C’era una volta lo storyteller. John Berger

Nelle scorse puntate: C’era una volta lo storytelling


Quincy, Francia, luglio 1987. In un fienile, sopra una grossa pila di soffice paglia, sta adagiato un uomo, con le gambe e le braccia incrociate. Guarda verso l’alto e non è ben chiaro cosa stia pensando. Ma lui continua a fissare qualcosa con grande concentrazione. Quell’uomo si chiama John Berger e ama definirsi storyteller.

Cosa significa per lui essere uno storyteller? Di certo vuol dire interagire con il lettore per indagare insieme la realtà, la storia, i fatti.
Questo è stato l’intento di tutta la sua vasta produzione. Berger non si è limitato a scrivere racconti o poesie, ma ha cercato di diffondere storie attraverso qualunque mezzo di comunicazione.

Storia di uno storyteller. Breve biografia di John Berger

John Berger è nato a Londra nel 1926 e ha iniziato la sua prolifica carriera artistica come critico d’arte, mentre insegnava disegno. In effetti, la sua produzione è sempre o quasi accompagnata dalle illustrazioni. Numerosi sono i lavori corredati di schizzi, bozzetti a matita, colori che entrano a far parte della narrazione.

Ed è grazie all’arte che, insieme al regista e amico Mike Dibb, arriva a produrre Ways of Seeing per la Bbc, nel 1972, un programma dedicato all’arte. Anzi, una serie televisiva di quattro episodi dedicati a come le persone vedono l’arte.

topi john berger
Illustrazione di John Berger in Perché guardiamo gli animali? Foto: Valentina Calissano

Nello stesso anno vince il Booker Prize per la letteratura con G., un romanzo non-romanzo in cui l’arte si intreccia con la storia e la politica. Si tratta di un’opera unica nel suo genere, un manifesto raccontato, che già contiene in sé tutti gli elementi distintivi di Berger, a uno stadio completo.

Grazie al premio, l’autore potrà viaggiare tra le popolazioni di migranti, centro del suo più vivo interesse. E così arriverà a vivere in modo stabile nelle Alpi francesi, a Quincy, a partire dagli anni Settanta. Qui, in un paese circondato dalle montagne e animato da un’intensa vita contadina, scriverà la trilogia Into Their Labour, collaborerà con il regista svizzero Alain Tanner a tre film sulla condizione umana contemporanea, lavorerà insieme al fotografo Jean Mohr per realizzare opere come Another Way Of Telling, reportage fotografico dell’Alta Savoia.

Il fermento artistico e letterario di John Berger non ha mai avuto sosta fino alla sua morte nel 2017. Tuttavia, ha lasciato in eredità al lettore la possibilità di indagare la realtà, di osservarla con attenzione e porsi sempre domande.

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Raccontare per immagini

John Berger ha declinato lo storytelling in ogni ambito artistico. Ha scritto saggi, poesie, realizzato tele, acquerelli e bozzetti. L’intento, in qualunque sua produzione, è proporre un’immagine. Un’immagine che porta con sé anche un punto di vista, sempre non convenzionale, sempre nuovo, sempre diverso. Ciò si apprezza con immediata facilità nei lavori per la Bbc o nei film, ma anche nelle fotografie.

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John Berger in una foto di Henri Cartier-Bresson, nella monografia edita da Marcos y Marcos.

In Ways of Seeing l’intento degli autori è ben chiaro: mostrare al pubblico della televisione come l’opera d’arte può essere condizionata dal contesto e come al contrario il pezzo artistico può condizionare la visione che l’uomo ha del mondo. Dunque, il programma risulta innovativo. Berger e Dibb non stanno parlando di arte divulgando cenni storici e critica artistica, ma stanno ribaltando il concetto stesso di critica. L’arte è, in questa occasione, il pretesto per invitare lo spettatore a muovere un parere nei confronti della società.

Nei primi fotogrammi, Berger squarcia la tela di Venere e Marte del Botticelli, in un atto che può risultare violento e insensato. Ma ben presto l’osservatore capirà che è la riproduzione a stampa in serie che ha strappato qualcosa all’opera originale. Anche in questo programma sull’arte John Berger sta applicando la sua tecnica di storyteller: suscitando una forte emozione nel pubblico lo invita a rimanere di fronte allo schermo, a osservare ancora e ancora immagini della realtà.

In effetti, l’osservatore non ha modo di rimanere estraneo a ciò che vede. Berger lo chiama subito, chiede al pubblico di intervenire, di divenire un interlocutore diretto del narratore. L’artista sta invitanto chiunque si trovi dall’altra parte dello schermo a elaborare un pensiero critico sulla realtà che lo circonda.

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Foto di Jean Mohr contenute nel libro fotografico Another Way of Telling, Berger e Mohr.

Storie di uomini e di umanità

L’urgenza di John Berger di conoscere l’uomo fino nel profondo sta nel dialogo con lo spettatore, che si fa quindi controparte di un confronto.
Quell’occhio indagatore, instancabile e sempre vigile, si concentra sulle comunità interstiziali dell’umanità. Con queste piccole realtà entra in contatto, discute, interagisce con passione e da qui torna al lettore, pronto a raccontargli la loro storia.

La condizione umana è il centro della narrazione di John Berger: questo è il motivo per cui vuole definirsi storyteller in ogni sua produzione.
Prima di essere uno scrittore o un artista, è un viaggiatore dello spazio e del tempo. Si muove nella storia e si sposta lungo coordinate geografiche che sempre hanno a che fare con la guerra, con l’emarginazione e l’esclusione.

Non bisogna dimenticare che Berger ha criticato la società contemporanea del capitalismo, della nuova economia, che vuole includere il singolo individuo in una massa ed escluderlo dalla sua stessa esistenza.

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Foto di Jean Mohr contenute nel libro fotografico Another Way of Telling, Berger e Mohr.

Ecco dunque il tema della trilogia Into Their Labour. Vite umane al limite, nella periferia delle città o nell’isolamento dei monti e delle campagne.
In questi tre libri Berger ripercorre la strada che ha condotto l’uomo dalla campagna (in Le tre vite di Lucie, 1979) fino alla città (in Una volta in Europa, 1987), luogo che riduce a illusione lontana e irraggiungibile lo spazio rurale (come scrive in Lillà e Bandiera, 1990).

La migrazione ha cancellato il rapporto all’interno delle famiglie e la vitalità nelle zone agresti. Lo sviluppo abnorme e fuori controllo delle città ha ridotto l’uomo nella schiavitù del lavoro in serie, che lo annulla e lo costringe ad allontanarsi da sé stesso.

Anche nei film realizzati insieme ad Alain Tanner viene recuperata questa condizione umana ancestrale. Sono incentrati sui temi delle
disillusioni portate dalla storia contemporanea, della schiavitù economica, della sperequazione fra classi e delle barriere tra popoli.
I primi due film, La Salamandra (1971) e Il centro del mondo (1974), sono incentrati in prevalenza sulle emozioni umane; il terzo, Jonas che avrà vent’anni nel 2000 (1976), si erge a manifesto del pensiero politico bergeriano, con il contrasto mai risolto tra il luogo contadino e l’ambiente urbano dell’alienazione.

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Berger e Tanner durante le riprese dei film. Foto dalla monografia edita da Marcos y Marcos.

John Berger, lo storyteller cospiratore

A caratterizzare la produzione bergeriana è l’interazione con il fruitore. Non si tratta solo di riportare un avvenimento o dipingere una situazione. John Berger guarda negli occhi il lettore o lo spettatore, lo coinvolge a livello emotivo e così riesce a raccontare realtà che ha vissuto, che ha sperimentato in prima persona. Questo spiega il suo esilio volontario a Quincy, in Francia, dove è stato contadino e uomo del paese per poter diventare storyteller, per riuscire a raccontare la verità del luogo, la storia autentica dei suoi compaesani.

In questo sta la forza del suo modo di raccontare. Berger non è mai uno spettatore, ma entra nella narrazione. E sussurrando, con precisione e delicatezza, costruisce un discorso narrativo che coinvolge il lettore. Non è possibile sentirsi estranei al paese di Quincy, è difficile non simpatizzare per King, il cane protagonista dell’omonimo romanzo. La Storia si fa voce nelle piccole, minuziose, semplici storie di popoli, persone e animali.

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Copertina di Confabulazioni, con disegno di John Berger. Foto: Valentina Calissano.

Un termine è sempre stato caro a John Berger e può spiegare perchè abbia sempre voluto definirsi storyteller. È il termine confabulazione. Questa parola ha a che fare tanto con la creazione di un testo quanto con il parlare con altre persone. Berger lo utilizza in riferimento al suo modo di scrivere, dove sono le parole stesse a cercare e trovare il giusto posto sulla pagina, ma non solo.

La confabulazione non è altro che la conversazione tra persone. E questo fa Berger: lui parla con il fruitore, con questi discute dei temi che tratta. Si ritrovano, scrittore e lettore, artista e pubblico, a confabulare. E nella confabulazione sta il racconto, il racconto che non è più unidirezionale: è storytelling.

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Varie opere di John Berger. Foto: Valentina Calissano.

Conclusioni

John Berger ha saputo creare una salda rete di rapporti tra artisti grazie alla sua capacità di creare dialogo, attraverso la confabulazione.
Molte persone hanno collaborato con lui, registi, fotografi, pittori e scultori, in diverse parti del mondo. E tutti loro meriterebbero una menzione.

Leggere, ascoltare o guardare l’opera di John Berger significa entrare senza riserve nel concetto di storytelling, perché ogni singolo tratto da lui giustapposto trasmette emozione e coivolgimento.
La sua attività artistica, in ogni sua forma, è un invito a osservare, ascoltare e rivalutare. È un invito a cambiare prospettiva, sempre. È un invito a porsi in maniera critica nei confronti dell’immagine che restituisce la realtà.

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