In origine fare musica era in qualche modo equivalente a eseguirla ed era inimmaginabile scorporarne la fruizione dalla dimensione performativa, che essa comprendesse un mero ascolto (in ogni caso attivo), una danza, una qualche forma di rituale o il semplicemente suonarla e cantarla. È in questa prospettiva che nasce e si sviluppa la musica (per lo meno nella concezione europea-occidentale del termine). La divisione tra la musica colta e quella bassa era piuttosto netta e raramente incontrava la musica popolare, vista come un mondo a sé stante.
Un primo personaggio che ha mutato questo modo di pensare alla musica è stato Erik Satie, il compositore francese che per primo ha pensato all’idea di una musica di accompagnamento, da ascoltare passivamente in sottofondo. Anche con questo modo di pensare, fare musica implica progettare un qualcosa che deve essere suonato e ciò deve accadere in un contesto. È proprio quest’ultimo elemento a porre il maggiore vincolo nel fare musica, guidando così la propria creatività. Un singolo brano può essere calato in un contesto più ampio come quello di un’opera da eseguire a teatro, può servire una funzione specifica all’interno di una messa, o ancora può essere un’opera goliardica o relegata a un contesto popolare. La composizione ha quindi sempre un vincolo relativo a durata, registro linguistico o persino il rapporto che il singolo brano deve avere con quelli che lo precedono e lo seguono (ammesso che ci siano).
Il Novecento ha rivoluzionato completamente la musica; da un lato con la nascita del jazz e dei generi derivati, dall’altro con le avanguardie e la rottura di tutta una serie di usanze più o meno codificate della musica classica. Più di ogni altra cosa ha impattato l’avvento della musica leggera e con questa avviene la vera rivoluzione: cogliendo l’eredità della musica popolare, fare musica rimane ancora qualcosa non per tutti, ma fruirne diventa veramente di massa. Tutto ciò è in realtà inscindibile dagli avanzamenti tecnologici della radio ma soprattutto dei dischi.
Che venisse riprodotto da un jukebox o da un grammofono casalingo, il disco è diventato il vero protagonista della massificazione della musica: in questo modo cadeva il vincolo del concerto, e così anche i contesti. I vecchi modi di fare musica non scomparvero ma per l’emergente mondo della musica questo era un territorio da esplorare. Potendo scegliere cosa e quando ascoltare sorsero nuove necessità, che i musicisti furono in grado di cogliere. Anche il disco, però, pone dei limiti, principalmente quello temporale, e dato che in questa nuova ottica fare musica e trasformarlo in un mestiere implica pubblicare un album, è intorno alle potenzialità e ai limiti del vinile che cambiano i nuovi vincoli della creatività. Non è un caso che il concetto di singolo, di EP e di LP nascono proprio sulla base di vincoli tecnologici e non artistici.
Album e disco finirono per diventare sinonimi, ed è proprio attorno a questo concetto che si concentra la creatività. Che lo si concepisse un tutt’uno o che fosse una semplice raccolta di brani, l’album divenne l’unità di misura con cui giudicare l’evoluzione di un artista e il suo percorso. Ogni disco doveva avere un minimo di coerenza e consistenza artistica, spesso perché curati (oltre che dall’artista) da un produttore e da un mixer, che aggiungevano la propria cifra, un sapore comune a tutte le tracce. Il simbolo massimo dell’album come unità artistica sta nel concept album, ovvero dischi in cui ogni traccia è componente di un unico progetto, con una sola storia, trama o anche solo cornice, ricalcando un po’ i modi di fare della musica classica.
Il concetto di album è così potente che nemmeno l’avanzamento tecnologico riesce a mutarne l’essenza: sia la cassetta che il compact disc (e successivamente le versioni più capienti come il DVD) non sono stati in grado di mutare il disco come concetto di base della produzione musicale. Nemmeno la portabilità della musica con la nascita dei primi walkman e i suoi eredi, nonostante l’enorme potenzialità, sono stati il vero punto di svolta. La summa di tutte queste evoluzioni tecnologiche si sintetizza con l’avvento dell’MP3 e della digitalizzazione della musica con l’arrivo dell’iPod. Per quanto l’iPod non fosse un congegno davvero innovativo, questo aveva un design semplice e accattivante; ma soprattutto, offriva iTunes.
La vera innovazione di iTunes è stata il concetto di libreria: è frutto di una precisa scelta di progettazione ed è l’unità logica sulla quale si sviluppa l’intera applicazione. Attraverso la libreria, iTunes permetteva di organizzare la propria musica in modo virtuale, senza doversi curare di come fisicamente questa venisse conservata nel dispositivo, sincronizzandosi automaticamente con iPod e successivamente iPhone. Il fine ultimo del concetto di libreria era quello di usare una metafora con il mondo reale, rifacendosi ai veri scaffali dove veniva conservata la musica sui supporti fisici, incentivando un accumulo di musica e quindi gli acquisti attraverso la piattaforma. La libreria, per quanto potesse contenere diversi oggetti e offrisse visualizzazioni per criteri diversi, rimane una catalogazione per album, sempre visibile nella schermata che mostra la canzone in riproduzione. Esistono anche le playlist, che ricalcano un po’ le compilation personalizzate ma rimangono oggetti più o meno marginali usati solo dagli utenti che lo desiderano.
L’arrivo di Spotify, per quanto in sordina, ha cambiato tutto. Per quanto lo streaming fosse un concetto ineluttabile, il fatto che sia stato proprio Spotify a popolarizzare la cosa, conquistando una fetta magioritaria del mercato dello streaming e scalzando Apple nel suo ruolo di trend setter, ha fatto sì che potesse creare lo standard di questo nuovo modo di fruire la musica. Qui bisogna fare una piccola digressione: Spotify è un’azienda molto innovativa sul fronte del design, non tanto sul fronte grafico quanto su tutta la parte meno visibile ai meno addetti ai lavori, ovvero i processi di lavoro e la costruzione dell’esperienza utente. Da questo si evince che nessuna scelta, anche quella più piccola è lasciata al caso.
Con Spotify il concetto fondamentale non è più la libreria ma la playlist. Se nella libreria il disco era una vista e un attributo dei brani che la compongono, con le playlist il disco ne è solo un caso particolare, passando così un po’ in secondo piano. La playlist si sposa bene con il concetto di streaming in quanto non è un oggetto necessariamente statico: può esserlo a volte, ma più spesso è un qualcosa di fluido, che muta nel tempo. Le playlist possono anche essere generate automaticamente, addirittura al volo con il concetto di radio che nell’applicazione assume tutto un altro significato, ovvero una playlist creata attorno a un disco, un brano, un artista o un’altra playlist, pescando contenuti simili e adattandosi anche ai feedback in tempo reale sul gradimento, forniti direttamente dall’utente.
Questa sottigliezza, unita alla filosofia di base dello streaming crea delle differenze sostanziali. Lo stream non è solo una questione tecnica della musica scaricata on demand ma diventa un flusso costante di musica, in cui un disco, circoscritto nel tempo e sempre uguale a se stesso sta un po’ stretto. Infatti, anche in un contesto di disco, la riproduzione casuale o meglio lo shuffle era il default e ci è voluta la pressione di un’artista del calibro di Adele per far sì che un disco venisse riprodotto in ordine dall’inizio alla fine.
Se negli anni Novanta sfornare la hit era necessario per vendere il disco, ora tutto ciò che non è hit diventa superfluo, una chicca per i veri fan o alla peggio un riempitivo. Chiaramente l’album non è morto e non è destinato a morire: rimane comunque un unità logica importante per la creatività di molti artisti e rimane anche il momento più importante di marketing, preso in considerazione dalla stampa e punto di partenza dei tour. Paradossalmente, con lo streaming la dimensione performativa è tornata molto rilevante perché, nel compromesso tra pirateria e compensi ridotti, è proprio dai live che si guadagnano i soldi.
La playlist in sé non è, in realtà, l’unico elemento. La strategia di Spotify si basa sul diventare una piattaforma totalizzante che fornisce all’utente tutto quello che può desiderare anche quando non sa di volerlo. A degli algoritmi tenuti segreti per ragioni industriali, che generano playlist su misura dell’utente, si uniscono playlist fatte a mano. Queste ultime possono diventare uno strumento di promozione fondamentale al punto di venire sponsorizzate, oppure diventare dei banchi di legittimazione fondamentali per specifiche nicchie come nel caso dell’iperpop.
Per avere un flusso sempre stimolante, diventa fondamentale fornire sempre del nuovo, al punto che è lo stesso CEO dell’azienda a rivelare che la piattaforma predilige i musicisti che pubblicano spesso.
Tutto questo ha avuto degli impatti lenti ma sempre più evidenti sul modo di fare musica: gli album diventano sempre più brevi e sempre più anticipati da singoli che servono a tenere alto l’hype. La differenza tra EP e LP diventa sempre più irrisoria, fino a chiedersi se vale ancora la pena considerarla. Fare un disco lungo è un suicidio commerciale e quindi diventa una specifica scelta artistica. Aumentano le collaborazioni, in modo da poter apparire più facilmente nei Release Radar (playlist personalizzata con le nuove uscite, rigenerata ogni venerdì) di utenti al di fuori della propria bolla. A volte i dischi diventano delle summe di un percorso di singoli (e di marketing) che servono più a segnare una fase della produzione di un artista che a proporre il progetto.
Un altro fenomeno legato a questo modo di intendere lo streaming è la musica usa e getta. Musica più o meno dozzinale, fatta per essere ascoltata in un flusso o in una radio ed essere velocemente dimenticata, senza mai diventare parte della propria libreria. Sebbene questo fenomeno travalichi i confini di Spotify, è chiaramente una conseguenza di come questa ha plasmato i suoi concetti di base, influenzando anche altre piattaforme con scopi diversi, come Soundcloud, il cui focus principale è la musica indipendente, genitore di fenomeni come il cloud rap. Nascono e si diffondo così infinite web-radio, ospitate su vari canali, che trasmettono ininterrottamente musica che risulta un rumore bianco di artisti sconosciuti. Per quanto anonimi, questi artisti influenzano altri artisti più mainstream che aggiungono queste influenze alla loro musica propagando ulteriormente suoni, stili e sonorità.
Si potrebbero fare ulteriori considerazioni, come sull’aumento della ripetitività di e nelle strutture musicali, o l’abbreviazione, se non scomparsa delle introduzioni, l’accorciamento delle canzoni (nel complesso) e altri aspetti che non passano inosservati a musicisti e ascoltatori ma sono fenomeni ben più ampi. Quello che è chiaro è che il mercato musicale è al centro di profondi mutamenti dovuti alla ricerca di un nuovo paradigma, nato con l’avvento della pirateria digitale e che non ha ancora raggiunto una stabilità duratura.
In tutto ciò è chiaro che il concetto di disco è fatto per durare ancora, non avendo esaurito la sua funzione nel dettare un modo di fare musica che non può scomparire dall’oggi al domani. Tuttavia, il cambio del ruolo del concetto di disco, simboleggia il potere delle singole scelte di design, soprattutto quando queste vengono compiute da aziende pioniere o trend setter.