Nel suo saggio L’adolescenza in Samoa: studio psicologico della gioventù primitiva ad uso della società occidentale l’antropologa statunitense Margaret Mead profilò, nel 1928, uno stupefacente quadro caratteriale e sociologico delle popolazioni polinesiane. Le ricerche condotte dall’autrice, oggetto nel corso degli anni di numerose contestazioni, hanno contribuito a delineare un’immagine molto precisa del temperamento dei samoani, descritto come pacato e sempre proteso alla ricerca del compromesso. I risultati della ricerca hanno posto l’enfasi sulla quasi ossessiva tendenza delle popolazioni pacifiche di garantire, in tutte le situazioni, il rispetto formale fra i membri della tribù e al contempo uniformare le abilità degli stessi, in modo da favorire uno sviluppo omogeneo della società tutta.
L’apparente spinta perpetua verso la stabilità (anche politica) nella regione, raccontata da Margaret Mead, è stata in tempi recenti messa in discussione per via delle elezioni presidenziali, prima, e la conseguente apertura di una crisi istituzionale, dopo.
La storia recente delle Samoa è infatti un esempio di resistenza democratica. Per capire come in questo piccolo angolo di mondo si sia realizzato un “miracolo” politico destinato a influenzare per sempre il percorso sociale della nazione insulare tocca fare un passo indietro a qualche mese fa.
Siamo ad aprile e nelle Samoa Occidentali si stanno per tenere le elezioni presidenziali che decreteranno la salita al potere del nuovo capo di Stato. In pochi sono in grado di prevedere l’esito elettorale delle consultazioni e in ancora meno immaginano che da lì a poco la piccola monarchia parlamentare del Pacifico diverrà teatro di una delle più significative lezioni di resistenza democratica dei tempi moderni. I rapporti di forza che si muovono in quest’area del mondo sono numerosi, così come lo sono gli interessi e l’influenza che la grande potenza illiberale asiatica esercita sulla nazione.
La protagonista di questa storia è situata nel Pacifico del sud, al centro delle celestiali isole che si trovano a metà strada tra le Hawaii e la Nuova Zelanda. Con una popolazione inferiore ai duecentomila abitanti, l’arcipelago delle Samoa si caratterizza come una realtà tanto integra all’apparenza quanto in realtà spezzettata nelle sue numerose spinte indipendentiste. Di matrice conservatrice e devotamente cristiana, confessione che venne instaurata nell’isola dai missionari che vi arrivarono per primi nel Settecento, l’arcipelago delle Samoa sembra aver conservato a lungo i suoi valori tradizionalisti basati sulla figura centrale dell’uomo.
Storica sede dei protettorati di Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, le Samoa acquisirono quella che sarebbe poi stata la loro forma ultima a seguito delle guerre civili del 1899, lotte interne al termine delle quali agli Stati Uniti venne assegnata la parte orientale dell’arcipelago (tutt’ora sotto la giurisdizione americana), alla Gran Bretagna alcune isole del Pacifico meridionale e infine alla Germania la comparte occidentale.
Al termine della prima guerra mondiale si delineò il quadro definitivo della nazione insulare, con il passaggio delle isole occidentali dalla Germania alla Nuova Zelanda, che ne aveva già occupato il territorio. Tale assetto amministrativo fu imposto e mantenuto dalle Nazioni Unite dal 1918 fino all’ottenimento dell’indipendenza da parte delle Samoa Occidentali, nel 1962, anno nel quale furono anche istituiti la prima Assemblea Legislativa e il Consiglio di Stato.
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Per la quasi totale interezza del periodo successivo alla dichiarazione d’indipendenza, a dominare lo scenario politico della nazione è stato un solo partito, lo Human Rights Protection Party o Hrpp. Fondato nel 1979, l’Hrpp vinse subito le elezioni del 1982 con Tofilau Eti Alesana.
La linea dettata dal partito nel corso degli anni ha sacrificato lo sviluppo economico delle isole in cambio della lunga stabilità politica e sociale. Episodi di corruzione e illegalità infiammarono la cronaca durante i primi anni di governo del Hrpp, sopratutto in occasione delle elezioni dell’aprile 1991, al termine delle quali il partito vinse nuovamente e Tofilau fu rieletto reggente.
Dal 1998 in poi, il partito ha di fatto governato senza alcun tipo di opposizione, dando vita a uno dei più longevi mandati governativi del mondo, sotto Tuilaepa Saliere Malielegaoi. Le cose però sono cambiate nel 2020, in particolare durante l’emergenza Covid-19. Le riforme varate del partito volte a consolidare e ad accentrare il più possibile il potere nelle mani dell’esecutivo, persino a discapito della magistratura, e l’inevitabile deterioramento delle condizioni di applicazione dei diritti e delle libertà dei samoani, hanno spinto la vicepremier Fiame Naomi Mata’afa a prendere le distanze dal partito. Dalla spinta riformatrice di Fiame e di altri ex membri del partito è così nata la coalizione Fast (Faʻatuatua i le Atua Samoa ua Tasi), di forte matrice femminile, subito presentatasi per la corsa alle elezioni dell’aprile 2021.
La candidata alla presidenza nonché leader del partito è Fiame Naomi Mata’afa. Donna dall’ascesa politica poderosa, la vicepremier dell’HRPP e figlia del primo capo del governo della storia delle Samoa sembrò essere sin da subito la figura in grado di attirare a sé gli entusiasmi e le preferenze delle diverse frange della popolazione deluse e dimenticate dall’operato governativo. In comunione con il progetto politico e sociale portato dinnanzi dal padre, colui che trascinò il Paese all’indipendenza dalla Nuova Zelanda nel 1962, Mata’Afa è stata la prima donna a entrare nel Consiglio dei ministri samoano, nel quale ha ricoperto diverse cariche istituzionali, nonché colei che per competenze in maniera legislativa si è battuta più di tutti contro la riforma costituzionale voluta dal presidente in carica.
In quelle che si possono definire forse le elezioni più drammatiche e controverse nella storia delle Samoa, per via dei continui colpi di scena e delle sorprendenti decisioni presidenziali, si dipana il giallo di fantapolitica che ha come sfondo questo paradisiaco palmeto nel sud del Pacifico. Il 9 aprile l’esito elettorale ha spaccato il Parlamento in due. Dei cinquantuno seggi, venticinque sono andati all’Hrpp e venticinque al Fast. Una prima impasse politica si abbatte così sul processo elettorale, con il seggio decisivo detenuto dall’unico parlamentare indipendente, Tuala Tevaga Iosefo Ponifasio, che si schiererà a favore del Fast dopo settimane di tensione consegnando così l’apparente vittoria alla sua leader. Una vittoria durata però poche ore. Lo stesso giorno delle consultazioni la Commissione elettorale, con una decisione eclatante, decide di manipolare la legge per le quote rosa per mancato rispetto delle proporzioni di genere all’interno del Parlamento. A questa decisione segue così l’aggiunta di una parlamentare nelle schiere del partito di maggioranza, con conseguente ripristino della parità dei seggi e nuovo stallo.
Un nuovo terremoto arriva con la pronuncia di incostituzionalità da parte della Corte suprema, la quale dichiarando illegittimo sia l’ultimo seggio sia la richiesta di nuove elezioni assegna la vittoria a Mata’afa. L’intervento salvifico della Corte non riesce però a evitare la crisi costituzionale che da lì a poco si aprirà, quando il Presidente in carica Tuilaepa, nel disperato tentativo di opporsi nuovamente all’esito elettorale, fa sbarrare le porte del palazzo dalla polizia, per evitare che la legittima vincitrice presti giuramento.
Il tentativo di colpo di Stato non trova però terreno fertile con Mata’afa che, tutt’altro che scoraggiata, improvvisa la propria cerimonia di insediamento in un tendone montato nel giardino del palazzo parlamentare.
Il 23 luglio il Capo di Stato riconosce finalmente come legittimo il governo della prima ministra consegnando così, per la prima volta nella storia della nazione insulare e per la seconda nella storia delle isole del Pacifico, la più alta carica governativa nelle mani di una donna.
La figura di Mata’afa segna così una discontinuità sia in chiave sociale che politica. Da un lato consente in fatti di ribaltare il concetto patriarcale attorno al quale si sviluppa la società polinesiana, con l’arrivo al potere di una figura femminile anche in un contesto molto religioso, maschilista e tradizionalista come quello delle nazione insulare. Dall’altro lato, a destare le curiosità internazionali vi sono soprattutto le posizioni anti-cinesi della neoeletta presidente. A una delle aeree che da sempre accoglie le rivalità tra Cina e Stati Uniti e che ha legato nel corso della sua storia il proprio destino economico a quello del territorio sinico, Mata’afa sembra voler imprimere una direzione più autonoma. Il primo segnale è stato dato con la cancellazione di un progetto per lo sviluppo di un porto da 128 milioni di dollari sostenuto dalla Cina. Il Paese, secondo le parole della sua leader, diverrà l’ennesimo terreno di resistenza all’autoritarismo e alla trappola del debito con cui la potenza cinese tiene in scacco le sue sfere di influenza economico-politica.
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