Cosa hanno in comune un inno alla vaccinazione cantato in radio da tre virologi e le nuove restrizioni a fronte dell’aumento dei contagi? In entrambi i casi si sottovaluta il rischio di un’eccessiva confidenza nei confronti di modelli e paradigmi comunicativi usati senza criterio in tutte le situazioni.
Lo scorso 20 dicembre, durante la trasmissione Un giorno da pecora su Radio Uno, è andato in onda un simpatico siparietto. Protagonisti tre ormai noti virologi italiani: Andrea Crisanti, Matteo Bassetti e Fabrizio Pregliasco, i quali, sulle note di Jingle Bells, hanno cantato una sorta di inno alla vaccinazione. Il testo, che ovviamente non è stato scritto da nessuno dei tre scienziati, conteneva frasi come «Sì, sì, sì, vax vacciniamoci. Se tranquillo vuoi stare i nonni non baciare». Oppure: «Con la terza dose tu avrai feste gioiose». Il video della canzone è subito diventato virale, provocando molte risate, ma anche diverse polemiche. In molti, tra cui anche il collega del trio Massimo Galli , si sono lamentati, e non per la scarsa performance canora. Sui social, diversi utenti hanno contestato soprattutto la scarsa serietà dei professionisti, il cui risultato sarebbe uno spettacolo più ridicolo che utile.
Negli stessi giorni tutti i giornali, anche in prima pagina, hanno continuato a occuparsi di Covid-19. L’attenzione si è concentrata sulle possibili o probabili misure che il governo avrebbe preso a breve in vista delle festività e dell’aumento dei contagi. Le anticipazioni riguardavano soprattutto tre misure: la riduzione della durata di validità del green pass da nove a sei mesi, il tampone anche per i vaccinati al fine di accedere ad alcuni luoghi specifici e l’obbligo di mascherina anche all’aperto. Quest’ultimo, tra l’altro, era già stato autonomamente introdotto da diversi sindaci e presidenti di regione nel corso delle settimane precedenti.
Le due vicende, che sembrano non avere troppo a che vedere l’una con l’altra, possiedono in realtà un elemento comune. In entrambi i casi, infatti, sembra che nessuno tenga conto del rischio da troppa confidenza.
Il rischio da troppa confidenza è un fenomeno che conosce bene chi si occupa di sicurezza sul lavoro. Viene applicato in contesti come quello industriale, edile, o in tutti quegli ambienti che richiedono l’uso di attrezzature pericolose. Si ha quando un lavoratore si sente troppo sicuro di sé di fronte a una mansione, magari perché l’ha svolta tantissime volte con successo, e tende dunque a sottovalutare i rischi dell’operazione che sta compiendo. Con le giuste proporzioni, si tratta di un fenomeno applicabile anche all’attuale situazione pandemica.
Diversi studi hanno dimostrato come il numero di contagi attribuibili ad attività all’aperto sia irrisorio, forse anche lo 0,01 per cento dei contagi totali. Eppure, ogni qualvolta il numero dei positivi inizia a risalire, la misura che viene subito reintrodotta è quella delle mascherine all’aperto. La ragione potrebbe essere in parte ascrivibile proprio a un’eccessiva confidenza che i governanti hanno ormai acquisito di fronte ad alcune misure di prevenzione. Si comprende con facilità che la mascherina obbligatoria all’aperto, anche quando si è soli, aumenta le probabilità che la stessa mascherina resti indossata quando si incontri qualcuno, o si crei un assembramento. Ma possiamo affermare per certo, per esempio, che l’indossare costantemente la mascherina non provochi allo stesso tempo un abbassamento della soglia di prudenza usata da parte del singolo individuo? Che non lo porti, ad esempio, a ignorare il distanziamento?
Sebbene dietro l’introduzione dell’obbligo della mascherina all’aperto, magari molto in fondo, possa effettivamente esserci una scelta razionale e di calcolo, la ragione contingente di questa presa di posizione è da ricercarsi quasi del tutto nella necessità di apparire politicamente attivi. I governanti vivono l’impellenza di mostrare che stanno facendo qualcosa, e optano innanzitutto per le misure nei confronti delle quali hanno una certa confidenza.
Lo stesso avviene in merito alla gestione degli eventi pubblici e privati. In Campania, per esempio, dove l’obbligo di mascherina all’aperto è rimasto in vigore per tutto l’anno, il governatore De Luca ha emanato lo scorso quindici dicembre un’ordinanza con la quale annullava le feste in piazza per il Capodanno, a Napoli e nel resto della Campania. Con la stessa ordinanza, inoltre, vietava il consumo di bibite per strada, alcoliche e non, dal 23 dicembre al 1 gennaio. Quattro giorni dopo, il 19 dicembre, ha emesso un’altra ordinanza, la quale vietava anche le feste e le cene al chiuso. Sorvolando sulla precedenza data all’aperto rispetto che al chiuso, giustificabile forse con una maggiore semplicità ad agire sul pubblico piuttosto che sul privato, è evidente che si tratti in entrambi i casi di misure non completamente controllabili.
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Le feste in piazza sono state vietate anche in tantissime altre città. Non è difficile immaginare che tutte le persone che avrebbero affollato le piazze, in una condizione di assembramento, ma pur sempre all’aperto, opteranno per il riunirsi al chiuso. A volte ciò avverrà in una condizione di illegalità, ma pur sempre al riparo dagli occhi dei controlli, i quali, in base all’esperienza di questi ultimi due anni, non potranno essere che blandi.
Nel frattempo, i punti in cui l’utilità di un intervento è conclamata da tempo sono rimasti sullo sfondo della questione. I trasporti, gli ospedali, la scuola e i luoghi di lavoro rimangono privi soluzioni concrete e durature dall’inizio dell’epidemia. Nei momenti di picco si invoca l’emergenza, si corre giustamente ai ripari con misure drastiche. A pericolo scampato ci si dimentica dei problemi nevralgici e strutturali che quel picco lo hanno provocato o alimentato.
Tutto ciò è spiegabile ancora una volta con l’eccessiva confidenza. I governanti, a vario livello, si sentono preparati e abili nell’introduzione di misure di prevenzione a carattere restrittivo. Ormai sono abituati. Di certo le prendono anche dopo attente valutazioni, considerazioni politiche e calcoli di costi e benefici. L’impressione che ne hanno i cittadini, però, è che percorrano sempre le strade che hanno già percorso, nonostante le condizioni siano differenti e i risultati non siano stati sempre ottimali.
Tuttavia, in questo caso il rischio da eccessiva confidenza non si manifesta soltanto nelle decisioni politiche, ma soprattutto nel modo in cui queste vengono comunicate. Il Presidente De Luca si sente ormai così a suo agio nel ruolo di sceriffo che annuncia l’introduzione di misure pesanti, le stesse che la vaccinazione avrebbe dovuto scongiurare, con eccessiva nonchalance.
Prendere alla leggera i tempi e i modi dei provvedimenti può rappresentare un problema. A essere rilevante, infatti, non è esclusivamente l’impatto epidemiologico che i provvedimenti hanno sul breve o sul medio periodo. Sono importanti anche le conseguenze sociali, pure in termini di percezione collettiva, che quei provvedimenti producono. Una cosa simile l’ha detta lo stesso prof. Bassetti che dalla scorso primavera a oggi continua a ribadire il suo scetticismo nei confronti dell’obbligo di mascherina all’aperto. Lo scorso giugno, in merito a questo tema, dichiarava «è bene levare l’obbligo subito, perché se ce ne sarà nuovamente bisogno almeno la gente non l’avrà considerata come un feticcio, come un vessillo, ma l’avrà considerata come uno strumento di protezione». Il rischio che il professor Bassetti paventava si sta concretizzando proprio in questi giorni.
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Neanche gli esperti, però, sono immuni dal rischio di eccessiva confidenza. Il caso dei tre virologi-cantanti potrebbe essere un esempio. In questo contesto si può correre un rischio a causa della fede cieca che gli esperti hanno in alcuni modelli e paradigmi comunicativi. In merito al loro campo di competenza, i tecnici posso adoperare soltanto due forme comunicative, è inevitabile. Da una parte il dialogo fra pari, con altri esperti come loro. Dall’altra la divulgazione dall’alto verso il basso, nei confronti di chi quella materia non la conosce. Il problema è che questo secondo modello comunicativo è proprio quello che i cosiddetti no vax, coloro i quali dovrebbero essere convinti, rifiutano. I no vax non sono contro i vaccini, non solo. Anzi, a volte non sono nemmeno no vax. È gente che manifesta scetticismo o rifiuto verso la scienza ufficiale, i suoi metodi e le sue strutture. Ciò avviene a causa di diversi motivi antropologici e sociali.
Il rifiuto avviene dunque in primo luogo nei confronti dell’autorità epistemica e del suo sapere. Non è un caso se spesso ci ritroviamo ad accomunare no vax, terrapiattisti, negazionisti dell’allunaggio ecc. Ciò non significa che questo rifiuto vada legittimato, ma è un elemento che va preso in considerazione con serietà. Cercare di convincere, anche con un certo paternalismo, chi non rifiuta tanto il contenuto, ma l’idea stessa di un convincimento, non ha molto senso. Senza senso è inoltre il biasimo continuo, la derisione e lo scherno. Sono tutte pratiche che non fanno altro che radicalizzare la posizione di rifiuto. O la politica prende una decisione forte introducendo un obbligo vaccinale (e chiamandolo con il suo nome) oppure ogni stigmatizzazione del no vax rischia di essere oltre che inutile, anche dannosa.
Di fronte a questi elementi, la narrazione, tanto dei politici quanto dei tecnici, è ben definita e va in tutt’altra direzione. Durante la prima fase della pandemia la narrazione dominante era quella della guerra, di un nemico invisibile, dal quale dobbiamo difenderci usando delle armi. Ma in parallelo ce n’è sempre stata un’altra: quella del genitore responsabile che protegge la prole.
Secondo questo racconto delle cose, il virus è un estraneo, un criminale, il pedofilo che mette in pericolo la sicurezza dei piccoli cittadini indifesi. Spetta ai genitori (sindaci, presidenti) proteggerli, con le più classiche delle misure: divieti mal spiegati o non spiegati per nulla. Così, come si sta attenti ai bambini al parco, nonostante la maggior parte delle violenze avvenga nei luoghi considerati più sicuri (come la casa) allo stesso modo si tengono lontani i cittadini, i giovani con la loro incoscienza in primis, dai luoghi aperti e arieggiati. Tutto per essere sicuri di aver fatto quello che era in nostro potere, anche se potrebbe creare, in modo indiretto, ancora più danni.
Con i tecnici è lo stesso. I no vax non sono gente che non sa, bambini a cui si deve inculcare un’informazione. Sono gente che non crede, o non si fida, che forse non crederà e non si fiderà mai. Eppure, vengono trattati come bambini, più che come ignoranti, tanto da ricorrere alle canzoncine pur di convincerli.
Il “sì sì vax”, le mascherine all’aperto, tutte le restrizioni potrebbero anche rivelarsi la scelta giusta. Resta il fatto che non sono decisioni prese con razionalità, ma sulla scorta di una confidenza eccessiva nelle pratiche comunicative che si sono sempre utilizzate. Proprio perché si sono sempre utilizzate, possono però rappresentare un rischio.
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