Elezioni presidenziali Francia 2022: parla Raffaele Alberto Ventura

Mancano tre mesi al primo turno delle elezioni presidenziali in programma il 10 aprile 2022 in Francia. Non è mai successo (fa eccezione Charles De Gaulle nel 1958), nella storia della Quinta Repubblica, che un candidato prevalesse senza ballottaggio.

La politica francese è parecchio frammentata. Il crollo dei partiti “storici” è stato certificato dall’ultimo appuntamento che i francesi hanno avuto con le urne elettorali, in cui il centrista indipendente Emmanuel Macron ha sconfitto di molto al secondo turno la sovranista del Fronte Nazionale (oggi Rassemblement National), Marine Le Pen.

Oggi, qualcuno, sia a destra che a sinistra, sta provando – forse senza costrutto – a rimettere insieme i pezzi di una cultura politica che fatica a rinnovarsi. La sinistra in Francia si presenterà con ben otto candidati alle elezioni presidenziali:

  • Anne Hidalgo con i socialisti;
  • Nathalie Arthaud con Lotta Operaia;
  • Yannick Jadot, candidato degli ecologisti;
  • Jean-Luc Mélenchon, leader del movimento La France Insoumise;
  • Arnaud Montebourg, ex ministro, indipendente;
  • Philippe Potou con il Nuovo Partito Anticapitalismo;
  • Fabien Roussel del Partito Comunista francese;
  • Antoine Waechter, verde.

Nessuno di questi candidati in Francia è un nome realistico per la vittoria finale alle elezioni presidenziali, ed è probabile che non lo sia neppure per arrivare al ballottaggio, dove secondo i sondaggi sarà una sfida tra Macron e una personalità di destra. Ed è proprio la destra a poter vantare una maggiore resistenza elettorale, malgrado le numerose propaggini populiste e sovraniste.

Alle elezioni presidenziali di aprile in Francia sarà di nuovo Marine Le Pen contro Emmanuel Macron oppure il polemista di estrema destra Éric Zemmour riuscirà a fare breccia nel cuore di tenebra dei francesi insoddisfatti? E l’outsider dei Républicains, Valérie Pécresse, quali chance ha di sbaragliare la concorrenza e diventare la prima presidente donna della Repubblica francese?

Lo abbiamo chiesto a Raffaele Alberto Ventura, firma del quotidiano Domani, autore dei saggi Teoria della classe disagiata (Minimum Fax, 2017), La guerra di tutti (Minimum Fax, 2019) e Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti (Einaudi, 2020), ma soprattutto osservatore della vita culturale e politica francese.


Che cos’è questo «effetto Zemmour»? Continua a crescere oppure ha cominciato a ridimensionarsi dopo la roboante discesa in campo annunciata in un video con evidenti richiami all’Appello del 18 giugno di Charles De Gaulle?

«C’è ancora molto tempo prima del primo turno delle presidenziali, in primavera, e tante cose potrebbero cambiare, sia nell’offerta di candidati che nella politica. Per esempio nei prossimi mesi subiremo la frustata dei rincari sull’energia e sui prodotti alimentari, tema che aumenterà il malcontento ma forse lo dirotterà su temi economici, che non sono il forte di Zemmour.

La prima impressione sulla sua discesa in campo è stata quella di un petardo bagnato, dopo una fase in cui era stato gonfiato dai media. Quello che è emerso è che il suo chiodo fisso è uno solo: l’immigrazione. Ma basta a sostenere un’intera candidatura? Credo proprio di no. Ma qualche imprevisto potrebbe cambiare la percezione dell’opinione pubblica».

Come si potrebbe spiegare a un elettore italiano l’orientamento politico di Éric Zemmour cercando, nei limiti del possibile, di attingere dal nostro sistema politico?

«In un articolo su Domani ho cercato di spiegare l’anomalia di un’offerta politica più a destra della destra (Fronte Nazionale) che però viene da una storia e una cultura di centro, creando un paradosso: candidato più radicale e nello stesso tempo più rassicurante, perché il Fronte Nazionale è molto connotato dalla sua storia innervata nella stagione del neofascismo francese, nel collaborazionismo di Vichy, e prima ancora nell’Action française, nell’anti-dreyfusismo, nella contro-rivoluzione.

Per me il paragone italiano più parlante è quello con Oriana Fallaci, che ha davvero precorso questa radicalizzazione del centro col suo anti-islamismo feroce».

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Raffaele Alberto Ventura.
«Tout est morale dans les individus, tout est physique dans les masses» scriveva Benjamin Constant, ripreso da Zemmour non molto tempo fa in una delle sue consuete apparizioni televisive mentre cercava di spiegare, parlando di immigrazione, come la libertà individuale sia stata soppiantata da una morale collettiva che sarebbe intrinsecamente corrotta. I suoi avversari lo accusano spesso di strumentalizzare i grandi pensatori francesi, ma qual è il vero retroterra culturale di Éric Zemmour?

«Zemmour è una persona colta, che sa parlare e mobilitare riferimenti culturali efficaci. Uno dei suoi trucchi retorici più frequenti è quello di mostrare come certe sue idee fossero anticipate da pensatori di sinistra, nell’Ottocento o inizio Novecento, in particolare per quanto riguarda l’assimilazionismo. Più spesso, insiste su come la sinistra a partire dagli anni Sessanta e Ottanta (con Mitterand) sia stata la “causa di tutti i mali”, con la complicità passiva del centrodestra (Chirac).

Questa capacità di mobilitare riferimenti storici è la sua forza ma anche la sua debolezza: perché se da una parte gli serve a mostrarsi più solido sul piano intellettuale rispetto ai suoi interlocutori, presi in trappola nelle loro contraddizioni, dall’altra bisogna chiedersi se davvero l’elettorato popolare al quale si rivolge ha sempre la pazienza di seguirlo nei suoi excursus storici, in quelle che possono apparire tutto sommato come polemiche tra intellettuali.

Detto questo, Zemmour mostra i suoi limiti da intellettuale nei suoi libri, che presentano un racconto della storia francese molto vago, consolatorio, approssimativo e spesso disinformato: si potrebbe dire che quello che tenta di fare non è un rigoroso lavoro storiografico, bensì una forma di storytelling populista».

Perché un elettore di Marine Le Pen dovrebbe votare Éric Zemmour e, viceversa, per quale motivo un potenziale elettore di Éric Zemmour dovrebbe invece sostenere Marine Le Pen?

«Non bisogna pensare agli elettori medi, a un idealtipico “elettore di X”. Bisogna pensare ai flussi elettorali, ai margini di espansione, al fatto che un’offerta elettorale soddisfa sempre diverse domande e che l’apparizione di una nuova offerta riconfigura l’intero campo. In questo senso, devi pensare soprattutto al margine costituito da un elettore di centrodestra o destra che vota Le Pen a malincuore (perché a disagio col suo passato) o al contrario i repubblicani trovandoli troppo teneri.

In questo senso Zemmour ha una “apertura alare” in potenza molto ampia, ma alla prova dei fatti non è detto né che riesca a passare il primo turno, né che possa aggregare una maggioranza assoluta al secondo turno».

A scuotere il tandem nazionalista Le Pen-Zemmour c’è però un’outsider che mira al ballottaggio: il suo nome è Valérie Pécresse, candidata dei repubblicani e continuatrice della complicatissima eredità dell’ex presidente Nicolas Sarkozy. Quali sono le sue chance?

«Qui siamo nel campo delle strategie e degli imponderabili. Pécresse ha buone chance legate al classico paradosso di Condorcet: candidata tiepida in un’epoca convulsa, sembrerebbe non avere chance ma in fondo è il “second best” di quasi tutti gli elettori. Secondo me tutto si deciderà nell’ultimo mese in funzione delle congiuntura politico-economica». 

La forza, perlomeno nei sondaggi – dove la sinistra paga un’insanabile frammentazione –, della destra francese impone una seria riflessione sullo spettro politico della République: la finestra di Overton in Francia è davvero spostata così tanto a destra, come dimostra il camaleontismo di Macron, che rincorre i gollisti sul patriottismo e il Rassemblement National sulla libertà religiosa? 

«La finestra di Overton francese è sicuramente spostata a destra, o meglio sull’anti-islamismo: convergono la destra col suo razzismo classico e la sinistra con una diffidenza culturalista, di matrice repubblicana, laicista, per le comunità religiose. In questo senso credo che avrebbe maggiori possibilità, magari nel 2027, un candidato sovranista di sinistra, repubblicano e assimilazionista, in grado di far convergere queste due domande politiche in un’offerta meno aggressiva di quella di Zemmour.

Fino a oggi questi esperimenti politici, da Chevenement a Montebourg, non hanno mai preso piede, ma i tempi potrebbero diventare maturi. Non che me lo auguri, ma per come è costituito l’assetto istituzionale francese pare ovvio che al secondo turno possa battere il candidato di centro soltanto un candidato che sarà in grado di aggregare gli estremi: e direi che nel 2022 questo non è un esito realistico. Quell’area traversale tra destra e sinistra è oggi coperta dal filosofo best seller Michel Onfray, che però non è proprio un fulmine di guerra».

La Francia sembra sul punto di esplodere ogniqualvolta ci si avvicina alle elezioni presidenziali, ma nella storia della Quinta repubblica le urne non hanno mai premiato i candidati anti-sistema, a causa di un sistema elettorale creato su misura per impedire agli estremisti di vincere. Stavolta sarà di nuovo così, vista l’inarrestabile crollo dei partiti tradizionali, già suggellato dal successo di Macron nel 2017, oppure anche oltralpe sono tornati di moda alcuni modi di pensare e di vedere la società che credevamo defunti? 

«Come dicevo, credo che nel 2022 non ci sia ragione di temere una vittoria degli estremisti al secondo turno. Ma a ogni tornata il margine si assottiglia, e visto che le cose non migliorano il trend dovrebbe essere confermato nel 2027, magari con una vera sorpresa a quel punto. Vero è che se il centro continua a inseguire lo slittamento verso destra dell’elettorato, sul breve termine depotenzia l’offerta populista, anche se sul medio-lungo lo legittima. Zemmour non vincerà ma ha impresso i suoi temi sull’intero dibattito».

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