Mentre in Italia si festeggiava un Ferragosto all’insegna di una quasi ritrovata normalità, in Afghanistan, a seguito del graduale sia pur massiccio ritiro del contingente americano, i talebani conquistavano la capitale Kabul, proclamando la nascita del nuovo Emirato Islamico d’Afghanistan.
I talebani sono un gruppo terroristico riconducibile a una matrice estremista appartenente al culto islamico. Nonostante si pensi che la loro influenza sia circoscritta al territorio afgano, una cospicua presenza di milizie talebane si trova nel vicino Pakistan. In Iran, invece, sono indicati come taliban tutti gli studenti delle scuole coraniche, la principale fonte di alfabetizzazione del mondo islamico, rivolta, ovviamente, ai soli uomini.
I guerriglieri talebani nacquero nel mezzo degli anni Novanta come organizzazione paramilitare quando Muhammad Omar, dopo aver preso il potere con un golpe, si proclamò emiro dell’Afghanistan nonché leader di tutti i musulmani del mondo. Sotto la sua dittatura fu instaurata la Sharia, un’interpretazione giuridica del Corano che, tra le altre cose, prevedeva la pena di morte per reati contro la religione come l’apostasia, la bestemmia o l’adulterio.
Attualmente, a seguito di una breve parentesi di Akhtar Mansour alla guida dell’Emirato, da oltre cinque anni il principale riferimento militare, politico e spirituale dell’esercito talebano è rappresentato da Hibatullah Akhundzada, ex deputato subentrato a Mansour a seguito della sua morte in un raid americano.
A partire dal 1996, Osama Bin Laden, il più noto fondamentalista islamico sunnita nonché fondatore del gruppo terroristico di al-Qaeda, iniziò a stringere forti legami con l’Emirato dell’Afghanistan, incentivando e favorendo l’ascesa dei talebani con numerosi attacchi e azioni di guerriglia ai danni delle truppe statunitensi.
Nel 2001, in seguito all’attentato delle Torri Gemelle, rivendicato dai vertici di al-Qaeda, gli Stati Uniti, dopo aver rifiutato una collaborazione diplomatica con l’Afghanistan, ritenuta colpevole di aver aiutato e protetto Bin Laden durante la progettazione e la realizzazione dell’attacco, inviarono il proprio esercito in Oriente con l’intento di rimuovere i talebani dal potere.
Dopo vent’anni di feriti, di morti civili, di armistizi infranti e di appelli al “cessate il fuoco”, il neopresidente degli USA Joe Biden ha deciso di ritirare le proprie truppe dal territorio afgano.
Una sconfitta cocente non solo per l’America, ma per tutto il mondo occidentale, reo di aver tentato di esportare coercitivamente una democrazia a cui Paesi come l’Afghanistan, forse, non sono ancora favorevoli o culturalmente preparati.
Una cosa però è certa: i piani che gli Stati Uniti avevano programmato per lo sviluppo della guerra non sono andati a buon fine. Inizialmente, infatti, il Paese avrebbe dovuto essere gestito dalle quasi trecentomila truppe autoctone, addestrate, nel corso del tempo, dalle forze occidentali. Eppure, nonostante la netta inferiorità numerica dei talebani nei confronti delle milizie filo statunitensi, la guerra non ha quasi mai sorriso alle forze occidentali, in special modo negli ultimi mesi, forse a causa di un tacito e latente appoggio di una fetta di popolazione all’esercito talebano.
Una premessa, d’obbligo per analizzare dati che, altrimenti, resterebbero solo cifre sterili e insignificanti, è che, prima di parlare di caduti, si parla di uomini, donne, bambini e anziani, la maggior parte delle volte innocenti e impotenti di fronte alla brutalità di uno dei conflitti più sanguinosi dal secondo dopoguerra.
Negli oltre vent’anni di campagna in Afghanistan si stima che siano rimasti uccisi quarantasettemila civili afghani e circa sessantaseimila soldati e uomini delle forze dell’ordine afghane.
A tale conto si sommano anche i 2.448 militari americani che hanno perso la vita e i 1.144 militari morti degli eserciti alleati degli Stati Uniti, tra cui anche cinquantasei soldati italiani. Purtroppo, nel caos di un Paese in guerra, non sempre si riesce a stabilire un preciso bilancio degli scomparsi, pertanto si teme che i numeri sopra elencati siano stati arrotondati, purtroppo, per difetto, e che il reale conto dei caduti sia in realtà addirittura superiore alle già tragiche stime.
Osservando i pesanti e dolorosi strascichi lasciati dalla guerra in un Paese distrutto da anni di bombe, guerriglia urbana e attentati, risulta difficile parlare di vincitori e sconfitti.
Ciononostante, la prima categoria sociale compromessa dal ritorno del regime talebano sarà senza dubbio la componente femminile del Paese. Dopo dei fittizi segnali di apertura nei confronti dell’integrazione e della parità di genere, infatti, i talebani hanno continuato a portare avanti una politica maschilista, proibizionista e patriarcale, impedendo, di fatto, la partecipazione delle donne alla vita pubblica, politica e lavorativa, ponendo le basi per un ritorno alla Sharia che sembra sempre più vicino.
Gli altri grandi sconfitti sono gli Stati Uniti, e con essi le potenze occidentali alleate, che hanno visto fallire una campagna militare costata, in ambito di vite e capitali, un’insensata enormità, e che, in fin dei conti, pur avendo ragioni politiche, non aveva basi logiche e culturali per poter essere giustificata.
I vincitori? Militarmente i talebani, non c’è dubbio, ma moralmente, almeno dalle immagini di morte e sofferenza che sono giunte a noi nel corso degli ultimi mesi, si può ben dire che non vi sia alcuna forza trionfante.
Uno dei nodi più complessi e spinosi dell’attuale situazione afgana è legato a dinamiche di natura economica. Oltre a essere uno dei principali Paesi esportatori di cannabinoidi, hashish in special modo, l’Afghanistan fonda, infatti, gran parte del proprio Pil sulla coltivazione e la vendita di papaveri da oppio e dei suoi derivati, l’eroina su tutti.
Per dare un’idea di quanto sia fondamentale l’export di oppiacei per la vita economica afgana, il dato maggiormente rappresentativo è quello che indica che più del sessantacinque per cento delle entrate nelle casse di Stato provengono dal commercio degli stupefacenti. Nonostante i talebani abbiano promesso una frenata nell’esportazione di papaveri e derivati, una rinuncia totale della principale fonte di reddito risulta poco immaginabile.
In questa intricata situazione, si erge quindi un enorme paradosso: un regime religioso così radicale, che impone divieti sul cibo e sulle bevande da consumare, sugli abiti da indossare e sui comportamenti da tenere in luoghi pubblici, fonda nondimeno la sua vita economica sull’esportazione di raffinati narcotici.
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