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Economia

Guerra in Ucraina: chi vive fuori e chi ancora dentro la storia

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Fabiana D'Eramo

Quando accendiamo la TV non siamo abituati a ritrovarci a guardare immagini di carri armati spostarsi da una parte all’altra di una nazione, stazioni metropolitane trasformate in bunker provvisori per nascondersi dalle bombe e macchine in fila in un’unica direzione. Verso ovest. La parte opposta della Russia.

Siamo forse abituati a vedere di peggio – per anni gli studiosi della comunicazione si sono chiesti se i bambini cresciuti davanti al televisore fossero diventati immuni alla violenza, per poi scoprire che erano solo diventati immuni al televisore: sapevano che quella sullo schermo era una finzione. Ma quella dell’Ucraina è una realtà, reale certo quanto tutti gli altri conflitti e le occupazioni e le bombe che uno sguardo eurocentrico vede in modo meno nitido ma che non hanno smesso di esistere solo perché i tempi sono moderni, eppure qui si tratta di qualcosa di diverso, e non solo perché il continente interessato stavolta è l’Europa.

Leggi anche: Il fronte europeo Nato: una panoramica.

Cittadini ucraini si rifugiano nella stazione della metropolitana per sfuggire ai bombardamenti. Foto: @chronicdaydrmr su Twitter.

La storia è finita (ma non per tutti)

L’invasione russa dell’Ucraina ci ha fatto rientrare nei secoli precedenti, quando un monarca europeo o uno zar russo potevano decidere di espandere il proprio territorio e fagocitare la nazione accanto, sapendo che non ci sarebbe stata una comunità internazionale a fermarli. Con il ritorno a questo stile geopolitico brutale, Vladimir Putin ha voluto riscrivere da solo le regole del sistema internazionale in vigore dalla seconda guerra mondiale. Per dirla con le parole di Francis Fukuyama, ha deciso di restare all’interno della storia.

Nel 1989 il politologo statunitense profetizzò l’imminente “fine della storia” riferendosi al fatto che, dopo il crollo del comunismo sovietico e la fine della Guerra Fredda, la democrazia liberale e il capitalismo sarebbero stati destinati a pervadere tutte le nazioni del pianeta. La “fine” della storia indicava perciò lo scopo o l’obiettivo dello sviluppo umano o del processo di modernizzazione, anziché la sua conclusione.

«La migliore indicazione che la storia va nel senso del progresso» diceva nel 2018 Fukuyama al Corriere «sta nel fatto che, ogni anno, milioni di persone di Paesi poveri, caotici o repressivi, cercano di raggiungere con le loro famiglie Paesi situati “alla fine della storia” – ossia ricchi, stabili e democratici –, che offrono loro delle possibilità di sviluppo individuale. Quasi nessuno imbocca volontariamente la direzione contraria».

I fatti che la cronaca registra e l’aggressione di Putin all’Ucraina sembrano però contraddire l’idea di un mondo pacificato dal mercato. A pochi giorni dall’invasione, Repubblica titolava che no, c’è stato un errore, la storia non è mica finita. Nel corso degli anni Fukuyama aveva infatti rivisto la propria tesi, forse troppo ottimistica, commentando che se questo genere di progresso «non è diventato universale, è a motivo dell’assenza di istituzioni, in particolare a motivo dell’assenza di uno Stato moderno».

E su un punto le varie interpretazioni della società contemporanea sembrano concordare: che l’istituzione di un ordinamento democratico in molti Paesi offre uno scenario con meno conflitti. Ma secondo il professor Giuseppe Anzera, docente di sociologia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza, non bisogna affidarsi a visioni riduttive che non comprendono la complessità della realtà: «Ci sono alcuni Paesi che vivono ancora nella storia e altri che ne sono fuori». Non esiste un’unica strada che si indirizza verso il progresso umano, come non esiste più una storia disegnata da un grande architetto. Il cambiamento sociale non persegue un itinerario preciso dove ogni tappa segue dalle precedenti, ma procede a tentoni, spesso tornando sui suoi passi, e sui suoi errori. Nonostante l’era della globalizzazione metta in vetrina, almeno in Europa, meno conflitti di prima, «la fine della storia somiglia molto alla vecchia storia», aggiunge il professor Anzera. Esistono ancora i nazionalismi, e lo Stato è ancora la più importante forma di organizzazione collettiva planetaria. Per la Russia di Putin, democratica sulla carta, moderna a metà, la storia non è finita affatto. Cerca lo scontro perché ci vive ancora dentro, ragiona con categorie vecchie, obsolete e nazionalistiche.

Vladimir Putin durante la dichiarazione di guerra all’Ucraina.

Leggi anche: Atlantismo for dummies: come rispondere alle obiezioni russe sull’Ucraina.

La prima guerra del mondo interconnesso

Per quanto sembri di essere tornati nel passato, la guerra a cui stiamo assistendo non ha paralleli storici. È un’invasione in pieno stile novecentesco, ma nel mondo globalizzato del ventunesimo secolo. Potremmo anche essere rientrati di nuovo nelle dinamiche del vecchio mondo, ma questo mondo oggi è legato più che mai dalle telecomunicazioni, da Internet, dal mercato, dalle reti stradali, ferroviarie e aeree. Mentre il dramma della guerra si consuma all’interno dei confini ucraini, il resto del mondo potrà guardarci dentro. La politica televisiva ha ceduto il passo a quella di Internet, perciò se occorrono tempo, professionisti e strumenti specifici affinché le organizzazioni mediatiche producano rapporti in tempo reale sul conflitto, oggi basta avere uno smartphone e scaricare un’app per trasmettere la guerra in streaming in tutto il mondo, minuto per minuto, morte dopo morte.

Questa sarà la prima guerra coperta su TikTok, dove gli atti di brutalità saranno documentati e trasmessi in tutto il mondo senza filtri. A meno di ventiquattro ore dall’invasione, ha scritto il giornalista Daniel Johnson, «abbiamo avuto già più informazioni su quello che sta succedendo lì di quante ne avremmo avute in una settimana durante la guerra in Iraq».

Putin non potrà nascondere queste immagini nemmeno al suo popolo. Solo il primo giorno di invasione più di 1300 russi sono scesi in piazza per gridare no alla guerra, e non è un piccolo numero in un Paese che uccide i suoi oppositori.

È un errore pensare che Putin abbia sottovalutato tutto questo. Chi, meglio dell’ex spia del Kgb, conosce i vantaggi del mondo nuovo, e quindi della tecnologia? Con gli ultimi sviluppi, la guerra in Ucraina è diventata visibile a tutti, ma l’invasione è stata preceduta da un lungo preambolo di attacchi informatici e campagne di disinformazione solo di rado interrotto dalle vecchie azioni militari di stampo, per così dire, tradizionale – come l’annessione della Crimea sette anni fa. Eppure, nonostante la destrezza con cui si muove all’interno del mondo cibernetico, Putin ha scelto di riaprire la vecchia cassetta degli attrezzi col rischio di iniziare la terza guerra mondiale, con tutto il suo armamentario nucleare. Perché è dentro alla storia fino al collo.

La guerra diventa meme

Secondo Thomas Friedman del New York Times, lo sbaglio di Putin sta qui. Nel non aver capito che sì, «nel breve termine il suo esercito prevarrà, ma a lungo termine i leader che cercano di seppellire il futuro nel passato non se la cavano bene». Questo perché, nel mondo interconnesso, l’appeal di un leader politico è qualcosa che deve essere guadagnato e riguadagnato ogni giorno ispirando e non costringendo gli altri a seguirti.

Il camuffamento novecentesco dei tempi moderni perde ogni sostanza quando Friedman fa giustamente notare a Putin che dovrebbe avere paura di Selena Gomez. La cantante e attrice statunitense ha più follower su Instagram – oltre 298 milioni – di quanti cittadini abbia la Russia. Con un post potrebbe ispirare migliaia e migliaia di persone a opporsi alla guerra e ricoprire Putin di infamia. D’altronde ci ha già pensato la generazione Z a ridicolizzare il presidente russo.

Con alle spalle una lunga lista di arresti, avvelenamenti ed esecuzioni varie, Putin è diventato un meme. Mentre autorizzava i bombardamenti in diverse città dell’Ucraina e le sue truppe attaccavano e invadevano aeroporti e aree residenziali, alcuni utenti dei social media hanno adottato un approccio peculiare per chiedere la pace: inondare gli account di Putin su TikTok e Instagram con commenti che tentavano di sedurre il leader a lasciar perdere la guerra. «Vladdy daddy please no war» scrive un utente sotto una foto del presidente. «Putin look me in the eyes this isn’t you you’re better than this», scrive un altro. E ancora: «World War III is not the vibe». Uscivano le foto dei lunghi ingorghi di persone che cercavano di fuggire da Kiev e di cittadini ucraini nascosti nelle stazioni della metropolitana per via dei bombardamenti, e nel frattempo l’hashtag #vladdydaddy raggiungeva 45,5 milioni di visualizzazioni su TikTok. E non si tratta di esser diventati immuni alla violenza. Forse, entrati nel terzo anno della pandemia, mettere in ridicolo la guerra è diventato solo un altro coping mechanism. E, forse, questa è la prova dell’inadeguatezza di questo tipo di guerra rispetto ai nostri tempi, e viceversa. «Just memeing our way through the apocalypse», twitta un altro utente.

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Fabiana D'Eramo

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