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Curiosità

Segnali di Battiato: theWise incontra Fabio Zuffanti

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Davide Zazzini

La voce del padrone di Franco Battiato ha appena compiuto quarant’anni, e rimane un classico intramontabile della canzone italiana. Un’opera mirifica, oltre che il primo disco nel 1982 a raggiungere il milione di copie vendute in Italia.

Per questo theWise Magazine oggi ha incontrato Fabio Zuffanti, musicista e scrittore, oltre che uno dei nostri “battiatologi” più illustri, che ha appena pubblicato Segnali di vita. La biografia de La voce del padrone di Franco Battiato (Baldini+Castoldi, 240 pp.). Uno studio approfondito e appassionato, arricchito da interviste, testimonianze e aneddoti sul disco-svolta della carriera di Battiato che completa un trittico iniziato nel 2018 con Battiato – La voce del padrone: 1945-1982, nascita, ascesa e consacrazione del fenomeno (Arcana) e continuata con Franco Battiato: tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019 (Arcana).

Leggi anche: Franco Battiato non è morto, è nell’Ombra della luce.

Scrittore, musicista e giornalista Fabio Zuffanti nasce a Genova il 5 Giugno 1968. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Caro Fabio, cosa significa Battiato per te e da dove nasce la voglia di ricostruire genesi e significati di questo disco così importante?

«Battiato è stata una figura importantissima per la mia esistenza artistica di musicista e scrittore, ma anche per ciò che sono e sono diventato. Quando l’ho scoperto all’età di tredici anni con La voce del padrone è stato una rivelazione. E poi ancora di più mi sono innamorato del Battiato precedente, che era una cosa molto diversa dal La voce del padrone. Andando avanti con gli anni rimanevo sempre più stupito dalla quantità di cose che riusciva a realizzare: opere liriche, cinema e tutto il resto. Per cui mi è stato di ispirazione perché l’artista che piace a me non smette mai di mettersi in gioco, di creare situazioni diverse, nuove. Come nel mio piccolo ho fatto anch’io che non mi sono accontentato di una cosa sola ma ho spaziato in lungo e in largo».

Una delle cose più interessanti, infatti, del libro è che non è solo la biografia di Battiato, ma anche quella di Fabio Zuffanti. Nel senso che si racconta anche questa iniziazione misterica di un giovane tredicenne che scopre questo disco come un oggetto magico e ne rimane estasiato.

«Mi fa piacere che emerga questa scelta, perché da alcuni è stata criticata. Dato che il disco è stato così decisivo per me ho deciso di mettermi in prima persona a raccontare la mia “iniziazione” all’universo Battiato. Qualcuno ha detto che non c’entra nulla col libro. In realtà c’entra tantissimo perché è un disco che mi ha segnato personalmente, ma soprattutto per focalizzare l’attenzione su quanto negli anni Ottanta possedere un disco, innamorarsene, fare di tutto per averlo fosse un’esperienza importante di affezione verso le cose. Non c’era la possibilità come adesso di passare da una traccia all’altra senza neanche accorgersene».

In appendice, infatti, Vittorio Nocenzi (Banco del Mutuo Soccorso) celebra il modo “fisico”, ormai diventato quasi vintage, di ascoltare musica, fatto di vinili, cassette, sterei rispetto alla fruzione liquida di oggi.

«Sì, personalmente non ho niente contro la tecnologia e non mi piace dire una volta si stava meglio. Detto questo, è indubbio che avere tutto disponibile su Spotify o You Tube, oggi, è diverso dalla curiosità quasi morbosa che poteva suscitare un tempo ascoltare un disco alla radio, e fare di tutto per averlo. E questa dinamica stimolava sicuramente la passione».

Tra le altre testimonianze in appendice, Franco Zanetti (Rockol), sostiene: «Alle mie orecchie oggi il disco arriva come troppo consumato dall’uso e dall’abuso dovuto al clamoroso successo». Immagino tu non sia d’accordo.

«Sì, nelle appendici ho voluto inserire varie persone che hanno detto la loro sul disco comprendendo sia chi lo elogiava, sia chi lo crtiticava. Alcune di queste appartengono a una generazione precedente alla mia, come Zanetti. Hanno vissuto un altro Battiato, io ci sono arrivato a tredici anni, con le orecchie vergini, avendo ascoltato non tantissima musica prima. Probabilmente se avessi conosciuto Battiato ai tempi di Fetus o Pollution, sarei arrivato a La voce del padrone e avrei detto “Si è commercializzato, non mi piace più!”. Invece è stata la mia iniziazione, per cui rimane un disco per me fondamentale. Ma non solo per me o per Battiato, per tutta la musica italiana».

Nel libro, inoltre, presenti più volte Battiato come lucido venditore sul mercato di sé stesso. Nel senso che lui aveva previsto e calcolato perfettamente il successo stellare de La voce del padrone.

«Vero, è stato un passaggio epocale in Italia perché non si era mai visto un’artista che in pochi mesi, dal 1978 al 1979, passa da un disco come L’Egitto prima delle sabbie a L’Era del Cinghiale bianco. Dischi completamente diversi, uno totalmente sperimentale, l’altro che comincia questa sorta di “pop alla Battiato”. In realtà, poi, lui, sin dagli inizi della sua carriera sperimentale, ha sempre tenuto un piedino nel pop con Giorgio Gaber, con Ombretta Colli, o il cantuatore Alfredo Cohen. Ma questo non aveva bloccato la sua volontà di sperimentare, che poi era sempre una volontà di sperimentare su se stesso, sul proprio carattere, sulla propria anima.

Tuttavia, a un certo punto, complice anche il fatto che non riusciva più a mangiare, comprende forse che ci doveva essere quel salto. Chiaramente lo ha fatto con una volontà scientifica perché aveva capito perfettamente in quel momento quale disco avrebbe potuto fare il botto che ha fatto. Io, veramente, ogni volta che ci penso mi stupisco. Però era uno che sapeva fiutare bene l’aria e ha saputo cogliere il momento giusto».

Leggi anche: Gaber e il giornalismo, storia di un conflitto.

Questa sperimentazione, nel libro è spiegato diffusamente, passa anche dalla capacità di giocare e ironizzare con la propria identità massmediatica. Battiato mostra in tv un certo snobismo scherzando anche con la propria estetica, con cambiamenti nel proprio corpo, negli abiti, nei look. Anticonformismo che si riverberà nella copertina del disco, ma anche e soprattutto tessuto delle canzoni.

«Sì, certo, assolutamente. Non dimentichiamo poi, che questo già è evidente anche quando faceva dischi sperimentali, e per alcuni completamente “inascoltabili” come Click. Soprattutto lì, come in questo disco è evidente una grande ironia. Ed è lo stesso atteggiamento che, poi, nei testi si è traslato in La voce del padrone, con questi collage di riprese e spunti dal vero e da fonti disparate che sembrano non c’entrino nulla l’uno con l’altro. E invece hanno tutti il loro senso».

Battiato, per di più, sapeva ironizzare pure sull’identità autoriale, reclamando l’appartenenza o la distanza a certe frasi, a certe credenze, a certi modi di pensare. E amava anche nascondersi dentro la pelle degli ascoltatori assorbendo perfettamente il loro modo di pensare e parlare. Può essere questa una delle ragioni nascoste del successo del disco?

«Sicuramente. Come dicevo prima Battiato ha saputo fiutare qualcosa nell’aria sia a livello musicale che di contenuti. Lui stesso in alcune interviste afferma: “Certe cose non le dico perché le penso, ma perché ho un sentore”. Ad esempio: “A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata” era pensato per per le giovani generazioni, in cui vedeva la volontà di lasciarsi alle spalle tutto il vecchiume della musica classica. Per cui si faceva portavoce di questo sentire. Poi anche lui in realtà amava in maniera non so quanto consapevole contraddirsi continuamente: in un’intervista dichiarava che certe cose le scriveva per il pubblico e in un’altra, invece, che le scriveva per se stesso. Però il pubblico è stato a questo gioco, e in qualche modo ha decretato il successo del disco».

Audio completo con le sette tracce del disco: Summer on a solitary beach, Bandiera bianca, Gli uccelli, Cuccurucù, Segnali di vita, Centro di gravità permanente e Sentimento nuevo.

Il capitolo È bellissimo perdersi in questo incantesimo. Canzoni, non canzonette colpisce per profondità di analisi quasi filologica dei testi, smontati e ricostruiti in tutto il ginepraio di citazioni e riferimenti culturali. L’impressione, però, è che ci sia ancora molto altro da scoprire tra le righe, che insomma questo “sintomatico mistero” continui.

«Assolutamente sì, io ho cercato di dare una traccia dei significati più macroscopici che hanno da sempre incuriosito una larga fascia di pubblico. Ma se andiamo a scavare potremmo addirittura parola per parola trovare significati e riferimenti alla cultura musicale e varia. E questo è solo un disco, figuriamoci se andassimo a sviscerare proprio tutta l’opera di Battiato… Però, in fondo, è anche giusto che molte cose rimangano avvolte nel mistero e che ognuno poi trovi il significato che vuole».

Leggi anche: Franco Battiato, anarchico del pensiero e proletario dello spirito.

Per chiudere, vorrei tornare ciclicamente ai temi d’apertura: perché un tredicenne oggi dovrebbe ascoltare La voce del padrone?

«Inanzitutto mi auguro che un tredicenne di oggi abbia voglia di ascoltare La voce del padrone. In realtà poi può benissimo non farlo perché probabilmente si fa bastare quello che ha. Il problema è che non è interessato a capire cosa è venuto prima, a capire quello che ascolta da dove verrà. Questa curiosità in generale non c’è. Ma se avesse voglia, scoprirebbe in Battiato quell’artista che ha portato il pop italiano a evolversi in tante cose che vanno adesso. Sicuramente Battiato è stato un precursore di mille cose. Quindi mi augurei che il tredicenne facesse questo sforzo perché è un periodo questo in cui ci si accontenta del presente, non si vuol sapere nulla del futuro perché ci fa paura e quindi non se ne parla. Il passato è passato e quindi il vecchio è roba da scartare e quindi ci si accontenta del presente».

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Davide Zazzini

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