Nazionale fuori dai Mondiali: cronaca di un disastro annunciato

Il giorno è il 13 novembre del 2017, lo stadio è il Meazza di Milano. Italia-Svezia è bloccata sullo 0-0, gli Azzurri hanno a disposizione un ultimo calcio d’angolo, nel minuto di recupero finale, per cercare il gol della speranza, quello dei tempi supplementari. Il clima a San Siro è un misto di incredulità e shock. Non lo stiamo vivendo davvero. Non può andare sul serio così.
Dalla bandierina, Florenzi prende il pallone e lo bacia. Vuole esorcizzare, sperare, chiedere una preghiera per battezzare quel momento come una rinascita e non un disastro. Quel corner non sortirà effetti e, poco dopo, arriverà il fischio finale. L’immagine resta nella memoria collettiva. La Svezia festeggia, la Nazionale intera, così come la Nazione sportiva, sdraiata a terra, in lacrime. L’Italia non si qualifica ai Mondiali. Una frase che mai avremmo voluto ripetere di nuovo e che, invece, oggi torna reale, perché – per la prima volta nella sua gloriosa ma anche dolorosa storia – la Nazionale di calcio non va ai Mondiali per due edizioni di seguito.

Il tempo dei processi è già partito, così come quello dell’analisi. Giustamente o meno, ora è il momento di riflettere sul perché si sia mancato ancora una volta (la terza in totale) un appuntamento così importante. E le cause, come al solito, trovano radici esaustive nel tempo. Una cosa, però, sembra già certa: ancora più di quel 13 novembre 2017, il 24 marzo del 2022 verrà ricordata come la data del più epocale disastro calcistico nella storia del movimento italiano. Per svariate ragioni, ancor più sportivamente drammatico della precedente disfatta.

Si dice che una volta toccato il fondo si possa solo risalire. Ma evidentemente, nella vita come nello sport, quest’ottimismo non ha mai avuto senso di esistere. Calcisticamente, questa sconfitta assume già i contorni di una delle cose più umilianti che il tifoso medio italiano abbia mai visto. E, com’è normale che non si possano cancellare da un giorno all’altro i recenti trionfi, sarà importante fare un’analisi seria e attenta su tutte le componenti che hanno contribuito a questo abominio sportivo.

Dalle stelle alle stalle: il post Europeo, la tracotanza e la qualificazione buttata

Sembra incredibile ma, ricordiamolo, stiamo pur sempre parlando della Nazionale Campione d’Europa in carica. La scorsa estate infatti aveva visto protagonista assoluta un’Italia che, va detto, tramite i suoi giocatori e il suo C.T. era riuscita nell’impresa quasi impossibile di recuperare l’affetto dei tifosi, per l’appunto dopo l’incredibile brutta figura fatta agli occhi del mondo nel doppio confronto con la Svezia. Attraverso un contagioso entusiasmo, un buon calcio (a tratti ottimo), una grande motivazione e pure un po’ di fortuna, che non deve mai mancare, l’Italia era tornata a trionfare agli Europei, lasciandosi quindi alle spalle una pagina nera per il suo cammino.

Proprio la vittoria dell’Italia all’Europeo, paradossalmente, ha rappresentato l’inizio della fine per il secondo mandato Mancini. Una vittoria forse arrivata più grazie alla forza dei nervi e per via di un momentum sfruttato magnificamente che per una reale forza dominante degli Azzurri. Infatti, a livello di programmazione, la Nazionale partiva per un piazzamento onorevole e non certo per una vittoria.

La conquista di Euro 2020, con tanto di coppa alzata in faccia agli inglesi, purtroppo ha avuto il (de)merito di innescare un meccanismo proprio dei deliri di onnipotenza, sia nella Federazione che nello stesso C.T. e, forse, anche nei calciatori. Una vittoria di Pirro del genere, va detto, avrebbe illuso anche il più pessimista di tutti. E lo ha fatto, costringendo a indossare una benda davanti ai difetti di una squadra che sembrava comunque attanagliata dai soliti problemi: un attacco sterile, una manovra non sempre impeccabile, una certa difficoltà nell’interpretazione di alcuni momenti del match e un ricambio generazione che aveva sortito effetti buoni ma forse non ottimi come ci si aspettava fossero.

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Mancini peggio di Ventura

Spiegavamo prima che questa disfatta assume proporzioni ancora più nefase di quella che non ci portò a Russia 2018. Giusto ribadirlo, anche perché i contesti messi a paragone concedono persino qualche alibi (senza revisionismi storici, sia chiaro) alla truppa Ventura. Quella Nazionale, piuttosto povera tecnicamente, con una guida tecnica totalmente inadatta e una pubblicità di stampa non proprio esaltante, finì seconda nel girone contro una Spagna ingiocabile e perse poi un confronto di playoff contro un avversario certamente inferiore ma anche molto organizzato ed esperto nelle competizioni internazionali.

In questo caso, invece, l’Italia ha letteralmente dilapidato una qualificazione già praticamente conquistata con risultati ai limiti dell’incredibile, un po’ di sfortuna ma anche tanta, tantissima arroganza, soprattutto nel modus operandi di Mancini. Una qualificazione persa contro avversari modesti (Svizzera e Macedonia), senza nemmeno avvicinarsi alla finalina playoff a cui tutti fondamentalmente avevano già rivolto il pensiero. Perché la gara contro la Macedonia poteva e doveva essere solo un intralcio da archiviare.

Inquietanti somiglianze

Italia-Macedonia, sia statisticamente che per andamento, per larghi tratti è stata la copia carbone di Italia-Svezia. La Nazionale ha letteralmente dominato la partita in fatto di occasioni, concedendo pochissimo all’avversario di turno ma soffrendo molto il gioco difensivo altrui, tirando tantissimo ma inquadrando molto raramente la porta.

Confrontate le statistiche di Italia-Macedonia con quelle di questa partita. Paura, eh?

Al di là di alcune scelte apparentemente inspiegabili di Mancini (cosa ci faceva Belotti in tribuna? Una di tante), di fatto l’Italia è andata a sbattere contro quello che per decadi è stato il suo stesso modo di interpretare il gioco. Ha quindi cercato di forzare il palleggio contro una squadra poco tecnica ma chiusa benissimo e con enorme voglia di lottare.

Il reparto nel quale la Nazionale avrebbe dovuto vincere chiaramente il confronto, cioè l’attacco, è venuto meno per l’ennesima volta. E il gol di Trajkovski (ex giocatore del Palermo che elimina l’Italia a Palermo, grazie per il senso dell’umorismo a chi si è occupato di questa scelta) ha solo certificato lo psicodramma strisciante che già serpeggiava allo stadio e davanti alla tv. Il risultato di questa partita forse non ha una specifica logica. Sono tante le partite che una squadra può dominare e poi perdere in maniera beffarda. Il fatto è che, per deduzione, questa partita l’Italia neanche avrebbe dovuto giocarla.

L’errore decisivo e il dato eclatante

Tantissimi i momenti chiave del match. Uno su tutti resterà impresso per molto tempo: Berardi – forse il migliore della Nazionale durante la partita – che si divora un gol praticamente già fatto cercando il piazzato e non la conclusione di cattiveria, a porta vuota. Una fotografia perfetta di ciò che all’Italia è mancato dal termine di questa estate fino a ieri. A cui abbinare una statistica perfetta per far capire la portata di quanto avvenuto: contro la Macedonia, l’Italia ha perso per la prima volta in assoluto (in 60 partite ufficiali) una sfida casalinga di qualificazione ai Mondiali, dopo 48 vittorie e 11 pareggi.

Certo, le controprove della sfortuna e della mancanza di qualità nei momenti decisivi restano una componente credibile. Se solo Jorginho avesse segnato uno dei due rigori contro la Svizzera, probabilmente questo articolo non avrebbe senso di esistere. E, ancora una volta, avremmo celebrato l’Italia come una Nazionale in grado di fare della resilienza la sua qualità cardine. Sussiste poi il rimpianto di aver giocare questa devastante partita senza alcuni uomini chiave, come gli infortunati Di Lorenzo e Chiesa ma anche Scamacca, Zaniolo o Bonucci. Ma con i “se” e i “ma” non si è mai costruito nulla. Così com’è pur vero che, per battere squadre come Svizzera, Bulgaria e Macedonia, c’era materiale sufficientemente collaudato.

Tutti gli errori di Mancini

Se la vittoria dell’Europeo era stata il capolavoro di un Mancini che aveva trovato finalmente la sua dimensione da allenatore/gestore, l’eliminazione dalle qualificazioni Mondiali è certamente il suo punto più basso, l’opera storpia da nascondere nel magazzino.

Complice di una narrativa distorta e altezzosa che aveva costruito già la fine di Ventura, con sparate eclatanti come «andremo al Mondiale e ci andremo per vincere» che hanno fatto da tappeto all’ammasso di polvere presente nelle sale di Coverciano, Mancini ha avuto il coraggio di dare la colpa alla sfiga («dopo l’Europeo la sfortuna ci ha accompagnato», ha spiegato in collegamento con la Rai) pur di non prendersi lui stesso le colpe di un dramma causato in primis dalle sue (non) scelte.

Interpretata e ormai assimilata nel gioco e nell’anima dagli avversari, l’Italia è rimasta ferma nelle sue convinzioni, senza mai provare a cambiare qualcosa. Finendo prevedibilmente vittima di una discesa che i risultati soltanto parzialmente hanno saputo dipingere. Nelle 8 partite ufficiali giocate dopo la vittoria a Euro 2020, l’Italia ha collezionato appena 2 vittorie, segnando soltanto 11 gol (di cui 5 contro la sola modestissima Lituania). A livello tattico imbrigliare l’Italia è diventato facilissimo e anche alcune scelte del C.T. (sia di uomini che di campo e di convocazioni) come già detto sono apparse onestamente rivedibili.

Come Marcello Lippi

L’errore più grave e più grande rappresenta un déjà vu. Mancini è caduto infatti nella stessa trappola che trafisse Marcello Lippi nel 2010, ovvero quella di confermare quasi in toto la squadra che 4 anni prima aveva vinto il Mondiale 2006, l’ultima vittoria degli Azzurri nella Coppa del Mondo.
Lippi chiamò per il Sudafrica 9 dei trionfatori in Germania, ormai usurati dalla mancanza di motivazioni e dal tempo, insistendo a farne la spina dorsale del gruppo. Fu un disastro indimenticabile. Mancini, se possibile, ha fatto anche peggio: invece di prendere la palla al balzo per dare il via a un immediato ricambio, ha confermato praticamente tutta la rosa degli Europei. Ignorando il pericolo più grande, la sazietà di chi ha vinto, finendo inoltre per allontanare un potenziale alleato, la ricerca della fame di vittorie.

Nonostante le possibilità di cambiare esistessero- pur senza trovare fenomeni – come Lippi prima di lui, Mancini ha scelto di dare fiducia in maniera troppo incondizionata ad atleti che probabilmente non avevano più molto da dare in termini mentali e tecnici, così come a calciatori che palesemente erano in ritardo di condizione. Servivano scelte forti, di cui poi eventualmente affrontare le conseguenze. Invece Mancini è stato inutilmente conservativo e ha pagato questo atteggiamento tipicamente nostrano con un tracollo pazzesco.

Situazione Gravina ma non gravissima

Chi come il C.T. è ovviamente responsabile del disastro è anche Gabriele Gravina, presidente FIGC. Anche se lui, tramite dichiarazioni stampa, fa di tutto per togliersi responsabilità. Che invece un personaggio al vertice di un movimento può e deve saper gestire.

Se dopo il fallimento nel Mondiale 2010 Abete e Prandelli si dimisero, così come dopo la disfatta del 2017 Tavecchio e Ventura ebbero il “coraggio” (più corretto dire la dignità) di lasciare, così dovrebbero fare – anche semplicemente come gesto di coerenza – anche Gravina e Mancini. Che però, tramite le più recenti dichiarazioni, hanno già glissato (il tecnico, «Non lo so, vediamo, la delusione ora è troppo grande per parlare di futuro») se non addirittura negato (il presidente) questa possibilità. Non solo: il leader della FIGC ha anzi auspicato un nuovo e rinnovato impegno dell’ex tecnico di Inter e Manchester City sulla panchina della Nazionale. E se anche l’allenatore non lasciasse, si renderebbe comunque concreta la necessità di una rifondazione tecnica.

Un uomo e il suo mondo

Proprio Gravina, in particolare, sembra vivere in un mondo tutto suo. Dove il calcio italiano è in fase di miglioramento, in cui i club italiani vogliono male alla Nazionale e nel quale restare attaccato alla poltrona è una certezza, non un’opzione. Inutile dire che il mondo reale ha mandato ben altri messaggi, anche molto chiari ma evidentemente non colti, volutamente o meno. «I nostri giovani non giocano», dice. E chi dovrebbe fare qualcosa per plasmare una mentalità nuova che veda il loro utilizzo come un plus e non come un malus? Per non parlare poi delle dichiarazioni con cui ha giustificato il voler stare ben saldo in sella: «Devo continuare a proteggere questa Nazionale, si va avanti a testa alta, cercheranno in ogni modo di destabilizzarci». Qualcuno, per favore, lo renda consapevole e lo faccia uscire da Matrix.

Entrambi comunque – Gravina e Mancini – di certo non si rendono conto di una cosa: la Nazionale, attualmente, è lo specchio di un calcio italiano che fa fatica praticamente in ogni aspetto. E se l’Europeo era stata una dolce illusione, adesso la realtà è tornata a bussare alla nostra porta.

Che non sembri un controsenso dopo quanto letto finora. Ma – quasi inutile ribadirlo. O forse no? – la caccia al capro espiatorio ha importanza soltanto relativa. Certo, la squadra, l’allenatore, il presidente federale hanno le loro colpe, questo è evidente agli occhi di tutti. Ma i problemi del calcio italiano nascono e si sviluppano in lontananza, nemmeno troppo nell’ombra. Come un fastidio al petto a cui non si dà troppo peso e che poi, magari, porta all’infarto. Insomma, la situazione è più complessa del dire che Insigne, Immobile o Donnarumma abbiano giocato male.

Le proposte per riformare il calcio

Sia a caldo che a freddo, non si può non essere d’accordo su una valutazione: bisogna cambiare qualcosa. Già. Ma cosa si può fare per riformare seriamente il calcio italiano? Alcune proposte sono già state avanzate da giornalisti e addetti ai lavori. Molte non fattibili, altre semplicemente di buonsenso e intelligenza.

Impossibile, per esempio, non pensare a due mosse che potrebbero risultare addirittura dannose sul breve periodo ma che segnerebbero un trionfo assoluto per quanto riguarda la progettualità. Innanzitutto imporre un numero limitato di stranieri in campo (o nelle rose dei club italiani).E, di contro, aumentare – in maniera perfino obbligatoria – la presenza e la valorizzazione di giovani del vivaio nelle squadre nostrane. Provvedimenti che non avrebbero niente di discriminatorio, antiesterofilo o razzista. Ma che, invece, potrebbero semplicemente dare più certezze di costruzione a un movimento calcistico che nei giovani non hai mai creduto davvero al di là delle frasi da propaganda. In tal senso, lo sfogo del tecnico dell’Under 21 Nicolato ha il sentore delle parole di un profeta in patria.

Anche concedere più stage alla Nazionale (e in questo i club davvero possono e devono diventare complici e alleati) non potrebbe che rappresentare un vantaggio nella preparazione di una squadra che ha il dovere di tornare subito competitiva. Oltre alla necessità ormai acclarata di studiare nuove soluzioni per rendere maggiormente divertente, appettibile e di livello un campionato italiano ormai sprofondato in una triste dimensione nostalgica. I risultati dei club in Europa in questi anni lo dimostrano ampiamente. Non si vince una Champions League dal 2010, l’Europa League da quando ancora si chiamava Coppa UEFA).

Intanto, per adesso, ci si ritrova di nuovo a vivere l’incubo. Almeno fino al Mondiale del 2026. Certo, sempre che l’Italia si qualifichi. Non che prima, poi, sia andata meglio. Dal 2010 a oggi, due eliminazioni nella fase a gironi e due non qualificazioni. Risultati a cui si doveva porre rimedio molto prima e non a intermittenza.

Un calcio malato

La vera speranza è che tutto questo porti, per una buona volta, un insegnamento concreto. E non la tipica risposta “all’italiana”, in cui si cercano soluzioni compromesso per non cambiare mai nulla davvero. Girando e rigirando i pollici su problemi arcinoti, cercando di mettere una coperta pulita su un letto sporco e fatiscente.

Lo si accennava prima: questa eliminazione parte da lontano. Da una cultura sportiva (sia nella vittoria che nella sconfitta) praticamente inesistente. Da vertici federali che ignorano (o fanno finta di non vedere) buchi di bilancio, plusvalenze fittizie, razzismo, omofobia, proponendo al massimo piccole soluzioni tampone. E poi la mancanza di prospettive, il cattivo investimento nelle strutture (con la burocrazia a fare da freno perenne). La mancanza di coraggio nel lanciare i giovani, mista all’enorme velocità con cui li si brucia e li si lascia in pasto all’opinione pubblica. Ma anche le spese matte su giocatori che non troverebbero spazio in Promozione perché costa meno comprarli o pagargli l’ingaggio. O i cori “merda” al portiere avversario che sono di una tristezza infinita. Così come peggio sono i vigliacchi e schifosi ululati razzisti e le discriminazioni territoriali. Problemi che gli stessi club e la medesima Federazione non vogliono assolutamente affrontare con serietà.

Un sistema ormai vecchio, infetto, prossimo alla morte ma che trova sempre un modo fantasioso e paraculo di salvarsi e rigenerarsi. Fino alla prossima catastrofe, fino alla prossima eliminazione. Fino al prossimo disastro annunciato.

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