Parlateci, vi prego, dei disabili “normali”. Quelli che non hanno bisogno di sfoderare super poteri (supervista, superudito, come nel caso della nuovissima fiction Blanca, e quant’altro) per guadagnarsi un posto accanto agli attori “abili” al cinema e in tv.
Fateci caso. In quasi ogni film o serie tv in cui un disabile è protagonista (o almeno comprimario) la sua disabilità deve essere per forza compensata da un’abilità speciale, unica e quasi paranormale. Blanca, per restare sull’attualità, non ci vede ma ha una sorta di super udito, che la rende una super detective. Come analizzato superbamente su L’Espresso da Beatrice Dondi, il suo posto nel mondo, e nel mondo del lavoro (un lavoro tendenzialmente maschile, tra l’altro: viene da chiedersi quale sia la reale disabilità di Blanca, la vista o il sesso?), si ritaglia a colpi di straordinarietà e non grazie alle doti (forse troppo umane) del personaggio.
Pare quasi che, senza la sua abilità speciale, un disabile non abbia il diritto di venire rappresentato sullo schermo senza una narrazione che non sia, alternativamente, lacrimevole o supereroistica. Il superpotere del disabile serve a portarlo al livello degli “abili”, a renderlo accettabile per chi vede: chi vuol vedere un cieco che non sa fare niente? Facciamogli sviluppare un superudito, magari non alla Daredevil, ma quel tanto che basta per rendere sopportabile al pubblico abilista la mancanza di “qualcosa”.
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La disabilità al cinema e in tv è sempre stata rappresentata come una sorta di colpa da espiare, attraverso la compensazione con doti straordinarie. Da Forrest Gump, che compensa la disabilità fisica e intellettiva con l’incredibile capacità di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto, ritagliandosi un posto nella storia, all’innumerevole quantità di pellicole che sposano il rosa dei film romantici con l’azzurro del contrassegno per i disabili.
In questi film le persone con disabilità, se sprovviste di qualità superumane, sono comunque dotate di fama, bellezza e soldi. Pensiamo a film come Io prima di te, in cui uno scultoreo Sam Clafin interpreta un tetraplegico milionario che vuole a tutti i costi morire, dissuaso da una badante che si veste malissimo (Emilia Clarke che, spoiler, non ci riuscirà).
Il personaggio disabile viene costruito come una sorta di angelo caduto, che conserva però avvenenza, fascino e naturalmente patrimonio, in modo da giustificare la storia d’amore.
Non sia mai che un disabile brutto, stronzo quanto basta e con un conto in banca modesto, scopi.
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In generale, la persona con disabilità viene sempre dipinta come “il buono”: colui che ha sempre ragione, il personaggio verso il quale nutrire unicamente sentimenti positivi, perché odiare un disabile “fa brutto”. Con pochissime, e azzeccate, eccezioni: pensiamo a Quasi amici, in cui uno scatenato Omar Sy punzecchia, tiranneggia e prende in giro pesantemente Francois Cluzet, tetraplegico dotato di una straordinaria autoironia.
Anche nel caso di Joker la rappresentazione della persona con disabilità non scende nel pietismo ma rimane in bilico tra naturale empatia e giusta distanza. Arthur Fleck, prima di diventare Joker, è una persona disturbata, affetta da disturbi mentali e da una rara condizione neurologica che lo rende un appestato sociale. Nemmeno in questo caso la persona disabile viene presentata come “normale”, ma non è questo lo scopo del film, che è comunque un prodotto dell’universo DC.
Nella sua anormalità declinata stavolta al negativo, Joker non ne esce comunque come un super ma come una persona qualunque, fragile, che lotta per sopravvivere e che non ha altra arma per affermarsi che ricorrere alla violenza.
Anche quando si tratta di storie vere, come nel caso de La teoria del tutto, non si riesce a non pensare a come la patina zuccherosa che aleggia sulla rappresentazione della vita di Stephen Hawking serva a sottolineare: «Vedi? La sua disabilità non gli ha impedito di essere un genio». Come se un disabile, per giustificare la sua esistenza, dovesse per forza rendersi protagonista di imprese straordinarie.
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Forse proprio a questa rappresentazione dei disabili al cinema e in tv dobbiamo la stucchevole narrazione dei disabili come “persone speciali”, quando non l’insopportabile espressione “diversamente abili”. Come se non camminare, non vedere, non sentire o avere disturbi mentali non fosse accettabile e dovesse per forza essere compensato con l’avverbio diversamente.
«Non è che non puoi camminare, lo fai diversamente».
«No, cazzo. Mi sposto in sedia a rotelle proprio perché non posso camminare».
«Ma dire che non puoi fare qualcosa ti discrimina».
«La vita mi ha discriminato quando mi sono ammalato. Che non cammini è un dato di fatto: vogliamo fingere che esistano altri modi di camminare? Non è discriminatorio dire che non cammino, o chiamarmi disabile: lo è molto di più chiamarmi “diversamente abile”, fingere che possa camminare e poi non costruire le rampe per le carrozzine!».
(Tratto da un dialogo ascoltato in un reparto di Neurologia).
Perciò, vi prego, da persona disabile vi chiedo: fateci vedere storie credibili di disabili normali. Normodotati nella loro disabilità, stronzi, avari, bruttini, magari anche di centrodestra o razzisti. Non facciamo finta che non esista una disabilità “normale”, vera, che non ha bisogno della straordinarietà per essere degna di venire rappresentata in prima serata.