Il 16 gennaio scorso si è tenuto in Serbia un referendum confermativo per la modifica della costituzione. Nello specifico, la consultazione ha riguardato il sistema giudiziario, che con le modifiche costituzionali è stato reso più indipendente dalla politica e allineato con le norme europee.
Ha vinto il Sì con poco più del 60 per cento dei voti, ma l’affluenza è stata bassissima: appena il 30 per cento degli aventi diritto è andato a votare (in Serbia non è richiesto quorum).
Un referendum poco sentito dai votanti, che tuttavia è diventato casus belli per l’ennesima scaramuccia diplomatica tra Serbia e Kosovo, territorio a maggioranza albanese – ma con una consistente minoranza serba – che ha proclamato in maniera unilaterale la propria indipendenza dalla Serbia nel 2008.
Il governo kosovaro presieduto dal nazionalista Albin Kurti ha infatti fatto sapere che nessun referendum organizzato da altro Stato si sarebbe svolto all’interno della repubblica kosovara in quanto Stato sovrano, nonostante le pressioni in altro senso degli ambasciatori di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia.
La risposta serba non si è fatta attendere, con il presidente serbo Vučić che ha accusato Kurti di molestare e vessare la popolazione serba del Kosovo, alludendo a «conseguenze di vasta portata» nel caso di impedimento del voto, e con le votazioni di protesta inscenate dalla Srpska Lista in varie località del Kosovo.
Un altro piccolo capitolo nell’eterna e logorante contesa che vede confrontarsi Pristina e Belgrado.
La questione del Kosovo nasce dallo scontro di due progetti nazionali opposti, e per comprenderla è necessario andare indietro nel tempo.
Il territorio dell’odierno Kosovo – ellissi di Kosovo Polje, serbo per “piana dei merli” – è stato parte di diversi imperi nel corso dei secoli. Bizantino e bulgaro prima, divenne centro politico, culturale e religioso dell’impero Serbo allo zenit del suo potere nel XIV secolo, prima di passare in mano turca nel 1455.
In particolare, l’area fu teatro della battaglia di Kosovo Polje del 1389, in cui l’esercito ottomano sconfisse quello serbo. Evento di modesta importanza bellica, perché il regno di Serbia continuò a esistere ancora per più di mezzo secolo dopo la sconfitta, ma che avrebbe giocato un ruolo fondante per l’identità serba secoli dopo.
Tuttavia, fu sempre un’area etnicamente composita, abitata da albanesi, serbi, ma anche da bosniaci, gorani, roma. Ultimi, in ordine di tempo, i turchi, che vi diffusero l’Islam, con particolare successo tra gli albanesi.
Questo mosaico di popoli e religioni poté vivere abbastanza tranquillo per secoli: cristiani o musulmani, albanesi o serbi, l’importante per l’ordine civile era riconoscere il potere politico del sultano ottomano.
Le cose iniziarono a cambiare con la nascita dell’idea dello Stato nazione contemporaneo e il suo affermarsi nei Balcani: il principio per cui a uno Stato debbano corrispondere una lingua e un territorio etnicamente omogeneo.
In questo senso, il Kosovo fu rivendicato sia dal nascente nazionalismo albanese, che sognava l’unione politica di tutti i territori abitati da albanesi all’interno dell’impero ottomano, che dai nazionalisti serbi che, ottenuta l’indipendenza a inizio Ottocento, miravano a vendicare la sconfitta del 1389 e a restaurare la Serbia nei suoi massimi confini.
La spuntarono i secondi, che nel 1913 riuscirono a conquistare il Kosovo dai turchi. Il neonato regno di Jugoslavia iniziò ben presto a escogitare programmi per rendere il Kosovo omogeneo sul piano etnico, facendo affluire coloni dalla Serbia, attuando politiche assimilazioniste e discutendo accordi con la Turchia per rimpatriare gli albanesi in quanto musulmani.
Simili politiche furono portate avanti anche dalla Jugoslavia comunista fino agli anni Sessanta, ancorché con meno convinzione e senza riuscire a capovolgere gli equilibri etnici in favore dei serbi, che anzi divennero una componente sempre più piccola a fronte di una maggioranza albanese in forte espansione.
Il quadro cambiò con l’affermarsi di un approccio decentralizzatore all’interno della leadership jugoslava a partire dalla fine degli anni Sessanta. Nel 1969 fu fondata l’Università di Pristina in lingua albanese e nel 1974 al Kosovo fu concesso uno statuto di autonomia larghissimo con la creazione di esecutivo e organi di rappresentanza locali. Non fu tuttavia concesso al Kosovo di diventare repubblica autonoma al pari della Serbia e delle altre repubbliche costituenti.
Con la morte di Tito e il risveglio dei nazionalismi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, la situazione tornò a farsi incandescente. Tra 1989 e 1990, il leader serbo Milošević revocò lo statuto di autonomia al Kosovo col fine di reintegrarlo in seno alla Serbia, suscitando in tal modo la feroce opposizione della maggioranza albanese.
Le misure repressive e discriminazioni contro gli albanesi messe in atto da Belgrado nei successivi anni determinarono lo scoppio di un conflitto armato tra i guerriglieri dell’esercito di liberazione del Kosovo (Uçk) e l’esercito jugoslavo, con tutte le conseguenze del caso per la popolazione civile.
Sarà l’intervento Nato a porre fine alle ostilità, costringendo l’esercito jugoslavo a evacuare la regione e ponendo la regione sotto la tutela delle Nazioni Unite, pur rimanendo il Kosovo a livello formale territorio serbo.
Il 17 febbraio 2008 l’assemblea e il governo del Kosovo decidono di proclamare la propria indipendenza dalla Serbia, aprendo il contenzioso nella forma in cui lo conosciamo oggi. Da un lato il Kosovo, che si considera Stato indipendente, forte del riconoscimento di buona parte dei Paesi occidentali. Dall’altro la Serbia, che lo considera parte integrante del proprio territorio.
Dal 2013 le due parti si sono impegnate in un dialogo mediato da Bruxelles che non ha portato risultati concreti, in quanto le posizioni rimangono inconciliabili: o il Kosovo rinuncia all’indipendenza, o la Serbia rinuncia al Kosovo. Sono state avanzate anche proposte di ristrutturazione dei confini come via di uscita dalla questione.
Da ricordare il piano statunitense per lo scambio di territori del 2018, per cui i territori a maggioranza serba del nord del Kosovo sarebbero passati alla Serbia, mentre la valle di Presevo a maggioranza albanese sarebbe passata al Kosovo. O ancora il non-paper sloveno circolato nel 2021, che espande questa idea e caldeggia l’unione di Kosovo e Albania con la Serbia che ottiene contropartita le aree serbe della Bosnia. Entrambe scartate – almeno al momento – per il timore di scoperchiare il vaso di Pandora dei Balcani.
Si può dire dunque che dal 2008 entrambe le parti si trovano in posizione di stallo, con le truppe Nato in mezzo a impedire una risoluzione coatta della questione.
Il Kosovo è nei fatti indipendente ma, fintanto che non ottiene il riconoscimento dalla Serbia, il suo cammino in Europa e Nato è sbarrato dalla Spagna, che non vuole offrire precedenti pericolosi ai Catalani.
La Serbia, finché la questione non è risolta, è a propria volta condannata all’anticamera dell’Ue. Ma riconoscere l’indipendenza del Kosovo per qualunque politico serbo sarebbe un suicidio elettorale.
E allora si va avanti a schermaglie diplomatiche, da una parte e dall’altra, che non risolvono nulla e incancreniscono la situazione nel lungo periodo, ma hanno il vantaggio di ricompattare i fronti interni nel breve.
«La presenza della costante minaccia rappresentata dal popolo confinante o dal vicino di casa mantiene quello stato di attenzione per cui queste democrazie malfunzionanti hanno almeno dei punti saldi cui richiamarsi quando c’è bisogno» – spiega a theWise Magazine Enrico Strina, PhD in Studi internazionali e Sociologia dei conflitti presso l’Università di Roma Tre. «Una specie di pulsante d’emergenza cui ricorrere di tanto in tanto per resettare tutto e ripartire il giorno dopo come se niente fosse».
«A Belgrado hanno scelto di rimanere in mezzo al guado nell’indecisione e, anche considerando i passi in avanti economici dell’avversario albanese, lo scenario è diventato potenzialmente critico per la nomenklatura serba. L’unica via d’uscita per evitare critiche e rovesciamenti governativi è stata quella di mantenere lo status quo mediante il tradizionale e tutto sommato “rassicurante” conflitto etnico di cui sopra. Un conflitto che ha aiutato anche i kosovari a distrarre i cittadini da una situazione interna difficile e arretratissima».
Per esempio, è di qualche mese fa la decisione del governo Kurti di imporre un regime di reciprocità nei confronti della Serbia in merito alla questione delle targhe automobilistiche. Infatti, ogni veicolo immatricolato in Kosovo e dotato sulla targa della dicitura RKS (Republika e Kosovës) in ingresso in Serbia è tenuto a smontare la targa kosovara e a montarne una provvisoria senza l’indicazione dello Stato kosovaro. Il governo di Pristina ha dunque disposto che lo stesso regime fosse applicato nei confronti dei veicoli serbi in ingresso in Kosovo, ottenendo che siano obbligati a coprire i simboli serbi.
Un atto inutile – perché il Kosovo riconosce la statualità della Serbia – per il quale tuttavia la leadership di Belgrado è stata grata al governo Kurti, avendo condiviso con loro un ottimo pretesto per ricompattare l’opinione pubblica.
Il rifiuto di organizzare la consultazione da parte del governo Kurti, così come la risposta di Vučić, si inseriscono in questo filone di schermaglie funzionali a perpetrare lo status quo, ancorché si sia trattato di una questione di principio non accantonabile (uno Stato che si reputa sovrano non può essere tentuto a tenere un referendum altrui sul proprio territorio).
In questo caso, la leadership serba ringrazia davvero di cuore. Per tutto l’autunno i serbi sono scesi in strada per protestare contro il progetto di Rio Tinto di realizzare una miniera di litio nella valle dello Jadar, e la contesa sul voto dei serbi in Kosovo ha rappresentato un’insperata, per quanto piccola, boccata di ossigeno.
Alla fine i serbi in Kosovo hanno potuto votare per posta, recandosi all’ufficio di rappresentanza serbo a Pristina, o ancora andando oltre il confine de facto in Serbia.
«Al voto sono andati circa il 30 per cento degli aventi diritto, a dimostrazione del poco interesse e anche del grande tecnicismo di un quesito che sposta molto poco nella vita della gente comune» – conclude Strina. «La polemica è stata un atto strumentale tutto volto a rimettere benzina sul fuoco rispetto al mai sopito conflitto etnico-politico. Il voler votare è stata solo una dimostrazione di appartenenza alla Serbia per la minoranza di stanza in Kosovo».
Ma il teatro politico di questi giorni è quasi di certo destinato a ripetersi in occasione delle elezioni generali serbe che si svolgeranno il 3 aprile prossimo. Nulla di nuovo nella Piana dei Merli, a quanto pare.
Immagine di copertina: Wikimedia Commons, utente Avalit, CC BY-SA 3.0
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