinesi e, per sostenere l’economia, il governo ha iniziato a finanziare generosamente il settore immobiliare, con montagne di credito facile (senza una seria valutazione della profittabilità dei progetti di investimento e quindi delle prospettive di rientro) e a basso costo (cioè tassi di interesse favorevoli). Così l’immobiliare è diventato da allora il settore che ha mantenuto in piedi l’economia cinese. Fino al 2014, il puntello ha funzionato bene: con le politiche di urbanizzazione e inurbamento all’apice dell’agenda politica di Xi, la domanda di nuove abitazioni e infrastrutture è cresciuta a ritmi elevati, ma già dalla fine del 2014, la domanda di nuovi terreni edificabili ha rallentato. E così da quel momento il governo si è ritrovato a dover o voler continuare a finanziare un settore già in serie condizioni di illiquidità. La stessa Evergrande ha problemi di cassa almeno dal 2017, risolti (o nascosti) con ulteriori aperture di credito presso banche pubbliche, affiancate da attività di crowfunding presso i dipendenti (illusi di ricevere il 25% sul capitale prestato). Fino ad oggi è stato un continuo accumulo di crediti immeritati e quindi inesigibili nelle pance delle banche. Il disastro è da tempo scritto nei numeri, è solo stato posticipato nell’illusione che i nodi si sciogliessero in qualche modo senza mai venire al pettine. Oggi siamo arrivati al punto in cui questo castello di carte non sta più in piedi».
«Al momento sembrano poco probabili tutti gli scenari prospettati dalla stampa, che spaziano da un salvataggio da parte del governo all’opzione di un default. Un salvataggio volto a evitare di mettere a repentaglio le banche creditrici, tutte di Stato, è l’ultima cosa che Pechino ha detto di voler fare, sia per il costo dell’operazione, sia per il messaggio che arriverebbe a tutto il settore delle costruzioni (in una situazione non molto diversa da quella di Evergrande). D’altra parte, il fallimento di un gruppo così grande trascinerebbe con sé non solo i fornitori e i cittadini che vantano crediti, ma l’intero settore, dal momento che la fiducia e quindi la domanda di abitazioni crollerebbe. Non solo, ma l’attività di costruzione genera anche una grossa fetta di entrate fiscali (per i governi locali, e dal 2020 soprattutto per il governo centrale), con oltre 8400 miliardi di RMB nel 2020 (oltre 1100 miliardi di euro). Se nel 2019 la composizione del gettito vedeva le tasse sulla terra a circa il 28%, nel 2020 la riduzione delle entrate fiscali sulla compravendita di beni e servizi ha portato questa percentuale a oltre il cinquanta per cento, secondo i dati di Nikkei Asia.
Lasciar fallire CEG [China Evergrande Group, N.d.R] non è quindi un’opzione per Pechino, ma salvarla neppure, anzi semmai la scelta potrà essere guidata dalla necessità di far pagare un prezzo alto agli investitori privati ed esteri, a mo’ di punizione per avere speculato in un settore centrale nella politica di sviluppo interno del Paese. La via di uscita probabilmente sarà uno scorporo delle attività del gruppo tra varie imprese di Stato, una sorta di nazionalizzazione, per diluirne il peso. Tuttavia, non vi è vera soluzione ai problemi di cassa e di struttura finanziaria di tutto un settore che è servito dal 2009 a sostenere tutta l’economia cinese. Dunque, anche se oggi non si pone il problema di un contagio diretto, l’effetto indiretto sarà indubbiamente molto negativo sul ritmo e sulla qualità della crescita cinese, e da lì ne risentiranno tutti i Paesi e i mercati del mondo».
«Sul fronte finanziario, più che un problema di contagio vero e proprio, si assisterà a un contraccolpo forte sull’economia cinese. I maggiori investitori di Evergrande sono cinesi, i milioni di creditori (i fornitori che aspettano di essere pagati da anni) sono cinesi, e cinesi sono coloro che hanno già pagata la propria casa e aspettano la consegna. Pechino non ha alcuna voglia di salvare Evergrande, non solo per il costo spropositato, ma soprattutto per il disinteresse a porre il profitto privato davanti al bene pubblico. Anzi, potrebbe scaricare sulla società tutta la responsabilità del tracollo, per punire simbolicamente chi specula sulle case dei cittadini cinesi. E così facendo si salverebbe la reputazione. E questo ci porta alla riflessione politica.
La nuova Cina di Xi purtroppo assomiglia sempre di più a quella vecchia. Molte nuove città, nuovi roboanti aeroporti e tecnologie digitali di frontiera non bastano a modernizzare un Paese. Se il sistema economico è ancora gestito come in passato, i problemi saranno sempre gli stessi: eccesso di investimenti poco redditizi, sovraesposizione creditizia, necessità di intervento pubblico per risanare a piè di lista. Purtroppo oggi se ne aggiunge uno nuovo: se il settore immobiliare frena, si porta dietro otto/diecimila miliardi di renminbi di gettito fiscale, derivante dalle tasse sulle vendite/concessioni dei terreni.
Nel 2020, per le province cinesi i proventi dalla vendita di terreni sono state equivalenti a più della metà delle entrate fiscali complessive del Paese. Secondo Nikkei Asia, i comuni cinesi spesso vendono terreni ai costruttori di condomini e raccolgono cinque tasse relative ai beni immobili. Le entrate di queste cinque tasse sono quadruplicate nel corso del decennio fino al 2019 e sono arrivate al 25 per cento delle entrate dei governi locali. Al di là del problema del settore immobiliare, quindi, il tema è tutto politico: il governo ha sempre una visione vetusta del sistema economico, come di un ingranaggio da manovrare a proprio piacimento, negandone la vera funzione economica, cioè quella di segnalare e premiare le attività veramente profittevoli. E invece la modalità di produrre crescita economica è sempre quella di rendere surrettiziamente profittevoli attività economiche supportate dal credito di Stato».
«Il caso di CEG esemplifica la condizione in cui si trova una buona fetta dell’economia cinese. CEG è una società di investimento immobiliare, che opera nello sviluppo immobiliare, negli investimenti immobiliari, nella gestione degli immobili e nella costruzione di immobili. Ha anche attività nel comparto alberghiero, nel settore finanziario, in quello digitale e sanitario. CEG ha progetti in città di primo e secondo livello, tra cui Pechino, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen. CEG ha sede a Shenzhen, nel Guangdong, e opera a Hong Kong e nelle Isole Vergini Britanniche. Se CEG o una delle altre grandi società che operano nel settore immobiliare saltasse, la reazione a monte sui fornitori e a valle sugli acquirenti sarebbe enorme e incontrollabile. Perciò le autorità cinesi cercano di evitare soluzioni drastiche. Il contraccolpo sui mercati internazionali sarebbe soprattutto indiretto: una grande sfiducia si diffonderebbe sulle sorti dell’economia cinese e di conseguenza sulle prospettive di crescita per l’economia mondiale. Ma dobbiamo ricordare che i poli di crescita mondiale oggi sono tre. Stati Uniti e UE con i piani per la ripresa dalla pandemia sono ormai poli di attività economica e innovazione con un motore meno dipendente dalla locomotiva cinese».
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