Corpus Domini è il titolo della mostra conclusasi al Palazzo Reale di Milano il 30 gennaio scorso, curata dalla teorica dell’arte Francesca Alfano Miglietti. La mostra è un lungo percorso che si snoda per tredici sale. La suddivisione di ciascuno spazio segue in modo vago un ordine tematico, ma non dà mai al visitatore l’aggancio giusto per fare considerazioni come: «La sala precedente era sul corpo e sul tempo; quest’altra parla del corpo e l’identità». Né c’è un artista o un gruppo di artisti, tra i trentaquattro proposti, a cui è dedicato un particolare spazio. Nel tragitto espositivo sono circa cento le opere tra fotografie, sculture, installazioni, filmati e svariati altri supporti.
Questo il titolo dell’esposizione, che cerca di condensare gli utilizzi del e le riflessioni sul corpo affrontate nel mondo dell’arte a partire dagli anni Settanta. In verità, è almeno un secolo che il tema del corpo è tornato in auge. Il corpus delle avanguardie futuriste era un “super corpo”, o per meglio dire un corpo “super umano”. La dimensione della corporeità è dinamica, la rappresentazione riguarda di frequente un movimento – basti su tutti l’esempio di Dinamismo di un cane al guinzaglio del pittore Giacomo Balla. Ma il corpo è anche al centro, fuori dal contesto nazionale, dell’avanguardia russa. Acquista in questo contesto una nuova funzionalità, quella di esso stesso sia come strumento di espressione che come supporto di sperimentazione. Un nuovo esempio potrà essere quello della Metal dance (1929) di Oskar Schlemmer. E su questa scorta il movimento del Bauhaus, a cui segue nel corso del tempo – semplificando la storia agli estremi – la body art e l’utilizzo del corpo come strumento politico nella lotta femminista.
Questo il punto da cui si apre Corpus Domini. Forse è questo l’unico vero aggancio cronologico della mostra. Il percorso comincia con una sala in cui si proietta un video su Lea Vergine. Nella stessa sala è esposta la documentazione dell’opera Azione sentimentale (1973). Si apre insomma il viaggio con gli studi sul corpo come simultaneo strumento e campo d’indagine. Nel modo (violento, esasperato) in cui l’artista ha utilizzato la propria fisicità si legge una volontà di scoprire come una sorta di umana tendenza. Come se insomma tramite la propria carne e la sua mortificazione si potesse, nelle parole di Gina Pane, «prendere coscienza dei propri fantasmi, che sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società… il corpo (la sua gestualità) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro».
Ma come si è già accennato, quello della mostra non è una cronistoria della concezione del corpo; né dei modi di utilizzo e intendimento del corpo. Si configura più che altro come un modo per esperirne potenzialità e significati. Per questo, infatti, non sono presenti sempre vere e proprie rappresentazioni del corpo.
Vere e proprie raffigurazioni sono quelle, per esempio, dell’iperrealismo di Duane Hanson, di cui è in mostra un pezzo di Turisti (peccato per l’illuminazione, che non rende granché giustizia alla plasticità dell’opera).
O ancora la serie di fotografie di Andres Serrano Denizens of Brussels. Negli scatti, i volti e le posture di alcuni tra i più emarginati della società, incontrati una notte del 2015 a Bruxelles. L’utilizzo del colore negli scatti, la saturazione e i contrasti sembrano come dipanare la nebbia che ogni tanto nasconde queste figure che riemergono nella loro umanità quasi elettrica e naturale insieme. A proposito di queste figure scrive Miglietti: «I soggetti, immortalati in uno scatto, hanno una propria familiarità che li rende in un certo modo familiari a chi li osserva, li rende umani e non rifiuti di una società che li emargina nelle loro fatiscenti abitazioni fatte di carta e immaginazione».
Altre volte il corpo viene restituito tramite la relazione che intrattiene – oppure no – con l’esterno. La mostra ospita, per esempio, gli oggetti della performance del 1993, Slumber, di Janine Antoni. L’artista ha dormito diverse notti in una galleria collegata a un rilevatore di onde elettromagnetiche a sua volta collegato a un telaio. Il telaio ricamava, durante il sonno, sulla scorta degli impulsi registrati dal macchinario e ricavati quindi in modo diretto dal corpo dell’artista.
Altre volte del corpo si dice la sua sottomissione al tempo, il suo rapporto col ricordo, la sua evanescenza. Dei corpi, ogni tanto, rimane che gli è appartenuto. Gli oggetti, anche solo nell’immaginario, più vicini a quei corpi ne diventano sineddoche, e le significano, riportandoli a presenza. Così, per esempio, la mostra ospita l’opera dell’artista francese Christian Boltanski Le Terril Grand-Hornu, una montagna di giacche da lavoro dei minatori di Grand-Hornu. L’idea di un corpo in perdita, soggetto inevitabilmente all’usura e alla sparizione, è invece quella di Proyecto para un memorial di Oscar Muñoz. L’istallazione a parete mostra su diversi pannelli la mano dell’artista disegnare dei volti su alcune lastre di marmo. Il pennello intinto nell’acqua disegna tratti che evaporano esposti al sole. Svanisce così una figura, mentre l’altra prende forma.
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