Da quattro anni Beatrice passa le sue giornate ad accudire Livio, il marito malato di Alzheimer. Da quando lui non la riconosce più, però, lei è combattuta tra lo stargli vicino e il gettare la spugna e rifarsi una vita. Finché memoria non vi separi è il primo romanzo di Alessandro Aino, edito da Scatole Parlanti nel 2021.
Oggi theWise Magazine ha incontrato l’autore.
Perché hai deciso di trattare questo tema?
«Devo partire dal dire che non ho vissuto in prima persona i drammi legati all’Alzheimer – anche se, come succede purtroppo a un po’ di persone, in maniera indiretta è qualcosa che mi ha riguardato.
Tuttavia il tema dei ricordi – soprattutto del perdere i ricordi – è una cosa che mi ha sempre affascinato (e spaventato) ed è da qui che è partita l’idea del libro. L’Alzheimer è stato un espediente narrativo che in Finchè memoria non vi separi mi ha permesso poi di affrontare altri temi, come l’identità (personale e di coppia), l’immobilità e il tradimento.
Sono partito dall’idea che ciò che siamo si fonda anche su ciò che raccontiamo di noi agli altri. Nel momento in cui perdiamo memoria di ciò che siamo – o confondiamo ciò che siamo – allora anche chi siamo cambia, muta.
Questo lo ritengo ancora più vero quando si parla di relazioni di coppia (come quella pluridecennale raccontata nel libro). Le relazioni amorose si costruiscono e si solidificano sulla base delle esperienze comuni e, successivamente, sui ricordi che si mantengono di queste esperienze. Nel momento in cui una delle due persone della coppia perde questi ricordi, è come se dissolvesse tutto ciò che si è costruito.
Ed è qui che si pone la domanda centrale del libro. Cosa fare in queste situazioni? Continuare a ricordare per entrambi oppure costruirsi nuove esperienze e nuovi ricordi?».
Come viene raccontato in Finché memoria non vi separi il vissuto del caregiver di un malato di Alzheimer?
«In Finché memoria non vi separi, la protagonista Beatrice è il fulcro dell’intera storia. La malattia del marito Livio si riflette sempre su di lei ed è tramite la stessa che capiamo quanto sia invalidante, tanto per il marito quanto per la protagonista.
È invalidante perché, più di tante altre malattie, l’Alzheimer logora cerebralmente prima ancora che fisicamente e, come tutte le malattie degenerative, non dà vie di fuga. Hai una sola possibilità: accettarlo.
Come detto prima, perdere la memoria di una relazione, di una moglie, significa far sgretolare decenni di matrimonio e questo toglie molte certezze alla protagonista del libro, con tutto ciò che ne consegue.
Nel libro Beatrice si sforza disumanamente nel mantenere vivo il ricordo per entrambi. Una cosa impossibile da fare, per questo frustrante. Perché questa malattia non lascia neanche false speranze: non si può guarire.
Quindi c’è un forte tema di solitudine e, nonostante ci siano i figli e gli amici a tenerle compagnia, questo genere di solitudine non è consolabile. Inoltre il tema dell’Alzheimer si lega nel libro al tema del tradimento, scoperto ormai quando il marito è già malato.
E il tradimento per essere metabolizzato, per essere accettato e per essere sorpassato necessità anche di confronto, di risposte. Ma se colui che dovrebbe darti queste risposte non può farlo, alla solitudine, allo sconforto e all’impotenza della malattia, si aggiungono anche la solitudine, lo sconforto e l’impotenza del tradimento.
Nel libro, in maniera palese o accennata, vengono affrontate tutte le fasi che seguono la scoperta di una malattia: dal rifiuto all’elaborazione, fino all’accettazione. Ma arrivare a una piena accettazione del fatto che la persona con cui hai condiviso anni e anni della tua vita è a tutti gli effetti un estraneo. Visto al contrario: essere un’estranea per la persona con cui hai condiviso anni e anni della tua vita. Penso che sia qualcosa di impossibile da accettare pienamente.
Per questo c’è anche una speranza quasi mistica, religiosa che porta Beatrice a credere che in qualche modo, che trascende ogni logica e raziocinio, qualcosa possa ancora cambiare in meglio, che in qualche modo si possa ancora recuperare ciò che invece è andato.
Ed è qui che si ricollega uno dei temi del libro. Siamo ciò che raccontiamo e che ci raccontiamo. Se raccontarci delle bugie può farci star meglio, allora forse, a volte, è giusto così».
I caregiver spesso sono soli. Esistono reti per affrontare questa solitudine?
«Per affrontare nel modo più veritiero possibile un tema così complesso, ho fatto molte ricerche e ho scoperto che di reti ne esistono diverse. Non so quanto siano capillari, e – come detto prima – non essendo un tema che mi ha colpito in prima persona, non so quanto siano utili ed efficaci.
Ciò che ho fatto è stato provare a immedesimarmi con la protagonista. Nel libro si affrontano momenti in cui Beatrice e Livio frequentano delle reti di supporto e di accompagnamento alla malattia. E questo a loro serve per vivere il più possibile insieme gli ultimi scampoli di lucidità e per imparare ad accettare, a riconoscere la malattia, soprattutto nella fase iniziale in cui chi soffre di Alzheimer può sviluppare, o far riemergere, tratti della personalità e comportamenti mai presentati prima.
A prescindere dal libro, credo che avere un luogo e delle persone con cui affrontare la malattia, che possano aiutarti a comprenderla al meglio, che possano preparati al peggio, ma soprattutto che comprendano esattamente la tua situazione, sia di estrema importanza per quell’accettazione (che nel libro non c’è), necessaria a non farsi travolgere da un pericoloso sconforto.
Però, per parafrasare una citazione, credo che ogni malattia sia infelice a modo suo, pertanto credo che il vero supporto che possa arrivare da reti di questo genere sia quello di aiutare sia il malato ma soprattutto il caregiver a trovare un proprio modo per affrontare la malattia».
Come è possibile gestire i momenti di burnout personali?
«Qui credo che avere il parere di chi abbia vissuto in prima persona una situazione del genere sia il modo migliore per capire come sia possibile gestire i momenti di burnout. Penso che l’unico modo sia quello di staccare (come prova a fare la protagonista) anche se questo può portare ad altre emozioni negative come sensi di colpa e senso di inadeguatezza.
Però penso anche che fare affidamento sulle reti di cui sopra, condividere il dolore, esternarlo e trovare una controparte che può davvero capire quel genere di dolore, possa essere di grande aiuto».
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A che punto siamo, secondo te, dal punto di vista comunicativo riguardo a questa problematica? Le persone sono sufficientemente informate?
«La sensibilizzazione sul tema dell’Alzheimer in sé credo che sia tra le più alte, essendo comunque la forma più comune di demenza degenerativa.
Quello che noto, però, è che ci sia una sorta di romanticizzazione della malattia. Ci sono documentari, articoli, notizie che riguardano l’Alzheimer (soprattutto quando si parla di marito e moglie) che tendono a mostrare un lato commovente, quasi felice, in una situazione che tendenzialmente non lo è. Penso ad alcuni articoli, che mi è capitato di leggere, che titolavano qualcosa come Ha l’Alzheimer, dimentica di essere sposato e fa di nuovo la proposta alla moglie. Lei dice sì.
Questo si lega un po’ a quella falsa speranza raccontata nel libro, quell’irrealizzabile ottimismo che sfida la logica, la ricerca di un qualcosa di più forte della malattia, una sorta di riscontro tangibile dell’omnia vincit amor.
L’informazione, invece, non dovrebbe scadere nelle dinamiche più pubblicitarie della comunicazione. E questo lo penso in linea generale, perché le campagne di sensibilizzazione sono temi molto complessi. Non in termini di comunicazione in sé, piuttosto quanto di efficacia.
È sicuramente importante sensibilizzare le persone, raccontare gli enormi progressi scientifici sulla cura (o almeno rallentamento) della malattia, e nel caso specifico dell’Alzheimer, credo che questo si stia facendo, tuttavia credo che vada evitata la spettacolarizzazione della malattia».