Nonostante il milione e duecentomila firme raccolte e il forte movimento di opinione a favore, il cosiddetto referendum sull’eutanasia non si farà.
Lo ha deciso la Corte costituzionale, ritenendo inammissibile il quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni, che avrebbe abrogato alcune parti dell’articolo 579 del codice penale in materia di omicidio del consenziente e aperto una strada per accedere alla buona morte in maniera legale.
Una nota dell’ufficio stampa della Corte ha fatto sapere che il quesito referendario è stato ritenuto inammissibile perché, in caso di abrogazione parziale dell’articolo 579, «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».
In caso di vittoria del sì, la norma sarebbe cambiata per punire l’omicidio del consenziente solo nei casi di minorenni, di persone affette da infermità psicologica (anche indotta dall’abuso di sostanze) e in tutti quei casi in cui il consenso della persona interessata sarebbe stato estorto con violenza o inganno. Pertanto, non sarebbe stato punibile a livello legale il medico che, in presenza di esplicito consenso, avesse somministrato il farmaco eutanasico al paziente incapacitato ad assumerlo da solo.
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Le ragioni della corte
In conferenza stampa, il presidente Giuliano Amato ha motivato le ragioni del respingimento specificando che la pronuncia della corte ha avuto per oggetto non l’eutanasia, ma l’articolo 579 del codice penale.
In caso di referendum, un voto positivo al quesito avrebbe finito – secondo Amato e la corte – «per legittimare l’omicidio del consenziente ben al di là dei casi per cui ci si aspetta che l’eutanasia possa aver luogo. Tutti i casi nei quali una persona che non è malata, che non è terminale, che non è in condizioni di sofferenza intollerabili […] dà un consenso affidabile e credibile e trova qualcuno che sulla base di quel consenso provvede a fargli un’iniezione letale». E ha aggiunto: «Il referendum era sull’omicidio del consenziente e l’omicidio del consenziente sarebbe stato lecito in casi ben più numerosi di quelli – e ben diversi da quelli – dell’eutanasia».
Pur riconoscendo in sede di conferenza stampa l’assurda disparità di trattamento legale tra il caso in cui la persona sofferente è in grado di somministrarsi il farmaco eutanasico da solo (suicidio assistito) e quello in cui la persona necessita di un aiuto terzo per assumerlo (eutanasia), Amato ha chiarito che la corte ha esaminato la questione da un punto di vista di teoria del diritto.
Nell’interpretazione della Corte costituzionale, il cosiddetto referendum sull’eutanasia avrebbe aperto le porte a tutti quei casi teorici in cui una persona, nel pieno delle proprie facoltà psichiche, presta consenso legale alla propria uccisione da parte di una terza, con le prevedibili difficoltà legate alla definizione di questo consenso (sarebbe sufficiente un accordo verbale? Bisognerebbe andare dal notaio?).
L’omicidio del consenziente, nel concreto
Ferme restando le giuste preoccupazioni della Corte, viene comunque da chiedersi se l’omicidio del consenziente non sia una fattispecie di reato che esiste più nella teoria che nella pratica.
Il quesito del referendum avrebbe lasciato invariate le parti che puniscono, al pari dell’omicidio non consensuale, l’omicidio consensuale di minorenni, di persone in stati di infermità o deficienza psichica, o di persone cui il consenso sia stato estorto.
Se una persona A – in assenza di condizioni paragonabili a quelle che rendono legale l’aiuto al suicidio – si rivolge a una terza B e le dà il consenso a ucciderla, è difficile che quest’ultima riterrebbe la prima nel pieno della salute psichica. Il desiderio della propria morte è sintomo di una profonda sofferenza psicologica e quindi buon senso consiglierebbe di rinviare la persona a un professionista per la psicoterapia. Ma anche se per assurdo volesse procedere, B dovrebbe cautelarsi legalmente che la persona A non rientri nei casi di infermità o deficienza psichica per non incorrere nella pena per omicidio.
Altra osservazione da fare è che la persona A che matura il proposito di porre fine alla propria vita, ammettendo che sia lucida (caso improbabile), cercherà di farlo da sola senza coinvolgere B che possa impedirglielo. Potrebbe cercare l’aiuto di B perché la morte avvenga in modo indolore, ma si tratterebbe di un tipo richiesta che solo una struttura sanitaria sarebbe in grado di soddisfare (sedazione profonda e farmaco eutanasico), e che quindi condurrebbe tutti gli accertamenti sullo stato di salute psichica di A.
In ogni caso, la persona B dovrebbe comunque cautelarsi da eventuali procedimenti giuridici e produrre della solida documentazione medico-legale che accerti consenso e lucidità mentale di A.
Lo scenario paventato dalla Corte costituzionale in caso di vittoria del sì al referendum sarebbe stato molto difficile a livello concreto. L’unica fattispecie reale di omicidio del consenziente che si sarebbe potuta verificare sarebbe stata appunto l’eutanasia attiva nei casi in cui una persona gravemente malata e sofferente, incapacitata a somministrarsi il farmaco eutanasico da sola, avesse richiesto un aiuto terzo per l’assunzione con tutti gli accertamenti medico-legali del caso.
La grande assente: la politica
Chi aveva letto bene il quesito e sapeva chi lo avrebbe dovuto vagliare è difficile sia rimasto sorpreso dall’esito. Si è trattata di una partita tra associazionismo progressista e custodi del diritto che non poteva andare in modo diverso.
Il referendum di iniziativa popolare – che può essere solo abrogativo – rappresentava uno strategemma con cui cercare di aprire con la forza una via per rendere nei fatti legale l’eutanasia attiva. Era pertanto arduo che i massimi custodi del diritto italiano, che per necessità sono più attenti all’aspetto teorico del diritto che alle ricadute concrete, acconsentissero a un’operazione di taglia e cuci che potesse anche solo in maniera remota lasciare spazio a interpretazioni anticostituzionali.
Nonostante la bocciatura, la Corte ha però lasciato intendere di essere simpatetica alla questione. Il presidente Amato ha persino alluso alla possibilità che la Corte depenalizzi l’articolo 579 negli stessi casi previsti dalla cosiddetta sentenza Cappato per il 580: «Chi lo sa che, presentandosi la questione non sotto forma di quesito referendario, ma di questione di legittimità costituzionale del 579 così com’è, non sarebbe possibile trattarlo così come abbiamo trattato il 580, il suicidio assistito».
Grande assente dalla partita, come al solito, la politica.
Del resto, era difficile che un parlamento paralizzato, dominato da partiti in crisi, progressisti pavidi – rimasti traumatizzati dall’affondamento del Ddl Zan – e destre ferme al secolo scorso in tema di diritti civili, che ha visto avvicendarsi tre governi con maggioranze cangianti come il tempo d’estate, fornisse risposte sul tema.
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Di qui il gesto disperato e simbolico di chiedere un referendum sull’omicidio del consenziente per consentire l’eutanasia. Perché se il passato è indicatore di qualcosa, lo è del fatto che la politica italiana è spesso in ritardo rispetto al Paese in tema di diritti e agisce solo quando è messa con le spalle al muro e di fronte al problema.
Il fine vita in Italia
Al momento, in Italia, il fine vita si configura dunque come una questione in cui manca una normativa unitaria e una chiara giurisprudenza.
Sono legali l’interruzione delle cure (chiamata in modo erroneo – anche da chi scrive, in altre occasioni – eutanasia passiva) e il suicidio assistito, mentre rimane preclusa al momento l’eutanasia attiva.
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La legge 219/2017, arrivata quasi nove anni dopo la morte di Eluana Englaro, permette al paziente di rifiutare le terapie che lo tengono in vita e obbliga i medici ad accompagnare alla morte il paziente in uno stato di sedazione profonda. Consente anche ai cittadini di stilare le disposizioni anticipate di trattamento in caso di si trovino in una condizione di incapacità di decidere (es. coma), così come di designare una figura di fiducia a cui spetta la decisione ultima.
La già citata sentenza Cappato, la 242/2019 della Corte costituzionale, ha invece depenalizzato il suicidio assistito (aiuto al suicidio) nei casi in cui la persona richiedente l’aiuto sia affetta da patologie irreversibili fonte di sofferenza intollerabile e pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Ancora a tre anni dalla sentenza, il Paese aspetta una legge che normi il suicidio assistito. Legge, si capisce, osteggiata dalle destre conservatrici, che pensano di ostacolarla a suon di emendamenti, forse ignare che la sentenza Cappato ha creato un precedente che non è possibile aggirare.
Resta da chiedersi quanto tempo e cosa ci vorrà perché anche nel Bel Paese possa essere concesso di andarsene con dignità alle persone malate e sofferenti che necessitano di un aiuto terzo per morire.
Preclusa la strada del referendum abrogativo, a parte aspettare Godot a Montecitorio, pare rimangano solo due strade per l’eutanasia: quella che porta all’estero e quella che passa per la disobbedienza civile.
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