Condensare il pacifismo assoluto in una frase è semplice: la guerra, le armi e la violenza sono sempre sbagliate.
Nelle sue numerose varianti è un mantra che in questo difficile momento storico riecheggia ovunque. Che questa sia una posizione morale superiore alle altre – o che, quantomeno, sia la più efficace – però è tutto da vedere.
Per valutare la capacità del pacifismo assoluto di cambiare le sorti di una guerra vera, lo metteremo alla prova nel contesto del conflitto ucraino. Ne analizzeremo l’approccio dal punto di vista logico e cognitivo, concludendo con l’analisi di un intervento di padre Zanotelli sull’Ucraina, divenuto virale.
Le tipologie di pacifismo
Si può essere pacifisti per fede, per posizione filosofica o per la semplice convinzione che la guerra è dannosa, nozione spesso condivisa anche da chi non si definisce pacifista. Quale che sia la spinta iniziale, esistono varie forme in cui il pacifismo si manifesta.
Per alcuni, esso coincide con l’agire in maniera attiva per ostacolare la guerra. Ad esempio attraverso la diserzione, i sabotaggi o l’esercizio di attività volte a limitare le conseguenze della guerra stessa, come il volontariato medico. In questo caso si parla di pacifismo attivista.
Per altri, il no allo scontro si limita solo ai casi più gravi, come la guerra atomica, ma viene accettato quale mezzo risolutivo per diatribe non risolvibili in altro modo. Si tratta in questo caso di pacifismo selettivo.
Si parla di pacifismo condizionale per chi, guidato da principi utilitaristici, ritiene che la guerra sia in generale sbagliata, ma accetti che in alcuni casi possa avere conseguenze meno nefaste delle altre opzioni disponibili.
Infine, si parla di pacifismo assoluto quando il rifiuto per la guerra, le armi e la violenza non prevede alcuna eccezione. Chi vi aderisce ritiene che lo scontro vada sempre evitato, anche in caso di difesa. Ad esempio, rifiuterà di intervenire con la forza per difendere la vittima di un’aggressione. Non solo; considererà riprovevole chi lo fa o chi aiuta la vittima stessa a farlo.
Il pacifismo assoluto dal punto di vista logico
Il concetto di fondo è che se tutti rifiutassimo la guerra, essa non esisterebbe.
Potrebbe funzionare, se vivessimo in un mondo utopico. Nel mondo reale invece questo è impossibile: a prescindere da tutto, esistono persone che vogliono e cercano la guerra e la violenza. O, in maniera più pragmatica, per alcuni la guerra è uno strumento imprescindibile per il raggiungimento dei propri obiettivi. Ne deriva che, in mancanza di qualcuno che li fermi, essi porterebbero la guerra ovunque.
Persona ≠ Stato
Va sottolineato che se la guerra è un fenomeno collettivo, il pacifismo è una scelta per forza individuale. Gli Stati ne sono esclusi per definizione: hanno il dovere di proteggere i propri cittadini e pertanto possono permettersi il pacifismo assoluto solo nel caso teorico in cui non esista alcuna possibilità di essere attaccati.
Ma si tratta di una condizione immaginaria. Ogni nazione può essere aggredita, soprattutto con i mezzi di proiezione bellica globale che esistono al giorno d’oggi.
Ignorare la guerra non la cancella
Si può ignorare la guerra, ma la guerra non ignora nessuno. Il rifiuto di difendersi e di proteggere gli altri dall’altrui aggressione non ci tutela dalla violenza. Anzi, non opponendo alcuna resistenza le si permette di diffondersi con più facilità.
Minor resistenza incontrerà l’aggressore e più sarà propenso ad aggredire di nuovo. Basti pensare a cos’ha portato la politica dell’appeasement con Adolf Hitler negli anni Trenta.
La questione morale
Per questo motivo anche dal punto di vista morale non c’è alcuna superiorità. Disertare uno scontro che eviterebbe conseguenze peggiori non è nobile idealismo, bensì la negazione dell’obbligo morale di salvare vite innocenti quando questo è in nostro potere.
Non aderire al pacifismo assoluto non significa però essere dalla parte della guerra, è una falsa dicotomia.
La guerra purtroppo esiste, che noi lo vogliamo o no. Rifiutare lo scontro a priori, anche quando esso è sensato dal punto di vista utilitaristico, è una posizione che serve più alla propria autostima che alla collettività.
Mai sottovalutare il fattore emotivo
Si tende a dare per scontato che le guerre nascano da spinte razionali e che possano essere disinnescate in maniera altrettanto razionale. La Storia ci insegna che non è così: la guerra non ha bisogno di ragioni.
Ne è un esempio attualissimo il Giappone nella seconda guerra mondiale: ne parla nel dettaglio lo storico Marco Mostarda in questo splendido post.
Prima dello scoppio delle ostilità, il Giappone era sull’orlo del collasso economico a causa delle pesanti sanzioni cui era sottoposto per aver invaso altri Paesi, un po’ come avviene ora con la Russia. Esse ne strozzavano quasi del tutto la capacità di mantenere in funzione l’esercito per i fini offensivi che il regime si era prefissato. Le sanzioni, quindi, stavano funzionando.
Questo non impedì ai generali di scatenare una guerra basata non sulla ragione ma sull’emotività. Puntarono tutto sul fanatismo e sul nazionalismo, anche se era evidente che non potevano vincere. Dall’altra parte c’era una potenza economica e industriale come gli Stati Uniti, capace di sorpassare in brevissimo tempo il Giappone sul piano militare.
Se gli Usa avessero adottato un approccio pacifista sarebbero stati spazzati via. Questo nonostante l’improbabilità, da un punto di vista razionale, che si arrivasse davvero allo scontro.
Il pacifismo assoluto dal punto di vista cognitivo
Prima di approcciare una qualsiasi analisi è cruciale avere ben presente quali sono i fenomeni logici, sociologici e psicologici che è necessario saper riconoscere.
Le manifestazioni che stiamo per vedere, spesso inconsce, non sono un’esclusiva del pacifismo assoluto. Anzi, si possono ritrovare in molte altre ideologie, filosofie e fedi religiose.
Va specificato che non c’è alcun intento di generalizzare: questo elenco non intende affermare che chiunque si ritenga pacifista abbia tutte queste caratteristiche. Va invece considerata come un’utile cassetta degli attrezzi, che contiene i principali strumenti per comprendere le dinamiche dietro a questa e a molte altre ideologie.
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Virtue signalling
Ovvero, l’atteggiamento di chi usa la profonda dedizione verso i propri valori per segnalare all’esterno la propria superiorità morale. Questo porta a non considerare nessuna eccezione alla propria visione del mondo, pena il venir meno della proiezione morale diretta agli altri. Il virtue signaller tende di conseguenza ad assumere posizioni intransigenti. Ciò si traduce in un atteggiamento ostile e altezzoso verso chi non è altrettanto “puro” dal punto di vista morale. Concausa di questo fenomeno è un investimento emozionale e/o religioso troppo grande per tornare sui propri passi (meccanismo correlato allo status quo bias).
Per certi versi, può essere reso in italiano con fariseismo.
Nel contesto del pacifismo esso porta a negare in pubblico lo scontro armato e le armi in generale, senza alcuna eccezione. Nemmeno per difendere le vittime di un’aggressione come nel caso dell’Ucraina.
Eppure, anche se ciò comportasse un maggior numero di vittime e la perdita della libertà per milioni di persone, agli occhi del virtue signaller la sua stessa coscienza rimane immacolata.
Moral grandstanding
Cugino cinico del virtue signalling è il moral grandstanding. È quel fenomeno per cui si pone un argomento di carattere morale estremo al solo fine di pompare il proprio status. In altre parole, fare i moralisti per per un tornaconto d’immagine. Ma mentre il virtue signaller ci crede, il moral grandstander lo fa per vanità.
In questo articolo gli psicologi Brandon Warmke e Justin Tosi approfondiscono la differenza tra virtue signalling e moral grandstanding.
Armchair revolutionary
Ovvero, il rivoluzionario da poltrona. Si tratta di chi sostiene posizioni radicali, senza poi uscire dalla propria area di comfort per realizzare la rivoluzione cui professa di aderire.
Nella fattispecie della crisi ucraina, significa pretendere un generico stop della guerra senza azioni concrete per fermare il conflitto, limitandosi a partecipare a iniziative “comode” (e spesso criticando le proposte altrui). Così l’armchair revolutionary appende la bandiera della pace al balcone, va alle manifestazioni, dona a enti caritatevoli e organizza raccolte di indumenti e viveri. Iniziative che danno a sé stessi la sensazione di fare qualcosa, ma che agiscono come la pillola del giorno dopo: bene che vada aiutano i profughi quando la frittata è fatta, ma non fanno nulla per fermare la guerra che genera quegli stessi profughi.
Che poi, sarebbe la mission stessa del pacifismo assoluto: è un cane che si morde la coda.
Slacktivism
È correlato al punto precedente: lo slacktivist è l’attivista da social. Non partecipa ad attività sul campo ma si limita a condividere, mettere like, usare determinati hashtag, cambiare l’immagine del profilo a tema con la campagna da sostenere. Talvolta fa beneficienza online e firma petizioni su change.org.
È un clicker, non produce alcun contenuto proprio, se non in minima parte. La motivazione che lo spinge non è avere un impatto concreto sul mondo, quanto sentirsi bene con la propria coscienza e mostrarsi agli altri come parte dei buoni. Molti sostengono che sia un modo inefficace di sostenere una causa, altri dicono che nel mondo connesso di oggi abbia comunque un suo peso, seppur infinitesimale. Rimane una forma estrema di armchair revolutionary.
Victim shaming
Si tratta di una terminologia famigliare quando si parla di stupro. È il fenomeno sociale per cui quando una vittima denuncia un’aggressione invece di puntare il dito verso l’aggressore si va a cercare il pelo nell’uovo alla vittima, con il fine di poter dire che “se l’è cercata” per sminuire così la responsabilità dell’assalitore e la gravità dell’accaduto.
Nel caso ucraino è una tecnica usata a tappeto, soprattutto dall’estrema sinistra e dall’estrema destra, senza farsi remore nell’usare fake news. Frasi come «l’Ucraina è governata da nazisti» e «sono stati gli ucraini a violare il cessate il fuoco» abbondano sulle bocche di chi fa victim shaming nei confronti dell’Ucraina, che come ribadito dalle Nazioni Unite è vittima di un’aggressione illegale e ingiustificata.
A ogni modo, l’Ucraina è uno Stato sovrano, non fa parte né della Nato né dell’Ue né degli Stati Uniti, non ha né missili né basi né truppe di Paesi occidentali sul proprio suolo, ha un governo eletto in piena democrazia, con un presidente ebreo nato da una famiglia di sopravvissuti alla Shoah.
Non c’è alcuna maglietta abbastanza scollata che possa fungere da giustificazione: a prescindere da qualsiasi altra considerazione, l’Ucraina ha il diritto sacrosanto di scegliere l’allineamento che preferisce senza subire invasioni militari da parte della Russia, che è e rimane l’unico colpevole di quanto sta avvenendo.
Whataboutism
Altrimenti detto benaltrismo: significa eludere un problema sostenendo che i problemi veri sono “ben altri”, spesso usando fake news.
In altre parole, è un tentativo di far deragliare la discussione su un altro tema. Nel caso dell’invasione russa in Ucraina sono tipiche le frasi come «e allora gli Stati Uniti in Afghanistan/Iraq/Jugoslavia?» o «è colpa della Nato, se non si fosse allargata la Russia non avrebbe attaccato».
Non funziona così: chi passa dalle parole alle mani è il solo responsabile della violenza che egli stesso ha scatenato.
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Authority bias
È la tendenza a ritenere più accurata l’opinione di persone autorevoli, tralasciando per questo i normali processi di verifica cui si sottopone l’opinione di altre persone.
La logica però ci insegna che la fama di chi espone un qualsiasi argomento è irrilevante al fine di determinare se quell’argomento è o non è corretto. In tal senso la lista di castronerie dette da premi Nobel è alquanto lunga e fornisce numerosi esempi di questo fenomeno. Nel caso dell’Ucraina, si traduce nello sfruttare l’opinione di persone ritenute autorevoli dall’utilizzatore quali prova della correttezza della sua tesi, evitando così di doverlo dimostrare per via logico argomentativa.
Moral suasion
Si realizza quando una personalità di alto rilievo sfrutta la propria autorevolezza morale per influenzare il comportamento altrui. Questo si traduce nell’applicare una spinta esterna e volontaria affinché vengano prese o non prese determinate scelte, non per un vincolo di obbedienza formale o gerarchica ma per l’influenza morale data dalla carica ricoperta.
Emblematico è il ruolo della Chiesa, che dall’alto della sua supposta leadership morale influenza le scelte tanto dei normali cittadini quanto dei potenti, in ambiti che dal punto di vista formale non gli competono. In un circolo vizioso, moral suasion da una parte e authority bias dall’altra portano enormi schiere di attivisti a usare come prova della correttezza della propria visione l’opinione delle autorità morali, che consce di questo fenomeno ne approfittano. Un esempio in merito al pacifismo assoluto è il caso reale alla fine di questo articolo.
Omission bias
È la tendenza inconscia a percepire in maniera meno negativa l’omissione di un’azione rispetto alla sua esecuzione, anche se l’output è uguale o simile. Calato nel caso ucraino significa preferire il non far nulla rispetto al rifornire di armi i difensori, anche se entrambi i casi non portano a uno stop pacifico della guerra (ma la seconda permette quantomeno agli aggrediti di difendersi).
Appeasement
Si tratta della dottrina politica per cui quando un dittatore armato fino ai denti reclama qualcosa è buona norma concederglielo dietro la promessa di non aggiungere ulteriori rivendicazioni, al fine di evitare un’escalation militare dal grande potenziale distruttivo.
Questo approccio venne applicato dai Paesi liberali negli anni Trenta con Adolf Hitler: gli fu concesso di annettere i Sudeti, poi l’Austria e infine, nonostante tutte le promesse, invase comunque la Polonia.
Allo stesso modo Vladimir Putin ha invaso la Georgia, annesso la Crimea, scatenato la guerra civile nel Donbass e, nonostante le varie rassicurazioni, ha comunque invaso l’Ucraina.
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False analogy fallacy
È la fallacia logica per cui se una misura ha funzionato bene in un caso, funzionerà altrettanto bene anche negli altri.
Nel caso del pacifismo viene spesso citata l’esperienza di Gandhi, che a detta dei sostenitori è la dimostrazione dell’efficacia del suo metodo non violento (nota di colore, Gandhi non era un pacifista assoluto in senso stretto).
A tal proposito scomodiamo di nuovo Adolf Hitler. Nel 1937 disse quanto segue al ministro degli esteri britannico Lord Halifax: «Spara a Gandhi, e se non è abbastanza per sottometterli, spara a una dozzina dei loro deputati del Congresso, e se non è sufficiente spara ad altri duecento, e via così, finché non avranno chiaro come tratti i tuoi affari».
Se Gandhi avesse avuto a che fare con i nazisti invece che con gli inglesi, le cose sarebbero finite in maniera molto meno pacifica.
Confirmation bias
Tendiamo a ricercare e selezionare le informazioni che confermano i nostri preconcetti, mentre tendiamo a non considerare o a dare minor valore a quelle che li negano.
Ad esempio, il pacifista tenderà a dare maggior risalto a quei momenti in cui il pacifismo ha ottenuto dei risultati, mentre tenderà a ignorare quelli in cui non ha funzionato.
Il caso reale
Quello che segue è un testo divenuto virale, tanto da girare in maniera frenetica in numerosi gruppi Facebook e WhatsApp quale argomento a sostegno dell’efficacia del pacifismo estremo nella crisi ucraina.
«Padre Zanotelli contro il Governo:
Folle rispondere con la minaccia delle armi a una potenza nucleare. La sinistra tradisce la sua missione. Pd, Leu e Sinistra italiana non devono votare la risoluzione per armare l’Ucraina. È estremamente grave che il Governo invii truppe e armi in Ucraina [fake news, N.d.R]. In questo momento dovrebbe spendersi in ambito internazionale per portare Russia e Ucraina al tavolo dell’Onu e trovare soluzioni pacifiche in quella sede. Invece si sceglie di giocare col fuoco e lo si fa dimenticando che la contesa è tra potenze nucleari. Se Putin chiede la neutralità dell’Ucraina, bisogna metterla sul tavolo.
Perché oggi l’Ucraina è una polveriera, è un Paese spaccato profondamente, con un nazionalismo che fa paura. E quando si combinano nazionalismo e religione, è pericolosissimo. Bisognerebbe lavorare, invece, perché le armi tacciano. E questo lo si può fare contrastando le pretese espansionistiche della Nato. Perché l’Ucraina deve entrare nella Nato? Letta non può parlare nel modo in cui ha parlato in Parlamento venerdì. Ma come si fa a usare frasi come ‘mettere in ginocchio’ un Paese? Come si fa a chiedere ancora più armi?
È un atteggiamento assurdo, incomprensibile, grave. Nel silenzio dei pacifisti e della sinistra, tocca a Matteo Salvini andare ad Assisi e pregare per la pace? Ma Salvini è un camaleonte perfetto, un trasformista nato, un opportunista totale. Organizziamo una carovana di centomila auto diretta al confine ucraino. Il mondo della Pace si faccia sentire. I vescovi dei Paesi europei si ritrovino a Kiev. C’è urgenza di gesti importanti.
Fonte, Agenzia di Stampa “Dire”»
L’analisi
All’interno di questo comunicato possiamo ritrovare molti dei fenomeni visti in precedenza, cui se ne aggiunge uno molto più grave: l’uso di fake news.
Né il governo italiano né nessun altro governo occidentale ha autorizzato o effettuato un invio di truppe in Ucraina.
Quanto affermato da Zanotelli è quindi falso.
Eppure, molte persone ci hanno creduto. Questo perché, grazie al confirmation bias, chi trova le conferme ai propri pregiudizi non si pone il problema di controllare la veridicità di quello che legge: è ciò che vuole sentirsi dire in quel momento, e quindi lo prende per vero. Questo meccanismo è estremizzato dall’authority bias, in quanto il testo è diffuso da una personalità di spicco.
È un intervento breve, eppure in così poche parole troviamo una sequenza incredibile di quei fenomeni visti in precedenza.
L’autore:
- si arroga il privilegio di decidere quale sia la vera missione della sinistra, come se dall’alto della sua moralità lui fosse l’unico arbitro degno di poterlo fare (virtue signalling);
- non consiglia, bensì ordina in maniera imperativa ai partiti come devono o non devono votare e ai segretari di partito cosa possono o non possono dire, sfruttando tutto il peso della sua autorità morale (moral suasion);
- scarica sugli altri – Onu, vescovi, governo – la responsabilità di trovare le soluzioni pacifiche che lui in primis non ha in mano, proponendo invece iniziative irrealizzabili, come recarsi a Kiev in piena guerra (armchair revolutionary);
- fa un riprovevole e ingiustificabile victim shaming nei confronti dell’Ucraina, definendola una polveriera nazionalista e arrogandosi il diritto di decidere quale debba essere l’allineamento di uno Stato sovrano;
- scarica una buona parte delle responsabilità russe sulla Nato, che non ha né missili né basi né truppe in Ucraina e non partecipa al conflitto (whataboutism);
- critica i pacifisti moderati, dall’alto della sua intransigenza (virtue signalling).
La nostalgia del novecento
Zanotelli fa anche mostra di una visione anacronistica di cosa sia la sinistra e il pacifismo. La sua è una concezione legata alle ideologie del secolo scorso, che ora dimostrano tutta la loro inadeguatezza nel rapportarsi al mondo odierno. In tal senso la lettera alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea inviata dal celebre storico ed esperto di Russia Andrea Graziosi evidenzia questo aspetto. Con grande eloquenza Graziosi smonta pezzo per pezzo le vecchie basi ideologiche della sinistra e del pacifismo, su cui tanti come Zanotelli basano la propria opinione.
Anche Vito Mancuso mostra una posizione più razionale ed equilibrata. In questo suo editoriale su La Stampa smonta la supposta dannosità dell’inviare aiuti militari all’Ucraina sia dal punto di vista morale che logico.
In conclusione
La pace è l’obiettivo di tutti, se escludiamo i casi estremi.
Purtroppo Vladimir Putin è uno di questi.
La sua condotta ricalca in maniera fin troppo simile quella di altri dittatori che non si sono fatti scrupoli a mettersi dalla parte sbagliata della Storia. La responsabilità della guerra in Ucraina è sua, e degli oligarchi che gli garantiscono il potere.
Ma non è dei russi, che sono essi stessi vittime: da una parte le svariate migliaia di manifestanti contrari alla guerra e arrestati dal regime, dall’altra le svariate migliaia di soldati poco più che ventenni mandati a morire in Ucraina. In mezzo, un popolo plagiato da una propaganda martellante, che non ha idea di cosa stia davvero succedendo.
La responsabilità non è nemmeno degli ucraini, che combattono e muoiono in una battaglia di difesa, di sopravvivenza, di libertà, di autodeterminazione.
Decidere di voltarsi dall’altra parte è lecito, ma non è etico e soprattutto non è la scelta più efficace per evitare ulteriori aggressioni di questo tipo.
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