Definire il mestiere del designer ai non addetti ai lavori non è facilissimo, soprattutto perché in italiano lasciamo la parola intradotta. In inglese to design vuol dire progettare, ma il progettista di un software molto complesso ha di solito un percorso molto diverso rispetto a un grafico. Questo accade perché, sebbene l’attività di progettare accomuni molti mestieri, alcuni professionisti devono avere formazione altamente specifica sulla materia in cui andranno a operare, altri invece vengono da percorsi dove si studia il design come materia a sé stante.
Il designer, in sostanza, è quanto di più simile si possa avere oggi alla figura dell’inventore: se questa professione si è divisa in moltissimi mestieri già insiti nella sua parola (principalmente nel mondo STEM, quello delle materie scientifiche) è nella sua parte più legata all’intuizione e l’ideazione che interviene il designer, ed è quello che studia nella moltitudine di percorsi accademici dedicati.
Il riconoscimento del design come settore (seppur multidisciplinare) con delle sue specificità si deve da un lato ai grandi artefatti e i loro celeberrimi creatori, dall’altro a quei designer intellettuali che hanno costruito la filosofia e tutta la teoria su cui si radica la materia, unendo concetti dall’una e dall’altra materia in un approccio fino ad allora mai visto. Uno dei concetti più importanti nati da questi ultimi è lo human-centered design, reso celebre da Donald Norman, ingegnere, psicologo e designer. Il concetto alla base è semplice: mettere al centro l’uomo-utente, cioè la persona che andrà a utilizzare il prodotto o servizio. È quindi l’essere umano in quanto agente che si rapporta a un qualcosa a essere prima di tutto oggetto di studio: per progettare qualcosa di buono, bisogna risolvere dei problemi, partendo dall’interazione umana con l’oggetto.
Questo approccio, all’epoca innovativo e a tratti rivoluzionario, mostra per la prima volta a tutti che il design non è solo un’inseguire il bello ma è prima di tutto creare oggetti usabili. Ci è voluto tempo perché quest’approccio venisse assorbito dalle imprese, e quelle che per prime hanno capito il valore apportato da questo nuovo approccio ne hanno spesso tratto successo commerciale. Tutto è bene quell che finisce bene, o forse no.
Analizziamo un caso di studio: Airbnb. Da un punto di vista dei suoi utenti si può parlare di un design tutto sommato buono. Le procedure sono semplici, intuitive e offrono un servizio centrato sull’esperienza sia del viaggiatore che del locandiere. Il primo può avere una sistemazione economica e senza le pomposità di un classico albergo, il secondo può garantirsi un’entrata extra senza tutte le complicazioni legali dell’aprire un classico bed and breakfast. Quali sono state però le conseguenze dell’esistenza di un servizio del genere? Per alcune città ha significato mercati immobiliari impazziti, per altre ha implicato il ripensamento della città stessa. Si vedano per esempio Berlino, dove sono stati gli stessi berlinesi a chiedere un intervento legislativo per fermare il decremento di appartamenti affittabili ai residenti, o Venezia che nel tempo è diventato un enorme parco a tema per turisti che esclude i veneziani da ogni progetto urbanistico.
Quello di Airbnb non è un caso isolato: molti dei servizi delle cosiddette piattaforme hanno problemi analoghi, al di là dei problemi intrinsechi al modello economico gig economy. Per esempio, Spotify è da sempre criticata per il basso compenso dei professionisti della musica come conseguenza del mettere al centro i bisogni degli utenti ascoltatori a scapito di tutti gli altri.
Il designer Mike Monteiro nel suo libro Ruined by Design: How Designers Destroyed the World, and What We Can Do to Fix It dà la colpa ai designer stessi. Sono questi ultimi, secondo le tesi di Monteiro, a essere responsabili di moltissime brutture di prodotti e servizi con milioni, se non miliardi di utenti, non opponendosi alle cattive decisioni di design per vari motivi. In primo luogo ci sarebbe la mancanza di potere nei confronti di cattivi manager e la dispersione delle richieste di cambiamento nella burocrazia di grandi aziende. Riprendendo le tesi del filosofo John Rawls, Monteiro vede nella parola responsabilità la chiave per guidare l’attività dei designer.
La realtà è spesso più complicata di come la dipinge l’autore: certe questioni vanno ben oltre la responsabilità individuale. Se prendiamo l’esempio citato da lui stesso, ossia Facebook, sembra difficile dire che uno o pochi designer abbiano il potere per opporsi contro una direzione senza scrupoli, ma del resto il libro è precedente ai vari scandali che hanno colpito la piattaforma da qualche anno a questa parte.
Monteiro conosce bene certe dinamiche tossiche perché è un imprenditore, ma è proprio per la sua posizione che può permettersi di dire queste cose. Inoltre, seguire un approccio human-centered non significa applicarlo bene: molti progetti finiscono per seguire un ibrido con un processo a cascata, o peggio scimmiottando i concetti dello sviluppo agile. Si prenda per esempio la tecnica dei personas, che consiste nella creazione di personaggi verosimili e li si tratta come persone reali i cui bisogni sono il fulcro della progettazione. Questa tecnica è ormai deprecata perché molto spesso finisce per essere un mero esercizio letterario più che un lavoro di sintesi frutto di una estensiva ricerca demografica.
Più in generale, in teoria, lo sviluppo human-centered dovrebbe tenere conto sia degli stakeholders diretti (come gli utenti) sia di quelli indiretti. Il problema è che questi ultimi vengono spesso ignorati, a meno che non si tratti di investitori e finanziatori del progetto in via di sviluppo. È innegabile, tuttavia, che la comunità del design abbia iniziato a ragionare sul superamento dell’approccio human-centered.
In generale la critica a questo tipo di sviluppo è quella di non riuscire a tenere conto della complessità del mondo attuale, in cui i prodotti dei designer vanno a calarsi, avendo un impatto, risolvendo problemi e creandone altri. Quello che si richiede è di provare a prevedere questi problemi prima che essi inizino a far danni. Torna la parola chiave della responsabilità, spostata non solo sui singoli progettisti, ma anche sulle aziende.
Sono tanti i fronti e altrettante le etichette che vengono citate per far fronte all’una e all’altra criticità: una prima corrente è quella del design inclusivo, una parola che è un po’ una buzzword ma che racconta bene come spesso l’utente di riferimento sia un insieme piuttosto limitato. Un ottimo esempio in tal senso è la Apple (che ha smesso di fare del buon design da una decina d’anni), un’azienda che da sola ha una fetta considerevole del mercato degli smartphone e che dopo aver introdotto il riconoscimento facciale integrato non riusciva a farlo funzionare su individui dalla pelle scura, donne col velo e uomini baffuti. Sempre legata all’inclusività c’è la questione dell’accessibilità, spesso vista come un qualcosa in più, studiata come capitolo a parte, e di rado presa davvero in considerazione. L’accessibilità è il grado in cui una tecnologia può essere fruita da persone con disabilità di vario tipo, sia fisiche che cognitive; un design responsabile dovrebbe porsi la questione accessibilità sempre e comunque.
Un’altra corrente che cerca di farsi sentire è quella del design sostenibile, dove con sostenibilità si intende quella ambientale, ma non solo. La parola sostenibile si declina anche in senso economico e sociale. In questo caso è visibile quanto sia limitato il potere del singolo progettista e quanto tocchi alle imprese di essere virtuose ed esserlo veramente senza scadere nel green washing. Il focus dello sviluppo passa dunque da essere l’individuo a essere prima l’umanità, poi tutto il pianeta.
Rimane il problema di come implementare in concreto questo cambiamento, in assenza di strumenti specifici. Le proposte fatte finora paiono solo direttive di natura politica a cui sembrerebbero non corrispondere tecniche o metodologie innovative che vadano poi a concretizzare l’agognato cambio di rotta. Non è così semplice, innanzitutto perché queste scelte politiche possono diventare una guida concreta nel momento in cui bisogna valutare delle scelte progettuali. In seconda istanza, a oggi sono a disposizione anche tecniche e processi del design thinking da cui attingere per creare un nuovo approccio. Infine, è fondamentale che l’innovazione diventi un’effettiva necessità da considerare all’interno di un progetto, ragionando quindi su tutto ciò che comporta fare della vera innovazione. In sostanza, il lavoro di ricerca va lasciato ai ricercatori, ma è necessario che anche gli imprenditori e i dipendenti inizino a porsi come agenti del cambiamento anche al costo (appartente) di sacrificare parte dei guadagni.
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