Quella che fino a una settimana fa sembrava una strada impraticabile alla fine è stata intrapresa. Massima stima, quindi, per Sergio Mattarella: nonostante avesse esplicitato la sua indisponibilità a un secondo mandato ha messo da parte i piani per la vecchiaia e accettato di nuovo l’incarico.
Molti faranno a gara per intestarsi la sua elezione al fine di limitare i danni per non essere stati in grado di trovare un nome alternativo. Al contempo, non è però corretto parlare di fallimento della politica tout court: quella è la scusa del “mal comune, mezzo gaudio” che racconta chi ha perso, ossia quasi tutti (ma non tutti).
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No, in questo scenario c’è chi ha scagazzato sulla scacchiera come un piccione privo della ben che minima cognizione del suo ruolo e c’è chi ha mosso i suoi pezzi con scaltrezza. Sostenere che tutti abbiano perso è una grossolana generalizzazione: quello che conta è chi ha le chiavi del Quirinale e Mattarella non è un nome super partes, è uno che viene dal Partito Democratico.
Mattarella è un grande presidente, di quelli che verranno ricordati a lungo, e ha dimostrato oltre ogni dubbio la sua correttezza ed equidistanza ma ha – o quantomeno ha avuto – una colorazione politica che non si può cancellare.
Questo è palese alla luce delle reazioni dei leader degli altri due poli parlamentari quando venne eletto nel 2015: è sempre la stessa persona che in tempi non sospetti era stata minacciata di impeachment da Luigi Di Maio e ostracizzata da Matteo Salvini.
Chapeau, quindi, a un Enrico Letta che ha portato a casa la partita partendo da una posizione di forte svantaggio: non solo ha evitato che al Quirinale ci andasse qualcuno proveniente dalla destra ma addirittura ha evitato che ci andasse un tecnico, o un indipendente. È riuscito tenere in sicurezza la presidenza della Repubblica nonostante i numeri risicati, dopo la pesante sforbiciata causata dalla scissione di Matteo Renzi. L’ha fatto con visione strategica, giocando lungo, conscio che per avere la vittoria in mano in una situazione a tre poli come quella attuale gli bastava bruciare qualsiasi nome proveniente da destra e tenere dalla sua i 5 Stelle. Così è stato, e di fronte alla minaccia di uno stallo perenne le possibilità erano due, un nome super partes o il Mattarella bis. È passato il Mattarella bis.
L’elettorato sarà in grado di comprendere la strategia di Letta? Non è scontato. Ha giocato la partita per quel che era, cioè un’elezione indiretta e per questo gestita con manovre parlamentari, più che cercando il consenso popolare. Questo potrebbe avere un prezzo da pagare, se non sarà in grado di comunicare con efficacia nei prossimi giorni.
A proposito di Renzi, ha bruciato nomi su nomi (Belloni in primis) convinto di essere l’ago della bilancia. Peccato che la bilancia era digitale.
Per Letta, Giuseppe Conte è stato un alleato tutto sommato affidabile, in grado di contenere l’anarchia pentastellata per buona parte della settimana: la necessità di non andare a elezioni anticipate e perdere gran parte delle poltrone è il cruccio più grande dei 5 Stelle. Questo li ha portati a essere più obbedienti di quanto molti si aspettavano.
Ne esce lo stesso dalla parte degli sconfitti: quando il gioco si è fatto duro la frattura con Di Maio è divenuta evidente, oltre che dolorosa. Ora il Movimento scricchiola sotto la non tanto velata minaccia di una scissione. Non è difficile immaginare pesanti conseguenze per i pentastellati dopo queste elezioni.
A uscirne davvero con le ossa rotte è il centrodestra. A inizio settimana la coalizione sembrava granitica, ma la facciata è crollata presto. Salvini si è rivelato un capo pessimo, incapace di tenere le redini di una compagine schizofrenica: da una parte i governativi di Forza Italia, dall’altra Fratelli d’Italia, l’unica forza di opposizione parlamentare al governo.
Come un condannato legato a due cavalli lanciati al galoppo in direzioni opposte, Salvini si è disintegrato su un nome di parte, quello della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, spinto da Giorgia Meloni. Così è andato alla conta senza avere i numeri per farla passare o, quantomeno, darle un numero dignitoso di preferenze: ben settanta dei suoi (quasi di certo forzisti) lo impallinano nel catafalco, di fatto sfiduciandolo.
A quel punto, Silvio Berlusconi ha trattato in autonomia con Pd e 5 Stelle, portando Salvini con sé in una sorta di sala della pallacorda. Come detto durante l’intervento del forzista Antonio Tajani a Porta a porta, per un amante del calcio come Berlusconi giunti a quel punto è stato meglio un pareggio col Mattarella bis piuttosto che una sconfitta (ammettendo tra le righe che una vittoria non fosse più contemplata).
A inizio settimana, Fratelli d’Italia sembrava però guidare le scelte di Salvini, terrorizzato di perdere ulteriore terreno nei sondaggi. Ma se Salvini si è rivelato una preda facile per Giorgia Meloni, la stessa cosa non è stata per il Cavaliere, che l’ha sorpassata alla prima occasione utile lasciandola inviperita e col cerino in mano, unica a votare contro Mattarella.
Risultato: centrodestra sfasciato.
C’è anche chi ha pareggiato: Mario Draghi non è stato a guardare e il suo zampino per convincere Mattarella è stato cruciale. Non è un caso.
Che Draghi abbia mire sul Quirinale è risaputo – non che non se lo meriti, anzi – ma essere il Presidente del Consiglio in carica rendeva la cosa di fatto impossibile da realizzare in questo delicato momento storico. È probabile, inoltre, che Mattarella punti a una “operazione Napolitano”, concludendo il mandato in anticipo dopo le prossime politiche, quando e se ci sarà un governo politico stabile.
A quel punto, Draghi sarà libero, e con parecchi crediti da riscuotere.
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