Cos’hanno in comune Parasite e Don’t Look Up; La casa de papel e Squid game; Snowpiercer e Il buco? Sono tutte storie di critica sociale, racconti dissonanti sul mondo contemporaneo che adoperano e veicolano contronarrazioni semplici ed efficaci. Lo fanno anche sfruttando i media mainstream, mezzi di propaganda di quel sistema comunicativo che in teoria dovrebbero contestare.
La narrazione dominante
“Narrazione dominante” è una di quelle espressioni che significa tutto e il contrario di tutto. È una categoria vuota e malleabile, applicabile a contesti diversi, spesso opposti. Per esempio, «i ricchi sono avidi e cattivi» e «chi fa i soldi è un vincente» sono entrambe due narrazioni diffuse sul tema della ricchezza e dell’arricchimento.
Una narrazione dominante, dunque, non è soltanto quella privilegiata dai media e dalle istituzioni deputate al racconto del reale. Sono dominanti anche tutte quelle narrazioni che il fruitore accetta a livello inconscio, a prescindere dalle sue idee e opinioni coscienti.
Il compito della critica, quando opera sul campo della narrazione o della rappresentazione, è proprio quello di mettere in discussione queste narrazioni. Per riuscirci, il narratore ha diverse strade a disposizione, a prescindere dalla forma scelta per narrare. Si può parodizzare una narrazione dominante; si può cercare di correggerla; ma soprattutto si possono adoperare “contronarrazioni” nel tentativo di rovesciare il racconto egemone. In questi casi non è raro che la contronarrazione sia in realtà un’altra narrazione diffusa e popolare. Questa viene usata per contestare quella che si considera la maniera prevalente di raccontare le cose, come nel caso della ricchezza citato in precedenza.
Semplicità vs complessità
Per divenire dominante è necessario che una narrazione sia semplice. «Gli immigrati rubano il lavoro agli italiani» o «togliamo il vitalizio ai politici per risanare le casse dello Stato» sono narrazioni efficaci perché danno risposte semplici a un problema complesso del tipo «non c’è lavoro». Anche quest’ultima frase, a pensarci bene, è una narrazione dominante, proprio perché riduce a pochi e semplici elementi un fenomeno sociale che è molto più articolato di come viene raccontato.
Siamo spesso portati a pensare che per contrastare la semplicità sarebbe necessaria la complessità. Ma se sul piano della fattualità è vero che a domande complesse devono corrispondere risposte complesse, sul piano del racconto e della rappresentazione la complessità è quasi sempre un nemico.
Senza entrare nello specifico delle narrazioni, pensare anche solo di spiegare al grande pubblico i fenomeni complessi su cui si base la società contemporanea, e la vita dell’Homo sapiens in genere, con modelli altrettanto complessi è un’assurdità. È evidente che affinché l’umanità creda alla forza di gravità, quest’ultima deve essere spiegata con semplicità come un’attrazione verso il centro della terra, sebbene la spiegazione completa sia molto più articolata. È altrettanto giusto che nella testa di tutti il cancro sia una malattia che viene (come se arrivasse dall’esterno per entrare nel corpo umano) se si tengono alcuni comportamenti insalubri. La semplicità nelle spiegazioni, nei racconti e nelle rappresentazioni è un vantaggio evolutivo.
Dunque, mentre il compito dei tecnici e degli esperti è risolvere il problema applicando le soluzioni complesse a cui spesso si giunge con fatica, il compito dei narratori è comprendere la complessità tanto del problema quanto della soluzione e ridurla a un linguaggio narrativo semplice, senza con ciò sacrificare verità e autenticità.
Scontro fra narrazioni
Nel campo sociale e politico questo meccanismo ideale si perverte. In questioni di questo genere non ci sono verità oggettive, e ogni rappresentazione si inserisce all’interno di uno scontro eterno fra narrazioni diverse. Il fatto che questa lotta sia stata più evidente in alcuni momenti storici (basti pensare alla propaganda culturale durante le Guerre mondiali o la Guerra Fredda) non toglie che il conflitto fra visioni diverse su uno stesso tema, e dunque fra maniere diverse di raccontarlo, sia una costante della narrazione stessa, e ciò a prescindere dal grado di consapevolezza degli eventuali autori.
Tutte le narrazioni, però, anche quelle in apparenza scientifiche o obiettive, veicolano sempre una sfumatura politica o sociale. Narrare, quindi, vuol dire sempre entrare in una guerra mediatica, in difesa di una visione egemone, oppure con un attacco critico. Anche la velleità di un’asettica neutralità è una presa di posizione, per quanto inconsapevole.
Usare contronarrazioni semplici
A maggior ragione quando si decide di adoperare un classico mezzo di narrazione, come la letteratura, il cinema o le serie televisive, si deve tenere conto di questa inevitabile semplificazione. Ciò vale soprattutto per l’audiovisivo. Innanzitutto, perché ha dei tempi precisi e canonizzati entro cui far rientrare il racconto. In secondo luogo, perché è una forma di comunicazione di per sé attrattiva, e che non richiede troppa fatica al fruitore. Questo comporta l’ingrandirsi esponenziale del pubblico e la necessità ancora più impellente di semplificare il messaggio.
Realizzare un film o una serie televisiva che vuole criticare un’opinione egemone (o instaurare una contronarrazione forte) puntando sulla complessità significherebbe servire un assist proprio alla narrazione dominante che si intende combattere. Quest’ultima, infatti, conserverebbe il fascino della semplicità, che coccola e rassicura il pubblico. È in questa maniera che opere recenti con un messaggio critico incisivo sono riuscite a raggiungere un pubblico vastissimo.
Parasite e Snowpiercer, del regista sudcoreano Bong Joon-ho, sono senz’altro ricche di metafore e allegorie. Il messaggio di critica centrale, tuttavia, è semplice e diretto: «fra ricchi e poveri c’è una distanza troppo ampia, e non è giusto». Lo stesso vale per un’altra opera molto popolare, non a caso anch’essa coreana. Squid Game mette in scena la guerra fra poveri, senza girare intorno al concetto che la responsabilità della loro sofferenza sia da attribuire agli ultraricchi. In entrambi i casi viene gettata luce su una condizione di diseguaglianza che in Corea è drammatica sul serio.
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Lo stesso discorso si può applicare a tantissime altre opere di fiction: dal libro e film The Circle ,che racconta i rischi dello strapotere dei social media, al più recente Don’t Look Up, che rappresenta in modo esplicito il modo in cui l’umanità e la politica stanno ignorando pericoli ambientali che ci coinvolgono tutti.
Semplice non vuol dire semplicistico
Tutto ciò non significa che questa tesi non sia esente da critiche. È legittimo, infatti, vedere nella semplicità di queste narrazioni non tanto un messaggio efficace, quanto una riduzione semplicistica e una banalizzazione dei problemi. Per quanto riguarda Don’t Look Up, per esempio, anche su queste stesse pagine se ne è parlato in questi termini.
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Ma il rischio della banalizzazione non annulla la necessità che il messaggio di critica attecchisca nel pubblico. Affinché ciò avvenga, la comunicazione deve essere semplice almeno quanto la controparte. Adam McKay, ne La grande scommessa, aveva già trattato con semplicità un tema complesso come quello della crisi dei mutui subprime. Non poteva certo perdersi nei dettagli della crisi climatica con questo nuovo film. Bisogna sempre tenere a mente che, dalla parte opposta, la narrazione dominante è negare il problema. Allo stesso modo, di fronte a una narrazione semplice e forte come «impegnati e sarai quell’uno su mille che ce la fa» non deve certo sorprendere se la contronarrazione è l’altrettanto semplice «i poveri sono vittime, i ricchi sono cattivi».
Lo aveva scritto già Mark Fisher nel saggio Fine del limbo (in Italia contenuto nella raccolta Il nostro desiderio è senza nome, edita da Minimum Fax): «L’accusa di “semplicismo” […] non coglie il punto più importante. Quando abbiamo di fronte una macchina dei media che da un lato ripete gli articoli del catechismo neoliberista come la messa in latino di un prete medievale e dall’altro propaganda una storia incredibilmente semplicistica […] serve una contronarrazione altrettanto semplice».
Il paradosso del mainstream
Ma con le narrazioni contemporanee avviene anche un paradosso che lo stesso Fisher aveva colto. Per quanto le contronarrazioni possano essere semplici o semplificate subiranno sempre il non stare in un vuoto formale o materiale. Anche le narrazioni critiche, infatti, hanno bisogno di un mezzo di comunicazione e distribuzione per essere veicolate. Più la contronarrazione mira a un pubblico vasto, più questo mezzo deve essere ampio e potente. Il paradosso risiede nel fatto che non solo i mezzi di comunicazione più potenti hanno finora ospitato le narrazioni dominanti che queste storie mirano a scardinare, ma ne sono impregnati, fanno parte del loro statuto costitutivo.
Per quanto mirasse a criticare il capitalismo, Squid Game ha finito infatti per produrre action figure dei suoi personaggi o challenge sui social. Il massimo del controsenso si raggiunse nel 2020, quando il documentario The Social Dilemma venne prodotto e distribuito proprio da Netflix, con l’inevitabile pubblicizzazione avvenuta sui social. Uno degli enti condannati ospitava la condanna.
Per questa ragione anche i mezzi di comunicazione si dividono e si scontrano. Si pensi a quanti giornali diversi esistono e a come ognuno aderisca a una visione politica o ideologica. Ma in un’epoca di progressiva monopolizzazione, anche della comunicazione e della narrazione, è inevitabile cedere al paradosso. Che i campi di battaglia si riducano a un unico terreno, o che esista un solo stadio con un unico proprietario, non cambia le regole del gioco. Narrazione dominante e contronarrazione continuano a richiedere la semplicità.