Questa recensione contiene un’analisi della trama di Matrix Resurrections che cita alcuni momenti della pellicola, niente che ne rovini troppo la visione. Se però siete talebani dello spoiler, il consiglio è di tornare qui dopo la visione del film.
Meta meta meta. E non parliamo del rebranding di Facebook: il nuovo Matrix Resurrections è metanarrazione all’ennesima potenza. Dopo molti anni di insistenze da parte della Warner Bros, Lana Wachowsky ritorna e rivolta come un calzino la creazione di vent’anni fa, con un film dai molti livelli di lettura: se ci si ferma al primo strato si rischia di giudicare in modo frettoloso e scambiare per una scialba particola quella che in realtà è un’opulenta millefoglie.
Sarebbe un peccato, no?
È una parola che leggerete spesso in questa recensione poiché è la cifra stilistica di quest’opera. Per metanarrazione s’intende una storia che parla di sé stessa autocitandosi e autoanalizzandosi. In tempi recenti un maestro in questo campo è Dan Harmon, autore di Rick&Morty e soprattutto di Community. È proprio lo stile di Harmon che viene in mente durante la visione di Matrix Resurrections: autocitazioni, easter egg e soprattutto parecchia autosatira. Matrix Resurrections sfotte tanto e sfotte tutti, in primis sé stesso.
Se la prima trilogia era cupa, seriosa e razionale, questo quarto episodio è colorato, ironico ed emotivo. C’è tanta autoanalisi e sembra quasi che Lana Wachowsky – conscia delle vulnerabilità del progetto – voglia anticipare tutte le possibili critiche citandole dentro al film, per disinnescarle attraverso la metanarrazione. Scelta un po’ paracula, ma anche efficace (e per certi versi elegante).
È evidente che questo film è inscindibile da Lana Wachowsky. Se non si conosce la regista, il suo percorso personale, il recente lutto che l’ha vista perdere i genitori, le altre sue opere (Cloud Atlas ma soprattutto Sense8), si perdono parecchi riferimenti.
La prima parte della pellicola rappresenta la genesi del film stesso, con Neo che incarna la stessa Lana. Lo troviamo alienato, rinchiuso in infinite riunioni di marketing per il rilancio del quarto episodio del videogame che l’ha reso famoso, voluto dall’azienda per cui lavora e che lui non vuole realizzare. Il gioco si chiama esso stesso Matrix e la Warner Brothers viene citata per esteso, e non benevolmente.
Nell’arco di tutto il film sono presenti numerosi spezzoni delle vecchie pellicole, spesso come vampate di ricordi repressi, talvolta sovrapponendo vecchi personaggi ai nuovi, o usando frasi iconiche (il «signor ANDERSOOOOON» che fu di Hugo Weaving c’è, tranquilli).
Per tutta la pellicola Lana Wachowsky salta da un personaggio all’altro. Da una parte è Bugs, che rivede in Neo e Trinity i genitori persi da poco, uniti da un amore che nessuno può sovrascrivere (la stessa Wachowsky ha ideato il plot in una notte insonne, nel quale ha realizzato che se non poteva riavere i genitori poteva almeno riavere Neo e Trinity).
Dall’altra Neo è Trinity, e insieme sono Lana: due facce dello stesso personaggio, maschile e femminile che si fondono e non possono fare a meno l’uno dell’altra, un entità unica che compie il proprio viaggio di scoperta e, infine, diventa un tutt’uno, finalmente completo.
È esemplificativo che in questa nuova simulazione sia Trinity il deus ex machina. Lei, che rifiuta la prigione dorata in cui ha due figli ed è sposata (della serie, cosa può volere di più dalla vita una donna?). Da questa prospettiva il momento in cui frantuma la faccia di suo marito con la sua iconica mossa dello scorpione è catartica. Per inciso, suo marito si chiama Chad: i riferimenti nei confronti dell’ideologia Red Pill – nel quale il maschio alfa è chiamato proprio chad – è palese e ancora più corrosiva, perché avviene nello stesso franchise da cui i Red Pill hanno preso il loro nome.
Matrix quindi come sistema imposto dalla nascita, da cui emanciparsi per trovare il vero sé, esterno al conformismo cui Neo e Trinity si erano piegati per ben vent’anni anni. Così il mito della scelta della pillola rossa o della pillola blu viene sfatato, la scelta non esiste: non si “sceglie” di essere ciò che si è, lo si è e basta.
Uscire da Matrix è doloroso, ma liberatorio: Matrix – come il conformismo – crea dipendenza, ma lo si realizza solo dopo essersene depurati.
Vent’anni e ventitré film Marvel dopo, l’Eroe reticente non è più una novità, anzi. Così la storia viene demolita e ricostruita su più moderni paradigmi. Il vecchio Matrix era semplice: buoni contro cattivi, umani contro macchine, nessuna scala di grigio. Ora invece la concezione binaria dell’esistenza viene cestinata per adottare una palette di colori narrativi più variopinta. Rimangono alcuni feticci di Matrix, come il concetto di loop e di déjà vu. E il bullet time, reinterpretato in chiave metasatirica.
Lo scontro non è più incernierato su contrapposte fazioni definite dal loro essere, quanto dal loro pensare.
Così c’è il mondo ipercontrollato e iperconformista del Matrix e c’è il mondo al di fuori di esso, che si crede progressista (e rispetto all’altro lo è), ma sottostà a una gerarchia militarista e a un dittatore illuminato, in una città fortezza con torri-alveare che appaiono paradisiache, ma ricordano troppo le torri d’incubazione dove vengono coltivati gli umani: un parallelismo alquanto grottesco.
Né una visione né l’altra sono però quello a cui anelano i protagonisti, che cercano una terza via rappresentata dalla pulsione che spinge l’intero franchise: l’amore.
In questo quarto episodio le emozioni e la ricerca di sé trascendono l’involucro biologico. Vediamo infatti sintezoidi e programmi cercare e trovare il loro percorso aiutando, in collaborazione con gli esseri umani, i loro simili che ripudiano Matrix. Ora la coscienza, sia essa biologica o sintetica, non può prescindere dalle emozioni. La “razza”, il noi e il loro, la visione binaria dei primi tre episodi è quindi evoluta e maturata, così come ha in parte fatto la nostra società. È una piacevole constatazione.
La prima cosa che salta all’occhio dalle prime interazioni dei personaggi è la parodia della sacralità che molti fan hanno associato alla prima pellicola della serie.
Emblematico in questo senso è il personaggio di Morpheus, oggetto di recast e interpretato da un brillante Yahya Abdul-Mateen II. In questa versione reboot Morpheus è la parodia del precedente sé stesso colpevole di essere troppo teatrale, troppo costruito. Arriva addirittura a presentarsi a Neo uscendo dal cubicolo di un bagno pubblico, cosa che lui stesso fa notare senza peli sulla lingua. Veste abiti sgargianti e li cambia di continuo. Ride. Una versione quindi diversa dall’originale, frutto di una generosa smerigliata in fase di scrittura.
Se il recast di Morpheus può far storcere il naso ma tutto sommato funziona, non è così per l’agente Smith. È forse il personaggio con la scrittura più insipida, una pallida immagine della versione implacabile e tormentata di Hugo Weaving.
Troviamo un’anziana Niobe che incarna da una parte il pacifismo e dall’altra la sua degenerazione, che preferisce non agire piuttosto che farlo e pagarne le conseguenze. Non ha molto screen time e il personaggio ne risente, così il suo cambio di prospettiva non viene approfondito in modo adeguato, risultando affrettato.
Torna anche il Merovingio, che nella sua brevissima apparizione è la macchietta di sé stesso, nonché la voce infantile – e per questo forse più sincera – della metanarrazione: spara insulti per nulla figurati nei confronti della Hollywood odierna, incapace di accettare nuove idee come fece vent’anni fa proprio con Matrix. È, invece, sempre in cerca di vecchie proprietà intellettuali da rispolverare, di cui Matrix Resurrections stesso ne è ora esempio lampante. E giù di «merde» e «putain», sputati a denti stretti (e marci).
In questo senso per gli appassionati di Sense8 questo film ha un significato ulteriore. Per loro la cancellazione di questa serie innovativa brucia ancora, e a quanto pare brucia anche alla Wachowsky. La sensazione è che uno dei vari layer della storia abbia a che fare con questo aspetto, del tipo «cara Hollywood, investi milionate in un vecchio franchise decotto come Matrix e cancelli un’idea nuova come Sense8? Senti qua cosa penso di te…». Non è un caso che tra i nuovi volti del cast ci siano alcune vecchie conoscenze della serie: Max Riemelt, Brian Jacob Smith, Eréndira Ibarra e Michael Rae Sommers.
Ma la vera rivelazione è Bugs, interpretata da una Jessica Henwick in stato di grazia. Bugs è il vero motore del film, la mano che muove il telaio che intesse la storia. Una leader giovane, autorevole e al contempo antiautoritaria, guidata da una profonda spinta a fare sempre e comunque quello che dentro di sé sente essere giusto.
Considerando il suo recente lutto, forse, più o meno consciamente, Lana Wachowsky ha proiettato in Bugs lo stato d’animo che vorrebbe indossare: sicura di sé, fiduciosa e talmente solida da non lasciarsi mai prendere dallo sconforto.
Si adatta ai tempi anche la mentalità del villain principale. Passiamo dalla fredda e implacabile precisione matematica dell’Architetto alla suadente, subdola manipolazione psicologica dell’Analista (interpretato da uno strepitoso Neil Patrick Harris): dopotutto, i sentimenti sono molto più facili da controllare (parole sue).
La metafora è una chiara critica alla macchina mediatica populista, rea di sfruttare sentimenti come rabbia e paura per plagiare le masse. Lana Wachowsky non ha certo scritto il suo film pensando alla situazione italiana, ma la similitudine tra l’Analista e “quel” famoso social media manager caduto in disgrazia mentre lavorava per un ancor più famoso (e affamato) politico è davvero inquietante.
Per inciso, è incredibile come i soggetti delle Wachoswky vengano così spesso cooptati da ideologie che sono la degenerazione del loro messaggio originale: pensiamo a V per Vendetta (di cui sono sceneggiatrici) con i movimenti populisti, o lo stesso Matrix con l’ideologia Red Pill.
Questa volta il messaggio è molto più diretto. Nel finale è addirittura esplicito, «dipingere il cielo di arcobaleni», che scritto da Lana Wachowsky non dà spazio a interpretazioni. Un approccio utile a evitare fraintendimenti come successo col primo Matrix, ma che rende il corpo nudo della trama meno intrigante dell’allusivo vedo-non vedo del resto della pellicola.
Leggi anche: Spider-man: No Way Home, la recensione – theWise@theCinema.
Bisogna aver visto i precedenti tre film?
Senza ombra di dubbio, si riprende in mano la storia dando per scontato tutto il trascorso. Molti ricordano bene il primo film, molto meno gli altri due. No, vanno recuperati tutti.
Non conosco granché le altre opere della regista di Matrix. Il film è comunque godibile?
Certamente, si perdono solo alcuni dettagli ma la storia rimane godibilissima.
Ho amato i primi tre Matrix. Questo mi piacerà?
Dipende. Chi è rimasto fossilizzato a vent’anni fa potrebbe non apprezzare l’opera di rinnovamento. Chi ha seguito l’evolversi della società e le vicende personali delle due registe, forse, sì.
Si sente la mancanza della sorella, Lana Wachowsky non brilla in solitaria. In particolare nelle scene d’azione corali, che risultano caotiche: il montaggio troppo serrato e le inquadrature claustrofobiche non fanno capire bene lo svolgersi dell’azione. Bene invece i duelli. Sono presenti tante scene dalla vecchia trilogia, utili per riportare alla memoria le vecchie vicende, ma sono troppe. Anche lo scontro finale con il faceless army non è una scelta granché felice: molto scura e forse inficiata dai limiti sulla quantità di persone sul set imposti dalla pandemia. Quando il ritmo cala invece escono le qualità della Wachoswky, che sfrutta la fotografia in modo poetico per evidenziare i dialoghi, ossia la parte più profonda della pellicola.
Sotto le aspettative.
Voto: 7
La metanarrazione ricorda Dan Harmon, il che è un bene: non è certo uno alle prime armi quando si parla di scrittura autoreferenziale. La costruzione di una narrazione autoconsapevole su più livelli, pur senza abbattere la quarta parete, è efficace e reinterpreta il senso dell’opera in chiave moderna, togliendosi numerosi sassolini dalla scarpa. Non era facile, ci sono riusciti. In generale la scrittura è pregevole, carente solo nel definire alcuni personaggi. C’è il solito vizio Wachowsky di spiegare troppo: sarebbe stato meglio lasciare maggior spazio all’interpretazione, specialmente nel finale.
Una piacevole sorpresa.
Voto: 9,5
Cambia completamente l’approccio. Addio al filtro “verde Matrix“: la nuova gamma cromatica è calda e meno monotona. Molte le luci di taglio, con lo scopo di esaltare i visi e soprattutto il colore degli occhi degli attori, aiutandoli a restituire un’interpretazione più intensa. Perde colpi solo nel finale, troppo scuro, forse per abbattere i costi della Cgi.
Diversa.
Voto: 8
In un film de menare come Matrix Resurrections questa sezione extra non può mancare, sebbene in questo nuovo capitolo il focus sia molto meno incentrato sull’azione. I combattimenti sono sempre di ispirazione Kung Fu nello stile spettacolare del cinema cinese, ma rimasti a un modo di costruire le coreografie old school: molto teatrali, poco realistici e non sono evidenti stili di combattimento diversificati per i personaggi, come ad esempio fatto in maniera eccelsa in Shang Chi con il sapiente uso di varie arti marziali (in particolare Tai-Chi e Wing Chun). Unica eccezione Keanu Reeves, ma solo per merito del suo inconfondibile stile personale e del fatto che fa da solo buona parte degli stunt.
Migliorabili.
Voto: 7,5
Cambia il compositore e sebbene cali leggermente la qualità, rimane più che buona. Presenti cospicui innesti dei vecchi temi. C’è tutta l’epica che serve, esaltando ciò che gli occhi vedono senza mai sovrastarlo.
Onesta.
Voto: 7,5
Bene nel contesto di Matrix, mediocri nel cinema odierno. Gli effetti pratici sono realizzati bene, mentre la Cgi restituisce una sensazione troppo artificiale, in alcuni momenti posticcia, soprattutto nel finale.
Migliorabili.
Voto: 7
Pregevoli i costumi, innovati nella palette dei colori. Ne sono dei magnifici esempi i tanti cambi d’abito del nuovo Morpheus. Colore anche nelle acconciature: gli “avatar” in Matrix ora hanno spesso e volentieri capelli sgargianti (a parte John Wick… ehm ehm… Neo). Lascia a desiderare l’invecchiamento posticcio di Niobe.
Alti e bassi.
Voto: 7,5
Keanu Reeves
Non sul pezzo come al solito, complice forse un problema di doppiaggio (Luca Ward sembra un filino appannato, ma è da rivedere in lingua originale per chiarire questo aspetto). La performance non è tra le più espressive di Reeves ma neanche tra le peggiori. Sembra stanco, anche dopo il suo “risveglio”. Tutto si capovolge nelle scene d’azione: Reeves ha un suo personale stile di combattimento che trascende i film, è lui ed è riconoscibile. Il che è un bene.
Monotono.
Voto: 8
Carrie-Anne Moss
Molto più in forma rispetto a qualche anno fa in Jessica Jones, il tempo le ha donato uno sguardo meno metallico e più materno. La sua interpretazione è profonda e i suoi sguardi trasmettono più dei dialoghi che le vengono messi in bocca.
Brava.
Voto: 8,5
Jessica Henwick
Spacca i culi, è la vera protagonista e motore della storia, lo sa e se ne fa carico alla grande. Il personaggio le calza a pennello, lo interpreta con profondità, gli conferisce spessore. Dopo un inizio tiepido nel Trono di spade e una performance così così per la Marvel in Iron Fist, qui finalmente rivela le sue doti, e che doti! Anche nelle scene d’azione si vede che non è una alle prime armi.
La migliore.
Voto: 9,5
Yahya Abdul-Mateen II
Ci vuole fegato per accettare la sua parte, Morpheus è uno dei personaggi iconici di Matrix. Però la sua parte è scritta bene, forse con un taglio sartoriale sulla sua fisicità, molto diversa da quella di Laurence Fishburne. Lui trasforma la sfida in occasione, e restituisce un Morpheus nuovo ma credibile.
Coraggioso.
Voto: 8
Neil Patrick Harris
Wow! Ne ha fatta di strada dal Barney di How I Met Your Mother. Sornione, manipolatorio, strafottente. Gli basta un’alzata di sopracciglio per comunicare più che con i lunghissimi spiegoni che gli vengono assegnati. Viene voglia di vederne ancora.
Faccia da sberle.
Voto: 9
Jonathan Groff
Lui di per sé è un bravo attore, il problema è più che altro di scrittura: se Morpheus è stato rivoluzionato per adattarlo al recast, così non si può dire dell’agente Smith. Rimane comunque una prestazione mediocre, che non si sforza di trovare la quadra al personaggio. La faccia da Wasp poi non aiuta, paragonata alla particolarità del viso di Hugo Weaving.
Deludente.
Voto: 5,5
Jada Pinkett Smith
Il pessimo trucco per invecchiarla non l’aiuta, e nemmeno la scrittura del personaggio. Ma lei fa ben poco per invertire la rotta.
Rimandata a settembre.
Voto: 4,5
Voto del cast, ponderato in base al minutaggio: 8,5
Voto globale del film: 8
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